{tit} El primo libro de Orlando Inamorato, {ed} en {/ed Z} el quale se contiene le diverse aventure e le cagione di esso inamoramento, tradutto da la verace cronica de Turpino, Arcivescovo remense, per il magnifico conte Mateo Maria Boiardo conte de Scandiano. A lo illustrissimo signor Ercule duca de Ferrara. {/tit} Signori e cavallier che ve adunati Per odir cose dilettose e nove, Stati attenti e qui%eti, et ascoltati La bella istoria che 'l mio canto muove; {v} E vedereti {/v Z; Et odirati T 1487} i gesti smisurati, L' alta fatica e le mirabil prove Che fece il franco Orlando per amore Nel tempo del re Carlo imperatore. Non vi par gia\, signor, meraviglioso Odir cantar de Orlando inamorato, Che/ qualunche nel mondo e\ piu\ orgoglioso, E\ da Amor vinto, al tutto subiugato; Ne/ forte braccio, ne/ ardire animoso, Ne/ scudo o maglia, ne/ brando affilato, Ne/ altra possanza puo\ mai far diffesa, Che al fin non sia da Amor battuta e presa. Questa novella e\ nota a poca gente, Perche/ Turpino istesso la nascose, Credendo forse a quel conte valente Esser le sue scritture dispettose, Poi che contra ad Amor pur fu perdente Colui che vinse tutte l' altre cose: Dico di Orlando, il cavalliero adatto. Non piu\ parole ormai, veniamo al fatto. La vera istoria di Turpin ragiona Che regnava in la terra de ori%ente, Di la\ da l' India, un gran re di corona, Di stato e de ricchezze si\ potente E si\ gagliardo de la sua persona, Che tutto il mondo stimava ni%ente: Gradasso nome avea quello amirante, Che ha cor di drago e membra di gigante. E si\ come egli adviene a' gran signori, Che pur quel voglion che non ponno avere, E quanto son difficulta\ maggiori La desi%ata cosa ad ottenere, Pongono il regno spesso in grandi errori, Ne/ posson quel che voglion possedere; Cosi\ bramava quel pagan gagliardo Sol Durindana e 'l bon destrier Baiardo. Unde per tutto il suo gran tenitoro Fece la gente ne l' arme asembrare, Che/ ben sapeva lui che per tesoro Ne/ il brando, ne/ il corsier puote acquistare; Duo mercadanti erano coloro Che vendean le sue merce troppo care: Pero\ destina di passare in Franza Et acquistarle con sua gran possanza. Cento cinquanta millia cavallieri Elesse di sua gente tutta quanta; Ne/ questi adoperar facea pensieri, Perche/ lui solo a combatter se avanta Contra al re Carlo et a tutti guerreri Che son credenti in nostra fede santa; E lui soletto vincere e disfare Quanto il sol vede e quanto cinge il mare. Lassiam costor che a vella se ne vano, Che sentirete poi ben la sua gionta; E ritornamo in Francia a Carlo Mano, Che e soi magni baron provede e conta; Impero\ che ogni principe cristiano, Ogni duca e signore a lui se afronta Per una giostra che aveva ordinata Allor di maggio, alla pasqua rosata. Erano in corte tutti i paladini Per onorar quella festa gradita, E da ogni parte, da tutti i confini Era in Parigi una gente infinita. Eranvi ancora molti Saracini, Perche/ corte reale era bandita, Et era ciascaduno assigurato, Che non sia traditore o rinegato. Per questo era di Spagna molta gente Venuta quivi con soi baron magni: Il re Grandonio, faccia di serpente, E Feraguto da gli occhi griffagni; Re Balugante, di Carlo parente, Isolier, Serpentin, che fo^r compagni. Altri vi fo^rno assai di grande afare, Come alla giostra poi ve avro\ a contare. Parigi risuonava de instromenti, Di trombe, di tamburi e di campane; Vedeansi i gran destrier con paramenti, Con foggie disusate, altiere e strane; E d' oro e zoie tanti adornamenti Che nol potrian contar le voci umane; Pero\ che per gradir lo imperatore Ciascuno oltra al poter si fece onore. Gia\ se apressava quel giorno nel quale Si dovea la gran giostra incominciare, Quando il re Carlo in abito reale Alla sua mensa fece convitare Ciascun signore e baron naturale, Che venner la sua festa ad onorare; E fo^rno in quel convito li assettati Vintiduo millia e trenta annumerati. Re Carlo Magno con faccia ioconda Sopra una sedia d' o^r tra' paladini Se fu posato alla mensa ritonda: Alla sua fronte fo^rno e Saracini, Che non volsero usar banco ne/ sponda, Anzi sterno a giacer come mastini Sopra a tapeti, come e\ lor usanza, Sprezando seco il costume di Franza. A destra et a sinistra poi ordinate Fo^rno le mense, come il libro pone: Alla prima le teste coronate, Uno Anglese, un Lombardo et un Bertone, Molto nomati in la Cristianitate, Otone e Desiderio e Salamone; E li altri presso a lor di mano in mano, Secondo il pregio d' ogni re cristiano. Alla seconda fo^r duci e marchesi, E ne la terza conti e cavallieri. Molto fo^rno onorati e Magancesi, E sopra a tutti Gaino di Pontieri. Rainaldo avea di foco gli occhi accesi, Perche/ quei traditori, in atto altieri, L' avean tra lor ridendo assai beffato, Perche/ non era come essi adobato. Pur nascose nel petto i pensier caldi, Mostrando nella vista allegra fazza; Ma fra se stesso diceva: ## Ribaldi, S' io vi ritrovo doman su la piazza, Vedro\ come stareti in sella saldi, Gente asinina, maledetta razza, Che tutti quanti, se 'l mio cor non erra, Spero gettarvi alla giostra per terra. $# Re Balugante, che in viso il guardava, E divinava quasi il suo pensieri, Per un suo trucimano il domandava, Se nella corte di questo imperieri Per robba, o per virtute se onorava: Accio\ che lui, che quivi e\ forestieri, E de' costumi de' Cristian digiuno, Sapia l' onor suo render a ciascuno. Rise Rainaldo, e con benigno aspetto Al messagier diceva: #_ Raportate A Balugante, poi che egli ha diletto De aver le gente cristiane onorate, Ch' e giotti a mensa e le puttane in letto Sono tra noi piu\ volte acarezate; Ma dove poi conviene usar valore, Dasse a ciascun il suo debito onore. $_ Mentre che stanno in tal parlar costoro, Sonarno li instrumenti da ogni banda; Et ecco piatti grandissimi d' oro, Coperti de finissima vivanda; Coppe di smalto, con sotil lavoro, Lo imperatore a ciascun baron manda. Chi de una cosa e chi d' altra onorava, Mostrando che di lor si racordava. Quivi si stava con molta allegrezza, Con parlar basso e bei ragionamenti: Re Carlo, che si vidde in tanta altezza, Tanti re, duci e cavallier valenti, Tutta la gente pagana disprezza, Come arena del mar denanti a i venti; Ma nova cosa che ebbe ad apparire, Fe' lui con gli altri insieme sbigotire. Pero\ che in capo della sala bella Quattro giganti grandissimi e fieri Intrarno, e lor nel mezo una donzella, Che era {add} seguita {/add; segui\ta Z} da un sol cavallieri. Essa sembrava matutina stella E giglio d' orto e rosa de verzieri: In somma, a dir di lei la veritate, Non fu veduta mai tanta beltate. Era qui nella sala Galerana, Et eravi Alda, la moglie de Orlando, Clarice et Ermelina tanto umana, Et altre assai, che nel mio dir non spando, Bella ciascuna e di virtu\ fontana. Dico, bella parea ciascuna, quando Non era giunto in sala ancor quel fiore, Che a l' altre di belta\ tolse l' onore. Ogni barone e principe cristiano In quella parte ha rivoltato il viso, Ne/ rimase a giacere alcun pagano; Ma ciascun d' essi, de stupor conquiso, Si fece a la donzella prossimano; La qual, con vista allegra e con un riso Da far inamorare un cor di sasso, Incomincio\ cosi\, parlando basso: #_ Magnanimo segnor, le tue virtute E le prodezze de' toi paladini, Che sono in terra tanto cognosciute, Quanto distende il mare e soi confini, Mi {add} da\n {/add; dan Z} speranza che non sian perdute Le gran fatiche de duo peregrini, Che son venuti dalla fin del mondo Per onorare il tuo stato giocondo. Et accio\ ch' io ti faccia manifesta, Con breve ragionar, quella cagione Che ce ha condotti alla tua real festa, Dico che questo e\ Uberto dal Leone, Di gentil stirpe nato e d' alta gesta, Cacciato del suo regno oltra ragione: Io, che con lui insieme fui cacciata, Son sua sorella, Angelica nomata. Sopra alla Tana ducento giornate, Dove reggemo il nostro tenitoro, Ce fo^r di te le novelle aportate, E della giostra e del gran concistoro Di queste nobil gente qui adunate; E come ne/ citta\, gemme o tesoro Son premio de virtute, ma si dona Al vincitor di rose una corona. Per tanto ha il mio fratel deliberato, Per sua virtute quivi dimostrare, Dove il fior de' baroni e\ radunato, Ad uno ad un per giostra contrastare: O voglia esser pagano o baptizato, Fuor de la terra lo venga a trovare, Nel verde prato alla Fonte del Pino, Dove se dice al Petron di Merlino. Ma fia questo con tal condizi%one (Colui l' ascolti che si vo^l provare): Ciascun che sia abattuto de lo arcione, Non possa in altra forma repugnare, E senza piu\ contesa sia pregione; Ma chi potesse Uberto scavalcare, Colui guadagni la persona mia: Esso andara\ con suoi giganti via. $_ Al fin delle parole ingenocchiata Davanti a Carlo attendia risposta. Ogni om per meraviglia l' ha mirata, Ma sopra tutti Orlando a lei s' accosta Col cor tremante e con vista cangiata, Benche/ la volunta\ {add} tenia {/add; teni\a Z} nascosta; E talor gli occhi alla terra bassava, Che/ di se stesso assai si vergognava. ## Ahi paccio Orlando! $# nel suo cor dicia ## Come te lasci a voglia trasportare! Non vedi tu lo error che te desvia, E tanto contra a Dio te fa fallare? Dove mi mena la fortuna mia? Vedome preso e non mi posso aitare; Io, che stimavo tutto il mondo nulla, Senza arme vinto son da una fanciulla. Io non mi posso dal cor dipartire La dolce vista del viso sereno, Perch' io mi sento senza lei morire, E il spirto a poco a poco venir meno. Or non mi val la forza, ne/ lo ardire Contra d' Amor, che m' ha gia\ posto il freno; Ne/ mi giova saper, ne/ altrui consiglio, Ch' io vedo il meglio et al peggior m' appiglio. $# Cosi\ tacitamente il baron franco Si lamentava del novello amore. Ma il duca Naimo, ch' e\ canuto e bianco, Non avea gia\ de lui men pena al core, Anci tremava sbigotito e stanco, Avendo perso in volto ogni colore. Ma a che dir piu\ parole? Ogni barone Di lei si accese, et anco il re Carlone. Stava ciascuno immoto e sbigottito, Mirando quella con sommo diletto; Ma Feraguto, il giovenetto ardito, Sembrava vampa viva nello aspetto, E ben tre volte prese per partito Di torla a quei giganti al suo dispetto, E tre volte afreno\ quel mal pensieri Per non far tal vergogna allo imperieri. Or su l' un piede, or su l' altro se muta, Grattasi 'l capo e non ritrova loco; Rainaldo, che ancor lui l' ebbe veduta, Divenne in faccia rosso come un foco; E Malagise, che l' ha cognosciuta, Dicea pian piano: ## Io ti faro\ tal gioco, Ribalda incantatrice, che giamai De esser qui stata non te vantarai. $# Re Carlo Magno con lungo parlare Fe' la risposta a quella damigella, Per poter seco molto dimorare. Mira parlando e mirando favella, Ne/ cosa alcuna le puote negare, Ma ciascuna domanda li suggella Giurando de servarle in su le carte: Lei coi giganti e col fratel si parte. Non era ancor della citade uscita, Che Malagise prese il suo quaderno: Per saper questa cosa ben compita Quattro demonii trasse dello inferno. Oh quanto fu sua mente sbigotita! Quanto turbosse, Iddio del celo eterno! Poi che cognobbe quasi alla scoperta Re Carlo morto e sua corte deserta. Pero\ che quella che ha tanta beltade, Era figliola del re Galifrone, Piena de inganni e de ogni falsitade, E sapea tutte le incantazi%one. Era venuta alle nostre contrade, Che/ mandata l' avea quel mal vecchione Col figliol suo, ch' avea nome Argalia, E non Uberto, come ella dicia. Al giovenetto avea dato un destrieri Negro quanto un carbon quando egli e\ spento, Tanto nel corso veloce e leggieri, Che gia\ piu\ volte avea passato il vento; Scudo, corazza et elmo col cimieri, E spada fatta per incantamento; Ma sopra a tutto una lancia dorata, D' alta ricchezza e pregio fabricata. Or con queste arme il suo patre il mando\, Stimando che per quelle il sia invincibile, Et oltra a questo uno anel li dono\ Di una virtu\ grandissima, incredibile, Avengache/ costui non lo adopro\; Ma sua virtu\ facea l' omo invisibile, Se al manco lato in bocca se portava: Portato in dito, ogni incanto guastava. Ma sopra a tutto Angelica polita Volse che seco in compagnia ne andasse, Perche/ quel viso, che ad amare invita, Tutti i baroni alla giostra tirasse, E poi che per incanto alla finita Ogni preso barone a lui portasse: Tutti legati li vo^l nelle mane Re Galifrone, il maledetto cane. Cosi\ a Malagise il dimon dicia, E tutto il fatto gli avea rivelato. Lasciamo lui: torniamo a l' Argalia, Che al Petron di Merlino era arivato. Un pavaglion sul prato distendia, Troppo mirabilmente lavorato; E sotto a quello se pose a dormire, Che/ di posarse avea molto desire. Angelica, non troppo a lui lontana, La bionda testa in su l' erba posava, Sotto il gran pino, a lato alla fontana: Quattro giganti sempre la guardava. Dormendo, non parea gia\ cosa umana, Ma ad angelo del cel rasomigliava. Lo annel del suo germano aveva in dito, Della virtu\ che sopra aveti odito. Or Malagise, dal demon portato, Tacitamente per l' aria veniva; Et ecco la fanciulla ebbe mirato Giacer distesa alla fiorita riva; E quei quattro giganti, ogniuno armato, Guardano intorno e gia\ ni%un dormiva. Malagise dicea: ## Brutta canaglia, Tutti vi pigliaro\ senza battaglia. Non vi valeran mazze, ne/ catene, Ne/ vostri dardi, ne/ le spade torte; Tutti dormendo sentirete pene, Come castron balordi avreti morte. $# Cosi\ dicendo, piu\ non si ritiene: Piglia il libretto e getta le sue sorte, Ne/ ancor aveva il primo foglio vo\lto, Che gia\ ciascun nel sonno era sepolto. Esso dapoi se accosta alla donzella E pianamente tira for la spada, E veggendola in viso tanto bella Di ferirla nel collo indugia e bada. L' animo volta in questa parte e in quella, E poi disse: ## Cosi\ convien che vada: Io la faro\ per incanto dormire, E pigliaro\ con seco il mio desire. $# Pose tra l' erba giu\ la spada nuda, Et ha pigliato il suo libretto in mano; Tutto lo legge, prima che lo chiuda. Ma che li vale? Ogni suo incanto e\ vano, Per la potenzia dello annel si\ cruda. Malagise ben crede per certano Che non si possa senza lui svegliare, E cominciolla stretta ad abbracciare. La damisella un gran crido mettia: #_ Tapina me, ch' io sono abandonata! $_ Ben Malagise alquanto sbigotia, Veggendo che non era adormentata. Essa, chiamando il fratello Argalia, Lo {add} tenia {/add; teni\a Z} stretto in braccio tutta fiata; Argalia sonacchioso se sveglione, E disarmato usci\ del pavaglione. Subitamente che egli ebbe veduto Con la sorella quel cristian gradito, Per novita\ gli fu il cor si\ caduto, Che non fu de appressarse a loro ardito. Ma poi che alquanto in se/ fu rivenuto, Con un troncon di pin l' ebbe assalito, Gridando: #_ Tu sei morto, traditore, Che a mia sorella fai tal disonore. $_ Essa gridava: #_ Legalo, germano, Prima ch' io il lasci, che egli e\ nigromante; Che/, se non fosse l' annel che aggio in mano, Non son tue forze a pigliarlo bastante. $_ per questo il giovenetto a mano a mano Corse dove dormiva un gran gigante, Per volerlo svegliar; ma non potea, Tanto lo incanto sconfitto il tenea. Di qua, di la\, quanto piu\ puo\ il dimena; Ma poi che vede che indarno procaccia, Dal suo bastone ispicca una catena, E de tornare indrieto presto spaccia; E con molta fatica e con gran pena A Malagise lega ambe le braccia, E poi le gambe e poi le spalle e il collo: Da capo a piede tutto incatenollo. Come lo vide ben esser legato, Quella fanciulla li cercava in seno; Presto ritrova il libro consecrato, Di cerchi e de demonii tutto pieno. Incontinenti l' ebbe diserrato; E nello aprir, ne/ in piu\ tempo, ne/ in meno, Fu pien de spirti e celo e terra e mare, Tutti gridando: #_ Che vo^i comandare? $_ Ella rispose: #_ Io voglio che portate Tra l' India e Tartaria questo prigione, Dentro al Cataio, in quella gran citate, Ove regna il mio padre Galafrone; Dalla mia parte ce lo presentate, Che/ di sua presa io son stata cagione, Dicendo a lui che, poi che questo e\ preso, Tutti gli altri baron non curo un ceso. $_ Al fin delle parole, o in quello instante, Fu Malagise per l' aere portato, E, presentato a Galafrone avante, Sotto il mar dentro a un scoglio impregionato. Angelica col libro a ogni gigante Discaccia il sonno et ha ciascun svegliato. Ogn' om strenge la bocca et alcia il ciglio, Forte ammirando il passato periglio. Mentre che qua fo^r fatte queste cose, Dentro a Parigi fu molta tenzone, Pero\ che Orlando al tutto se dispose Essere in giostra il primo campione; Ma Carlo imperatore a lui rispose Che non voleva e non era ragione; E gli altri ancora, perche/ ogni om se estima, A quella giostra volean gire in prima. Orlando grandemente avea temuto Che altrui non abbia la donna acquistata, Perche/, come il fratello era abattuto, Doveva al vincitore esser donata. Lui de vittoria sta sicuro e tuto, E gia\ li pare averla guadagnata; Ma troppo gli rencresce lo aspettare, Che/ ad uno amante una ora uno anno pare. Fu questa cosa nella real corte Tra il general consiglio essaminata; Et avendo ciascun sue ragion po\rte, Fu statuita al fine e terminata, Che la vicenda se ponesse a sorte; Et a cui la ventura sia mandata D' essere il primo ad acquistar l' onore, Quel possa uscire alla giostra di fore. Onde fu il nome de ogni paladino Subitamente scritto e separato; Ciascun segnor, cristiano e saracino, Ne l' orna d' oro il suo nome ha gettato; E poi ferno venire un fanciullino Che i breve ad uno ad uno abbia levato. Senza pensare il fanciullo uno afferra; La lettra dice: Astolfo de Anghilterra. Dopo costui fu tratto Feraguto, Rainaldo il terzo, e il quarto fu Dudone; E poi Grandonio, quel gigante arguto, L' un presso all' altro, e Belengiere e Otone; Re Carlo dopo questi e\ for venuto; Ma per non tenir piu\ lunga tenzone, Prima che Orlando ne fo^r tratti trenta: Non vi vo' dir se lui se ne tormenta. Il giorno se calava in ver la sera, Quando di trar le sorte fu compito. Il duca Astolfo con la mente altiera Dimanda l' arme, e non fu sbigottito, Benche/ la notte viene e il cel se anera. Esso parlava, si\ come omo ardito, Che in poco d' ora finira\ la guerra, Gettando Oberto al primo colpo in terra. Segnor, sappiate ch' Astolfo lo Inglese Non ebbe di bellezze il simigliante; Molto fu ricco, ma piu\ fu cortese, Leggiadro e nel vestire e nel sembiante. La forza sua non vedo assai palese, Che/ molte fiate cadde del ferrante. Lui suolea dir che gli era per sciagura, E tornava a cader senza paura. Or torniamo a la istoria. Egli era armato, Ben valeano quelle arme un gran tesoro; Di grosse perle il scudo e\ circondato, La maglia che se vede e\ tutta d' oro; Ma l' elmo e\ di valore ismesurato Per una zoia posta in quel lavoro, Che, se non mente il libro de Turpino, Era quanto una noce, e fu un rubino. Il suo destriero e\ copertato a pardi, Che sopraposti son tutti d' o^r fino. Soletto ne usci\ fuor senza riguardi, Nulla temendo se pose in camino. Era gia\ poco giorno e molto tardi, Quando egli gionse al Petron di Merlino; E ne la gionta pose a bocca il corno, Forte suonando, il cavalliero adorno. Odendo il corno, l' Argalia levosse, Che/ giacea al fonte la persona franca, E de tutte arme subito adobosse Da capo a piedi, che nulla gli manca; E contra Astolfo con ardir se mosse, Coperto egli e il destrier in vesta bianca, Col scudo in braccio e quella lancia in mano Che ha molti cavallier gia\ messi al piano. Ciascun se saluto\ cortesemente, E fo^r tra loro e patti rinovati, E la donzella li\ venne presente. E poi si fo^rno entrambi dilungati, L' un contra l' altro torna parimente, Coperti sotto a i scudi e ben serrati; Ma come Astolfo fu tocco primero, Volto\ le gambe al loco del cimero. Disteso era quel duca in sul sabbione, E crucioso dicea: #_ Fortuna fella, Tu me e' nemica contra a ogni ragione: Questo fu pur diffetto della sella. Negar nol po^i; che/ s' io stavo in arcione, Io guadagnavo questa dama bella. Tu m' hai fatto cadere, egli e\ certano, Per far onore a un cavallier pagano. $_ Quei gran giganti Astolfo ebber pigliato, E lo menarno dentro al pavaglione; Ma quando fu de l' arme dispogliato, La damisella nel viso il guardone, Nel quale era si\ vago e delicato, Che quasi ne piglio\ compassi%one; Unde per questo lo fece onorare, Per quanto onore a pregion si puo\ fare. Stava disciolto, senza guardia alcuna, Et intorno alla fonte solacciava; Angelica nel lume della luna, Quanto potea nascoso, lo amirava; Ma poi che fu la notte oscura e bruna, Nel letto incortinato lo posava. Essa col suo fratello e coi giganti Facea la guardia al pavaglion davanti. Poco lume mostrava ancor il giorno, Che Feraguto armato fu apparito, E con tanta tempesta suona il corno, Che par che tutto il mondo sia finito; Ogni animal che quivi era d' intorno Fuggia da quel rumore isbigotito: Solo Argalia de cio\ non ha paura, Ma salta in piede e veste l' armatura. L' elmo affatato il giovanetto franco Presto se allaccia, e monta in sul corsieri; La spada ha cinto dal sinistro fianco, E scudo e lancia e cio\ che fa mistieri. Rabicano, il destrier, non mostra stanco, Anzi va tanto sospeso e leggieri, Che ne l' arena, dove pone il piede, Signo di pianta ponto non si vede. Con gran voglia lo aspetta Feraguto, Che/ ad ogni amante incresce lo indugiare; E pero\, come prima l' ha veduto, Non fece gia\ con lui lungo parlare; Mosso con furia e senza altro saluto, Con l' asta a resta lo venne a scontrare; Crede lui certo, e faria sacramento, Aver la bella dama a suo talento. Ma come prima la lancia il tocco\, Nel core e nella faccia isbigoti\; Ogni sua forza in quel punto manco\, E lo animoso ardir da lui parti\; Tal che con pena a terra trabucco\, Ne/ sa in quel punto se gli e\ notte o di\. Ma come prima a l' erba fu disteso, Torno\ il vigore a quello animo acceso. Amore, o giovenezza, o la natura Fan spesso altrui ne l' ira esser leggiero. Ma Feraguto amava oltra misura; Giovanetto era e de animo si\ fiero, Che a praticarlo egli era una paura; Piccola cosa gli facea mestiero A volerlo condur con l' arme in mano, Tanto e\ crucioso e di cor subitano. Ira e vergogna lo leva^r di terra, Come caduto fu, subitamente. Ben se apparecchia a vendicar tal guerra, Ne/ si ricorda del patto ni%ente; Trasse la spada, et a pie\ se disserra Ver lo Argalia, battendo dente a dente. Ma lui diceva: #_ Tu sei mio pregione, E me contrasti contro alla ragione. $_ Feraguto il parlar non ha ascoltato, Anci ver lui ne andava in abandono. Ora i giganti, che stavano al prato, Tutti levati con l' arme se sono, E si\ terribil grido han fuor mandato, Che non se odi\ giamai si\ forte trono (Turpino il dice: a me par meraviglia), E tremo\ il prato intorno a lor due miglia. A questi se voltava Feraguto, E non credeti che sia spaventato. Colui che vien davanti e\ il piu\ membruto, E fu chiamato Argesto smisurato; L' altro nomosse Lampordo il veluto, Perche/ piloso e\ tutto in ogni lato; Urgano il terzo per nome si spande, Turlone il quarto, e trenta piedi e\ grande. Lampordo nella gionta lancio\ un dardo, Che se non fosse, come era, fatato, Al primo colpo il cavallier gagliardo Morto cadea, da quel dardo passato. Mai non fu visto can levrer, ne/ pardo, Ne/ alcun groppo di vento in mar turbato, Cosi\ veloci, ne/ dal cel saetta, Qual Feraguto a far la sua vendetta. Giunse al gigante in lo destro gallone, Che tutto lo taglio\, come una pasta, E rene e ventre, insino al petignone; Ne/ de aver fatto il gran colpo li basta, Ma mena intorno il brando per ragione, Perche/ ciascun de' tre forte il contrasta. L' Argalia solo a lui non da\ travaglia, Ma sta da parte e guarda la battaglia. Fie' Feraguto un salto smisurato: Ben vinti piedi e\ verso il cel salito; Sopra de Urgano un tal colpo ha donato, Che 'l capo insino a i denti gli ha partito. Ma mentre che era con questo impacciato, Argesto nella coppa l' ha ferito D' una mazza ferrata, e tanto il tocca, Che il sangue gli fa uscir per naso e bocca. Esso per questo piu\ divenne fiero, Come colui che fu senza paura, E messe a terra quel gigante altiero, Partito dalle spalle alla cintura. Alor fu gran periglio al cavalliero, Perche/ Turlon, che ha forza oltra misura, Stretto di drieto il prende entro alle braccia, E di portarlo presto se procaccia. Ma fosse caso, o forza del barone, Io {add} no' {/add; no Z} 'l so dir, da lui fu dispiccato. Il gran gigante ha di ferro un bastone, E Feraguto il suo brando afilato. Di novo si comincia la tenzone: Ciascuno a un tratto il suo colpo ha menato, Con maggior forza assai ch' io non vi dico; Ogni om ben crede aver co\lto il nemico. Non fu di quelle botte alcuna cassa, Che/ quel gigante con forza rubesta Giunselo in capo e l' elmo gli fraccassa, E tutta quanta disarmo\ la testa; Ma Feraguto con la spada bassa Mena un traverso con molta tempesta Sopra alle gambe coperte di maglia, Et ambedue a quel colpo le taglia. L' un mezo morto, e l' altro tramortito Quasi ad un tratto cascarno sul prato. Smonta l' Argalia e con animo ardito Ha quel barone alla fonte portato, E con fresca acqua l' animo stordito A poco a poco gli ebbe ritornato; E poi volea menarlo al pavaglione, Ma Feraguto niega esser pregione. #_ Che aggio a fare io, se Carlo imperatore Con Angelica il patto ebbe a firmare? Son forsi il suo vasallo o servitore, Che in suo decreto me possa obligare? Teco venni a combatter per amore, E per la tua sorella conquistare: Aver la voglio, o ver morire al tutto. $_ Queste parole dicea Feragutto. A quel rumore Astolfo se e\ levato, Che sino alora ancor forte dormia, Ne/ il crido de' giganti l' ha svegliato Che tutta fe' tremar la prataria. Veggendo i duo baroni a cotal piato, Tra lor con parlar dolce se mettia, Cercando de volerli concordare: Ma Feraguto non vo^le ascoltare. Dicea l' Argalia: #_ Ora non vedi, Franco baron, che tu sei disarmato? Forse che de aver l' elmo in capo credi? Quello e\ rimaso in sul campo spezzato. Or fra te stesso iudica, e provedi Se vo^i morire, o vo^i esser pigliato: Che stu combatti avendo nulla in testa, Tu in pochi colpi finira' la festa. $_ Rispose Feraguto: #_ E' mi da\ il core, Senza elmo, senza maglia e senza scudo, Aver con teco di guerra l' onore; Cosi\ mi vanto di combatter nudo Per acquistare il {add} desi%ato {/add; desiato Z} amore. $_ Cotal parole usava il baron drudo, Pero\ ch' Amor l' avea posto in tal loco, Che per colei s' ari\a gettato in foco. L' Argalia forte in mente si turbava, Vedendo che costui si\ poco il stima Che nudo alla battaglia lo sfidava, Ne/ alla seconda guerra ne/ alla prima, Preso due volte, lo orgoglio abassava, Ma de superbia piu\ montava in cima; E disse: #_ Cavallier, tu cerchi rogna: Io te la grattaro\, che/ 'l ti bisogna. Monta a cavallo et usa tua bontade, Che/, come digno sei, te avro\ trattato; Ne/ aver speranza ch' io te usi pietade, Perch' io ti vegga il capo disarmato. Tu cerchi lo mal giorno in veritade, Facciote certo che l' avrai trovato; Diffendite se po^i, mostra tuo ardire, Che/ incontinente ti convien morire. $_ Ridea Feraguto a quel parlare, Come di cosa che il stimi ni%ente. Salta a cavallo e senza dimorare Diceva: #_ Ascolta, cavallier valente: Se la sorella tua mi vo^i donare, Io non te offendero\ veracemente; Se cio\ non fai, io non ti mi nascondo, Presto serai di quei de l' altro mondo. $_ Tanto fu vinto de ira l' Argalia, Odendo quel parlar che e\ si\ arrogante, Che furi%oso in sul destrier salia, E con voce superba e minacciante Cio\ che dicesse nulla se intendia. Trasse la spada e sprona lo aferante, Ne/ se ricorda de l' asta pregiata, Che al tronco del gran pin stava apoggiata. Cosi\ cruciati con le spade in mano Ambi {add} co' {/add; co Z} 'l petto de' corsieri urtaro. Non e\ nel mondo baron si\ soprano, Che non possan costor star seco al paro. Se fosse Orlando e il sir de Montealbano, Non vi seri\a vantaggio ne/ divaro; Pero\ un bel fatto potreti sentire, Se l' altro canto tornareti a odire. Io vi cantai, segnor, come a battaglia Eran condotti con molta arroganza Argalia, il forte cavallier di vaglia, E Feraguto, cima di possanza. L' uno ha incantata ogni sua piastra e maglia, L' altro e\ fatato, fuor che nella panza; Ma quella parte d' acciarro e\ coperta Con vinte piastre, quest' e\ cosa certa. Chi vedesse nel bosco duo leoni Turbati, et a battaglia insieme appresi, O chi odisse ne l' aria duo gran troni Di tempeste, rumore e fiamma accesi, Nulla sarebbe a mirar quei baroni, Che tanto crudelmente se hanno offesi; Par che il celo arda e il mondo a terra vada, Quando se incontra l' una e l' altra spada. E' si feriano insieme a gran furore, Guardandosi l' un l' altro in vista cruda; E credendo ciascuno esser megliore Trema per ira, e per affanno suda. Or lo Argalia con tutto suo valore Feri\ il nemico in su la testa nuda, E ben si crede senza dubitanza Aver finita a quel colpo la danza. Ma poi che vidde il suo brando polito Senza alcun sangue ritornar al celo, Per meraviglia fu tanto smarito Che in capo e in dosso se li ariccio\ il pelo. In questo Feraguto l' ha assalito; Ben crede fender l' arme come un gelo, E crida: #_ Ora a Macon ti raccomando, Che/ a questo colpo a star con lui ti mando. $_ Cosi\ dicendo, quel barone aitante Ferisce ad ambe man con forza molta; Se stato fosse un monte de diamante, Tutto l' avria tagliato in quella volta. L' elmo affatato a quel brando troncante Ogni possanza di tagliare ha tolta. Se Feragu\ turbosse, io non lo scrivo; Per gran stupor non sa se e\ morto o vivo. Ma poi che ciascadun fu dimorato Tacito alquanto, senza colpezare (Che/ l' un de l' altro e\ si\ meravigliato, Che non ardiva a pena di parlare), L' Argalia prima a Ferragu\ dricciato Disse: #_ Barone, io ti vo' palesare, Che tutte le arme che ho, da capo e piedi, Sono incantate, quante tu ne vedi. Pero\ con meco lascia la battaglia, Che/ altro aver non ne puoi, che danno e scorno. $_ Feragu\ disse: #_ Se Macon mi vaglia, Quante arme vedi a me sopra et intorno, E questo scudo e piastre, e questa maglia, Tutte le porto per essere adorno, Non per bisogno; ch' io son affatato In ogni parte, fuor che in un sol lato. Si\ che, a donarti un optimo consiglio, Benche/ nol chiedi, io ti so confortare Che non te metti de morte a periglio; Senza contesa vogli a me lasciare La tua sorella, quel fiorito giglio, Et altramente tu non puoi campare. Ma se mi fai con pace questo dono, Eternamente a te tenuto sono. $_ Rispose lo Argalia: #_ Barone audace, Ben aggio inteso quanto hai ragionato, E son contento aver con teco pace, E tu sia mio fratello e mio cognato: Ma vo' saper se ad Angelica piace, Che/ senza lei non si faria il mercato. $_ E Feragu\ gli dice esser contento, Che con essa ben parli a suo talento. A benche/ Feragu\ sia giovanetto, Bruno era molto e de orgogliosa voce, Terribile a guardarlo nello aspetto; Gli occhi avea rossi, con batter veloce. Mai di lavarse non ebbe diletto, Ma polveroso ha la faccia feroce: Il capo acuto aveva quel barone, Tutto ricciuto e ner come un carbone. E per questo ad Angelica non piacque, Che/ lei voleva ad ogni modo un biondo; E disse allo Argalia, come lui tacque: #_ Caro fratello, io non mi ti nascondo: Prima me affogarei dentro a quest' acque, E mendicando cercarebbi 'l mondo, Che mai togliessi costui per mio sposo. Meglio e\ morir che star con furi%oso. Pero\ ti prego per lo dio Macone, Che te contenti de la voglia mia. Ritorna a la battaglia col barone, Et io fra tanto per necromanzia Faro\ portarme in nostra regione. Volta le spalle, e vieni anco tu via (Destrier non e\ che 'l tuo segua di lena: Io fermarommi alla selva de Ardena) Accio\ ch' insieme facciamo ritorno Dal vecchio patre, al regno de oltra mare. Ma se quivi non giongi il terzo giorno, Soletta al vento me faro\ passare, Poi che aggio il libro di quel can musorno, Che me credette al prato vergognare. Tu poi adaggio per terra venrai; La strata hai caminata, e ben la sai. $_ Cosi\ tornarno e baroni al ferire, Dapoi che questo a quello ha referito Che la sorella non vo^le assentire; Ma Feragu\ percio\ non e\ partito, Anci destina o vincere o morire. Ecco la dama dal viso florito Subito sparve a i cavallier davante: Presto sen corse il suspettoso amante. Pero\ che spesso la guardava in volto, Parendogli la forza radoppiare; Ma poi che gli e\ davanti cosi\ tolto, Non sa piu\ che si dir, ne/ che si fare. In questo tempo lo Argalia rivolto, Con quel destrier che al mondo non ha pare Fugge del prato e quanto puo\ sperona, E Feraguto e la guerra abandona. Lo inamorato giovanetto guarda, Come gabato si trova quel giorno. Esce del prato correndo e non tarda, E cerca il bosco, che e\ folto, d' intorno. Ben par che nella faccia avampa et arda, Tra se/ pensando il recevuto scorno, E non se arresta correre e cercare; Ma quel che cerca non puo\ lui trovare. Tornamo ora ad Astolfo, che soletto, Come sapete, rimase alla Fonte. Mirata avea la pugna con diletto, E de ciascun guerrer le forze pronte; Or resta in liberta\ senza suspetto, Ringrazi%ando Iddio con le man gionte; E per non dare indugia a sua ventura Monta a destrier con tutta l' armatura. E non aveva lancia il paladino, Che/ la sua nel cadere era spezzata. Guardasi intorno, et al troncon del pino Quella de lo Argalia vidde appoggiata. Bella era molto, e con lame d' o^r fino, Tutta di smalto intorno lavorata; Prendela Astolfo quasi per disaggio, Senza pensare in essa alcun vantaggio. Cosi\ tornando a dietro allegro e baldo, Come colui che e\ sciolto di pregione, Fuor del boschetto ritrovo\ Ranaldo, E tutto il fatto appunto gli contone. Era il figlio de Amon d' amor si\ caldo, Che posar non puotea di passi%one: Pero\ fuor della terra era venuto, Per saper che aggia fatto Feraguto. E come odi\ che fuggian verso Ardena, Nulla rispose a quel duca dal pardo. Volta il destriero e le calcagne mena, E di pigricia accusa il suo Baiardo. De l' amor del patron quel porta pena; E chiamato e\ rozone, asino tardo, Quel bon destrier che va con tanta fretta, Ch' a pena l' avria gionto una saetta. Lasciamo andar Ranaldo inamorato. Astolfo ritorno\ nella citade; Orlando incontinente l' ha trovato, E dalla lunga, con sagacitade, Dimanda come il fatto sia passato Della battaglia, e de sua qualitade. Ma nulla gli ragiona del suo amore, Perche/ vano il cognosce e zanzatore. Ma come intese ch' egli era fuggito L' Argalia al bosco e seco la donzella, E che Rainaldo lo aveva seguito, Partisse in vista nequitosa e fella; E sopra al letto suo cadde invilito, Tanto e\ il dolor che dentro lo martella. Quel valoroso, fior d' ogni campione, Piangea nel letto come un vil garzone. ## Lasso, $# diceva ## ch' io non ho diffesa Contra al nemico che mi sta nel core! Or che/ non aggio Durindana presa A far battaglia contra a questo amore, Qual m' ha di tanto foco l' alma accesa, Che ogni altra doglia nel mondo e\ minore? Qual pena e\ in terra simile alla mia, Che ardo d' amore e giazo in zelosia? Ne/ so se quella angelica figura Se dignara\ de amar la mia persona; Che/ ben sera\ figliol della ventura, E de felice portara\ corona, Se alcun fia amato da tal creatura. Ma se speranza de cio\ me abandona, Ch' io sia sprezato da quel viso umano, Morte me donaro\ con la mia mano. Ahi sventurato! Se forse Rainaldo Trova nel bosco la vergine bella, Che/ ben cognosco io come l' e\ ribaldo, Giamai di man non gli uscira\ polcella. Forse gli e\ mo ben presso al viso saldo! Et io, come dolente feminella, Tengo la guancia posata alla mano, E sol me aiuto lacrimando in vano. Forse ch' io credo tacendo coprire La fiamma che me rode il core intorno? Ma per vergogna non voglio morire. Sappialo Dio ch' allo oscurir del giorno Sol di Parigio mi voglio partire, Et andaro\ cercando il viso adorno, Sin che lo trovo, e per state e per verno, E in terra e in mare, e in cielo e nello inferno. $# Cosi\ dicendo dal letto si leva, Dove giaciuto avea sempre piangendo; La sera aspetta, e lo aspettar lo agreva, E su e giu\ si va tutto rodendo. Uno atimo cento anni li rileva, Or questo adviso or quello in se/ facendo. Ma come gionta fu la notte scura, Nascosamente veste l' armatura. Gia\ non porto\ la insegna del quartero, Ma de un vermiglio scuro era vestito. Cavalca Brigliadoro il cavalliero, E soletto alla porta se ne e\ gito. Non sa de lui famiglio, ne/ scudero; Tacitamente e\ della terra uscito. Ben sospirando ne andava il meschino, E verso Ardena prese il suo cammino. Or son tre gran campioni alla ventura: Lasciali andar, che bei fati farano, Rainaldo e Orlando, ch' e\ di tanta altura, E Feraguto, fior d' ogni pagano. Tornamo a Carlo Magno, che procura Ordir la giostra, e chiama il conte Gano, Il duca Namo e lo re Salomone, E del consiglio ciascadun barone. E disse lor: #_ Segnori, il mio parere E\ che il giostrante ch' al rengo ne viene, Contrasti ciascaduno al suo potere, Sin che fortuna o forza lo sostiene; E 'l vincitor dipoi, come e\ dovere, Dello abbattuto la sorte mantiene, Si\ che rimanga la corona a lui, O sia abbattuto, e dia loco ad altrui. $_ Ciascuno afferma il ditto de Carlone, Si\ come de segnore alto e prudente: Lodano tutti quella invenzi%one. L' ordine dasse: nel giorno seguente Chi vo^l giostrar se trovi su l' arcione. E fu ordinato che primieramente Tenesse 'l rengo Serpentino ardito A real giostra dal ferro polito. Venne il giorno sereno e l' alba gaglia: Il piu\ bel sol giamai non fu levato. Prima il re Carlo entro\ ne la travaglia, Fuor che de gambe tutto disarmato, Sopra de un gran corsier coperto a maglia, Et ha in mano un bastone e il brando a lato. Intorno a' pedi aveva per serventi Conti, baroni e cavallier possenti. Eccoti Serpentin che al campo viene, Armato e da veder meraviglioso: Il gran corsier su la briglia sostiene; Quello alcia i piedi, de andare animoso. Or qua, or la\ la piaza tutta tiene, Gli occhi ha abragiati, e il fren forte e\ schiumoso; Ringe il feroce e non ritrova loco, Borfa le nari e par che getti foco. Ben lo somiglia il cavalliero ardito, Che sopra li veni\a col viso acerbo; Di splendide arme tutto era guarnito, Nello arcion fermo e ne l' atto superbo. Fanciulli e donne, ogni om lo segna a dito; Di tal valor si mostra e di tal nerbo, Che ciascadun ben iudica a la vista, Che altri che lui quel pregio non acquista. Per insegna portava il cavalliero Nel scudo azuro una gran stella d' oro; E similmente il suo ricco cimiero, E sopravesta fatta a quel lavoro, La cotta d' arme e il forte elmo e leggiero Eran stimati infinito tesoro; E tutte quante l' arme luminose Frixate a perle e pietre preci%ose. Cosi\ prese l' arengo quel campione, E poi che l' ebbe intorno passeggiato, Fermosse al campo, come un torri%one. Ma gia\ suonan le trombe da ogni lato; Entrono giostratori a ogni cantone, L' un piu\ che l' altro riccamente armato, Con tante perle e oro e zoie intorno, Che il paradiso ne sarebbe adorno. Colui che vien davanti, e\ paladino; Porta nel blavo la luna de argento, Sir di Bordella, nomato Angelino, Maestro di guerra e giostra e torniamento. Subitamente mosse Serpentino, Con tal velocita\ che parve un vento. Da l' altra parte, menando tempesta, Viene Angelino, e pone l' asta a resta. La\ dove l' elmo al scudo se confina, Feri\ Angelino a Serpentino avante; Ma non se piega adietro, anze se china Adosso al colpo il cavalliero aitante, E lui la vista incontra in tal ruina, Che il fe' mostrare al cielo ambe le piante. Levasi il grido in piaza, ogni om favella Che 'l pregio al tutto e\ di quel dalla Stella. Ora se mosse il possente Ricardo, Che signoreggia tutta Normandia. Un leon d' oro ha quel baron gagliardo Nel campo rosso, e ben ratto veni\a. Ma Serpentino a mover non fu tardo, E rescontrollo a mezo della via, Dandogli un colpo de cotanta pena, Che il capo gli fe' batter su l' arena. O quanto Balugante se conforta, Veggendo al figliol si\ franca persona! Or vien colui che i scacchi al scudo porta, E d' oro ha sopra l' elmo la corona: Re Salamone, quella anima acorta. Stretto a la giostra tutto se abandona; Ma Serpentino a mezo il scudo il fiere, E lui getta per terra e il suo destriere. Astolfo alla sua lancia {add} die\ {/add; die' Z} de piglio, Quella che l' Argalia lascio\ su il prato. Tre pardi d' oro ha nel campo vermiglio, Ben ne veni\a su l' arcione assettato. Ma egli incontro\ grandissimo periglio, Che/ il destrier sotto li fu trabuccato. Tramorti\ Astolfo, e lume e ciel non vede, E dislocosse ancora il destro piede. Spiacque a ciascuno del caso malvaggio, E forse piu\ che a gli altri a Serpentino, Perche/ sperava gettarlo al rivaggio; Ma certamente era falso indovino. Il duca fu portato al suo palaggio, E ritorno\gli il spirto pelegrino; E similmente il piede dislocato Gli fu raconcio e stretto e ben legato. E benche/ Serpentin tanto abbia fatto, Danese Ogier di lui non ha spavento. Mosse il destrier si\ furi%oso e ratto, Quale e\ nel mar di tramontana il vento. Era la insegna del guerrero adatto Il scudo azzurro e un gran scaglion d' argento; Un basalisco porta per cimero Di sopra a l' elmo lo ardito guerrero. Suona^r le trombe: ogni om sua lancia aresta E vengonsi a ferir quei duo campioni. Non fu quel giorno botta si\ rubesta, Che/ parve nel colpir scontro de troni. Danese Ogieri con molta tempesta Ruppe di Serpentin ambi li arcioni: E per la groppa del destrieri il mena, Si\ che disteso il pose in su l' arena. Cosi\ rimase vincitore al campo Il forte Ogieri, e la renga difende. Re Balugante par che meni vampo, Si\ la caduta del figliol lo offende. Anco egli ariva pur a quello inciampo, Perche/ il Danese per terra il distende. Ora si move il giovine Isolieri: Bene e\ possente e destro cavallieri. Era costui di Feragu\ germano; Tre lune d' oro avea nel verde scudo. Mosse 'l destriero, e la lancia avea in mano: Nel corso l' aresto\ quel baron drudo. Il pro' Danese lo mando\ su 'l piano De un colpo tanto dispietato e crudo, Che non se avede se gli e\ morto o vivo, E ben sette ore stie' del spirto privo. Gualtiero da Monleon dopo colui Fu dal Danese per terra gettato. Un drago era la insegna di costui, Tutto vermiglio nel campo dorato. #_ Deh non facciamo la guerra tra nui, $_ Diceva Ogieri #_ o popol baptizato! Ch' io vedo caleffarci a' Saracini, Perche/ facciamo l' un l' altro tapini. $_ Spinella da Altamonte fu un pagano, Ch' era venuto a provar sua persona A questa corte del re Carlo Mano: Nel scudo azuro ha d' oro una corona. Questo fu messo dal Danese al piano. Or Matalista al tutto se abandona: Fratello e\ questo a Fiordespina bella, Ardito, forte e destro su la sella. Costui portava il scudo divisato Di bruno e d' oro, e un drago per cimiero; E cadde sopra al campo riversato. A vota sella ne ando\ il suo destriero. Mosse Grandonio, il cane arabi%ato: Aiuti Ogieri Iddio, che/ gli e\ mistiero! Che/ in tutto il mondo, per ogni confino, Non e\ di lui piu\ forte Saracino. Avea quel re statura de gigante, E venne armato sopra a un gran ronzone; Il scudo negro portava davante, E d' o^r scolpito ha quel dentro un Macone. Non vi fu Cristi%an tanto arrogante Che non temesse di quel can felone: Gan da Pontier, come lo vide in faza, Nascosamente usci\ fuor della piaza. Il simil fe' Macario de Lusana, E Pinabello e il conte de Altafoglia, Ne/ gia\ Falcon da gli altri se alontana: Parli mille anni che de qui se toglia. Sol della gesta perfida e villana Grifon rimase fermo in su la soglia, O virtute o vergogna che il rimorse, O che al partir degli altri non se accorse. Ora torniamo a quel pagano orribile, Che per il campo tal tempesta mena. La sua possanza par cosa incredibile; Porta per lancia un gran fusto de antena. Ne/ di lui manco e\ il suo corsier terribile, Che nella piazza profonda l' arena, Rompe le pietre, fa tremar la terra, Quando nel corso tutto se disserra. Con questa furia ando\ verso il Danese, E proprio a mezo il scudo l' ha colpito: Tutto lo spezza, e per terra il distese Col suo destriero insieme e sbalordito. Il duca Naimo sotto il braccio il prese, E con lui fuor del campo si ne e\ gito; E fe^gli medicare e braccio e petto, Che piu\ che un mese poi stette nel letto. Grande fu il crido per tutta la piaza, E piu\ de gli altri i Saracin se odirno. Grandonio al rengo superbo minaza, Ma non per questo gli altri isbigotirno. Turpin di Rana adosso a lui si caza, E nel mezo del corso se colpirno; Ma il prete usci\ de arcion con tal marti\re, Che ben fu presso al ponto del morire. Astolfo ne la piaza era tornato Sopra a un portante e bianco palafreno; Non avea arme, fuor che 'l brando a lato, E tra le dame, con viso sereno, Piacevolmente s' era solacciato, Come quel che de motti e\ tutto pieno. Ma mentre che lui ciancia, ecco Grifone Fu da Grandonio messo in sul sabbione. Era costui di casa di Maganza, Che porta in scudo azuro un falcon bianco. Crida Grandonio con molta arroganza: #_ O Cristi%ani, e\ gia\ ciascadun stanco? Non gli e\ chi faccia piu\ colpo de lanza? $_ Allor se mosse Guido, il baron franco, Quel de Borgogna, che porta il leone Negro ne l' oro; e cadde dello arcione. Cadde per terra il possente Angelieri, Che porta il drago a capo de donzella. Avino, Avolio, Otone e Berlenzeri, L' un dopo l' altro fur tolti di sella. L' acquila nera portan per cimeri, La insegna a tutti quattro era pur quella; Ma il scudo a scacchi d' oro e de azuro era, Come oggi ancora e\ l' arma di Bavera. Ad Ugo di Marsilia {add} die\ {/add; die' Z} la morte Questo Grandonio, che e\ tanto gagliardo. Quanto piu\ giostra, piu\ se mostra forte; Abbatte Ricciardetto e il franco Alardo, Svilaneggiando Carlo e la sua corte, Chiamando ogni cristian vile e codardo. Ben sta turbato in faccia lo imperieri; Eccoti gionto il marchese Olivieri. Parve che il ciel se aserenasse intorno, Alla sua gionta ogni omo alcio\ la testa. Veni\a il marchese in atto molto adorno; Carlo li uscitte incontra con gran festa. Non vi sta queta ne/ tromba, ne/ corno, Piccoli e grandi de cridar non resta: #_ Viva Olivier, marchese di Vi%ena! $_ Ride Grandonio e prende la sua antena. Or se ne va ciascun de animo acceso, Con tanta furia quanta si puo\ dire; Ma chiunche guarda, attonito e suspeso, Aspetta il colpo di quel gran ferire; Ne/ solo una parola avresti inteso, Tanto par che ciascuno attento mire. Ma nello scontro Olivier di possanza Nel scudo ad alto li attacco\ la lanza. Nove piastre de acciaro avea quel scudo: Tutte le passa Olivier de Vi%ena. Ruppe lo usbergo, e dentro al petto nudo Ben mezo il ferro gl' inchiavo\ con pena. Ma quel gigante dispietato e crudo Feri\ in fronte Olivier con quella antena; E con tanto furor di sella il caccia, Che ando\ longe al destrier ben sette braccia. Ogni om crede di certo che 'l sia morto, Perche/ l' elmo per mezo era partito, E ciascadun che l' ha nel viso scorto, Giura che il spirto al tutto se n' e\ gito. Oh quanto Carlo Magno ha disconforto! E piangendo dicea: #_ Baron fiorito, Onor della mia corte, figliol mio, Come comporta tanto male Iddio? $_ Se quel pagano in prima era superbo, Or non se puo\ se stesso supportare, Cridando a ciascadun con atto acerbo: #_ O paladini, o gente da trincare, Via alla taverna, gente senza nerbo! Io de altro che di coppa so giuocare. Gagliarda e\ questa Tavola Ritonda, Quando minaccia e non vi e\ chi risponda! $_ Quando il re Carlo intende tanto oltraggio, E di sua corte cosi\ fatto scorno, Turbato nella vista e nel coraggio, Con gli occhi accesi se guardava intorno. #_ Ove son quei che me die\n fare omaggio, Che m' hanno abandonato in questo giorno? Ov' e\ Gan da Pontieri? Ove e\ Rainaldo? Ove {add} e\ne {/add; ene Z} Orlando, traditor bastardo? Figliol de una puttana, rinegato! Che, stu ritorni a me, poss' io morire, Se con le proprie man non t' ho impiccato! $_ Questo e molt' altro il re Carlo ebbe a dire. Astolfo, che di dietro l' ha ascoltato, Occultamente se ebbe a dispartire, E torna a casa, e si\ presto si spaccia, Che in un momento gionse armato in piaccia. Ne/ gia\ se crede quel franco barone Aver vittoria contra del pagano, Ma sol con pura e bona intenzi%one Di far il suo dover per Carlo Mano. Stava molto atto sopra dello arcione, E somigliava a cavallier soprano; Ma color tutti che l' han cognosciuto, Diceano: #_ Oh Dio! deh mandaci altro aiuto! $_ Chinando il capo in atto grazi%oso Davante a Carlo, disse: #_ Segnor mio, Io vado a tuor d' arcion quello orgoglioso, Poi ch' io comprendo che tu n' hai desio. $_ Il re, turbato d' altro e disdegnoso, Disse: #_ Va pur, et aiuteti Iddio! $_ E poi, tra' soi rivolto, con rampogna Disse: #_ E' ci manca questa altra vergogna. $_ Astolfo quel pagano ha minacciato Menarlo preso e porlo in mar al remo, Onde il gigante si\ forte e\ turbato, Che cruccio non fu mai cotanto estremo. Nell' altro canto ve avero\ contato, Se sia concesso dal Segnor supremo, Gran meraviglia e piu\ strana ventura Ch' odisti mai per voce, o per scrittura. Segnor, nell' altro canto io ve lasciai Si\ come Astolfo al Saracin per scherno Dicea: #_ Briccone, non te vantarai, Se forse non te vanti ne l' inferno, Di tanti alti baron che abattuto hai. Sappi, come io te piglio, io ti governo Nella galea. Poi che sei gigante, Farotte onore, e serai baiavante. $_ Il re Grandonio, che sempre era usato Dire onta ad altri, e mai non l' ascoltare, Per la grande ira tanto fu gonfiato, Quanto non gonfia il tempestoso mare Alor che piu\ dal vento e\ travagliato E fa il parone ardito paventare. Tanto Grandonio se turba e tempesta, Battendo e denti e crollando la testa, Soffia di sticcia che pare un serpente, Et ebbe Astolfo da se/ combiatato; E rivoltato nequitosamente, Arresta quel gran fusto e smisurato; E ben se crebbe lui certanamente Passarlo tutto, insin da l' altro lato, O de gettarlo morto in sul sabbione, O trarlo in duo cavezzi de l' arcione. Or ne viene il pagano furi%oso. Astolfo contra lui e\ rivoltato, Pallido alquanto e nel cor pauroso, Bench' al morir piu\ che a vergogna e\ dato. Cosi\ con corso pieno e rui%noso Se e\ un barone e l' altro riscontrato. Cadde Grandonio; et or pensar vi lasso Alla caduta qual fu quel fraccasso. Levosse un grido tanto smisurato, Che par che 'l mondo avampi e il cel ruini. Ciascun ch' e\ sopra a' palchi, e\ in pie\ levato, E cridan tutti, grandi e piccolini. Ogni om quanto piu\ puo\ s' e\ la\ pressato. Stanno smariti molto i Saracini; L' imperator, che in terra il pagan vede, Vedendol steso a gli occhi soi non crede. Nella caduta che fece il gigante, Perche/ egli usci\ d' arcion dal lato manco, Quella ferita ch' egli ebbe davante, Quando scontrosse col marchese {t} Franco, {/t Z; franco, S} Tanto s' aperse, che questo {t} Africante {/t Z; africante S} Rimase in terra tramortito e bianco, Sprizzando il sangue fuor con tanta vena, Che una fontana piu\ d' acqua non mena. Chi dice che la botta valorosa De Astolfo il fece, et a lui da\nno il lodo. Altri pur dice il ver, come e\ la cosa. Chi si\, chi no, ciascun parla a suo modo. Fu via portato in pena dolorosa Il re Grandonio; il qual, si\ com' io odo, Occise Astolfo al fin per tal ferita, Benche/ ancor lui quel di\ lascio\ la vita. Stavasi Astolfo nel rengo vincente, Et a se stesso non lo credea quasi. Eraci ancor della pagana gente Duo cavallier solamente rimasi, Di re figlioli, e ciascadun valente, Giasarte il bruno e 'l biondo Pili%asi. Il padre de Giasarte avea acquistata Tutta l' Arabia per forza de spata. Ma quel de Pili%asi la Rossi\a Tutta avea presa, e sotto Tramontana Tenea gran parte de la Tartaria, E confinava al fiume della Tana. Or, per non far piu\ longa diceria, Sol questi duo della fede pagana Giostrorno con Astolfo, e in breve dire L' un dopo l' altro per terra fe' gire. In questo un messo venne al conte Gano, Dicendo che Grandonio era abbattuto. Lui creder non puo\ mai che quel pagano Sia per Astolfo alla terra caduto; Anci pur stima e rendesi certano, Che qualche caso strano intervenuto A quel gigante, fuor d' ogni pensata, Sia stato la cagion di tal cascata. Onde se pensa lui mo d' acquistare Di quella giostra il tri%omfale onore; E per voler piu\ bella mostra fare, Con pompa grande e con molto valore, Undeci conti seco fece armare, Che/ di sua casa n' avea tratto il fiore. Va nanti a Carlo, e con parlar gagliardo Fa molta scusa del suo gionger tardo. O si\ o no che Carlo l' accettasse, Io nol so dir; pur gli fe' bona ciera. Parme che Gano ad Astolfo mandasse; Poi che non gli e\ pagano alla frontera, Che la giostra tra lor se terminasse; Perche/, essendo valente come egli era, Dovea agradir quante piu\ gente vano A riscontrarlo, per gettarli al piano. Astolfo, che e\ parlante di natura, Diceva al messo: #_ Va, rispondi a Gano: Tra un Saracino e lui non pongo cura, Che/ sempre il stimai peggio che pagano, De Dio nimico e d' ogni creatura, Traditor, falso, eretico e villano. Venga a sua posta, ch' io il stimo assai meno Che un sacconaccio di letame pieno. $_ Il conte Gano che ode quella ingiuria, Nulla risponde; ma tutto fellone Verso de Astolfo se ne va con furia; E fra se stesso diceva: ## Giottone! Io te faro\ di zanze aver penuria. $# Ben se crede gettarlo dello arcione, Perche/ cio\ far non gli era cosa nova, Et altre volte avea fatto la prova. Or non ando\ come si crede il fatto: Gano le spalle alla terra mettia. Macario dopo lui si mosse ratto, E fe', cadendo, a Gano compagnia. #_ Potrebbe fare Iddio, che questo matto $_ Diceva Pinabello #_ a cotal via Vergogna tutta casa di Magancia? $_ Cosi\ dicendo arresta la sua lancia. Questo ancor cadde con molta tempesta. Non dimandar se Astolfo si dimena, Forte gridando: #_ Maledetta gesta, Tutti alla fila vi getto a l' arena. $_ Conte Smiriglio una grossa asta arresta, Ma Astolfo il trabucco\ con tanta pena, Che fo portato per piede e per mano. Oh quanto se lamenta il conte Gano! Questo surgendo, diceva Falcone: #_ Ha la fortuna in se/ tanta nequizia? Puo\ farlo il celo che questo buffone Oggi ce abbatta tutti con tristizia? $_ Nascosamente sopra dello arcione Legar si fece con molta malizia, E poi ne viene Astolfo a ritrovare: Legato e\ in sella, e gia\ non puo\ cascare. Proprio alla vista il duca l' incontrava, Et hallo in tal maniera sbarattato, Che ora da un canto, or da l' altro pigava, Si\ come al tutto de vita passato. Ogni omo attende se per terra andava. Alcun se avidde che gli era legato, Unde levosse subito il rumore: #_ Da\gli, che/ gli e\ legato il traditore. $_ Fu via menato con molta vergogna De tutti e suoi, e con suo gran tormento. Non vi vo' dir se 'l conte Gano agogna. Astolfo crida con molto ardimento: #_ Venga chi vo^l ch' io gli gratti la rogna, E legase pur ben, ch' io son contento; Perche/ legato, senza alcuna briga, Meglio che sciolto, il paccio si castiga. $_ Anselmo della Ripa, il falso conte, Nella sua mente avea fatto pensieri Di vendicarse a inganno di tante onte: Che, come Astolfo colpisce primeri, Esso improviso riscontrarlo a fronte. A lui davanti va il conte Raineri, Quel di Altafoglia; Anselmo, gli e\ di spalle: Credese ben mandare Astolfo a valle. Astolfo con Raineri e\ riscontrato. A gambe aperte il trasse dello arcione; E non essendo ancor ben rassettato Pel colpo fatto, si\ come e\ ragione, Anselmo de improviso l' ha trovato, Con falso inganno e molta tradigione, Avvengache/ si\ fece quel malvaso, Che non apparve volunta\, ma caso. Nulla di manco Astolfo ando\ pur gioso; Sopra la sabbia distese la schena. Pensati voi se ne fo doloroso: Che/, come in piedi fu dricciato apena, Trasse la spada irato e disdegnoso, E quella intorno fulminando mena Contra di Gano e di tutta sua gesta. Gionse a Grifone, e da\gli in su la testa. Da morte il campo\ l' elmo acciarino. Or se comincia una gran ciuffa in piaccia, Perche/ Gaino, Macario et Ugolino Adosso a Astolfo con l' arme se caccia. Ma il duca Naimo, Ricardo e Turpino Di darli aiuto ciascun se procaccia; Di qua, di la\ se ingrossa piu\ la gente. Gionse il re Carlo a questo inconveniente, Dando gran bastonate a questo e quello, Che a piu\ di trenta ne ruppe la testa. #_ Chi fu quel traditor, chi fu il ribello, Che avuto ha ardir a sturbar la mia festa? $_ Volta il corsiero in mezzo a quel trapello, Ne/ di menar per questo il baron resta. Ciascun fa largo a l' alto imperatore, O li fugge davanti, o fagli onore. Dicea lui a Gano: #_ Ahime\! che cosa e\ questa? $_ Dicea ad Astolfo: #_ Or diessi cosi\ fare? $_ Ma quel Grifon che avea rotta la testa, Se ando\ davanti a Carlo a ingenocchiare, E con voce angosciosa, alta e molesta, #_ Iustizia! $_ forte comincia a cridare #_ Iustizia, segnor mio, magno e preziato, Ch' io sono in tua presenzia assassinato. Sappi, segnor, da tutta questa gente, Ch' io te ne prego, come il fatto e\ andato; E, stu ritrovi che primeramente Fosse lo Anglese da mi molestato, Chiamomi il torto, e stommi paci%ente: Su questa piazza voglio esser squartato. Ma se il contrario sua ragione agreva, Fa che ritorni il male onde se leva. $_ Astolfo era per ira in tanto errore, Che non stima de Carlo la presenza; Anci diceva: #_ Falso traditore, Che sei ben nato da quella semenza! Io te traro\ del petto fora il core, In prima che de qui facciam partenza. $_ Dicea Grifone a lui: #_ Temote poco, Quando seremo fuor di questo loco. Ma qui me sottometto alla ragione, Per non far disonore al segnor mio. $_ Segue il duca dicendo: #_ Can felone, Ladro, ribaldo, maledetto e rio. $_ Turbosse ne la faccia il re Carlone, Dicendo: #_ Astolfo, per lo vero Iddio, Se non te adusi a parlar piu\ cortese, Farotte costumato alle tue spese. $_ Astolfo al re non attende de niente, Sempre parlando con piu\ vilania, Come colui che offeso e\ veramente, Avvengache/ altri cio\ non intendia. Eccoti Anselmo, il conte fraudolente, Per mala sorte inanti gli veni\a. Piu\ non se puote Astolfo contenire, Ma con la spada quel corse a ferire. E certamente ben l' arebbe morto, Se non l' avesse il re Carlo diffeso. Or da\ ciascuno ad Astolfo gran torto, E volse lo imperier ch' el fusse preso, E subito al castello a furia scorto. Nella pregion portato fu di peso, Dove di sua pacci\a buon frutto tolse, Perche/ vi stette assai piu\ che non volse. Or lasciamo star lui, poi che sta bene A rispetto de' tre altri inamorati, Che senton per Angelica tal pene, Ne/ giorno o notte son mai riposati. Ciascun di lor diverso camin tiene, E gia\ son tutti in Ardena arivati. Prima vi giunse il principe gagliardo, {add} Merce/ {/add; Merce\ Z} de' sproni del destrier Bagliardo. Dentro alla selva il barone amoroso Guardando intorno se mette a cercare: Vede un boschetto d' arboselli ombroso, Che in cerchio ha un fiumicel con onde chiare. Preso alla vista del loco zoioso, In quel subitamente ebbe ad intrare, Dove nel mezo vide una fontana, Non fabricata mai per arte umana. Questa fontana tutta e\ lavorata De un alabastro candido e polito, E d' o^r si\ riccamente era adornata, Che rendea lume nel prato fiorito. Merlin fu quel che l' ebbe edificata, Perche/ Tristano, il cavalliero ardito, Bevendo a quella lasci la regina, Che fu cagione al fin di sua ruina. Tristano isventurato, per sciagura A quella fonte mai non e\ arivato, Benche/ piu\ volte andasse alla ventura, E quel paese tutto abbia cercato. Questa fontana avea cotal natura, Che ciascun cavalliero inamorato, Bevendo a quella, amor da se/ cacciava, Avendo in odio quella che egli amava. Era il sole alto e il giorno molto caldo, Quando fu giunto alla fiorita riva Pien di sudore il principe Ranaldo; Et invitato da quell' acqua viva Del suo Baiardo dismonta di saldo, E de sete e de amor tutto se priva; Perche/, bevendo quel freddo liquore, Cangiosse tutto l' amoroso core. E seco stesso pensa la viltade Che sia a seguire una cosa si\ vana; Ne/ aprezia tanto piu\ quella beltade, Ch' egli estimava prima piu\ che umana, Anci del tutto del pensier li cade; Tanto e\ la forza de quella acqua strana! E tanto nel voler se tramutava, Che gia\ del tutto Angelica odi%ava. Fuor della selva con la mente altiera Ritorna quel guerrer senza paura. Cosi\ pensoso, gionse a una riviera De un' acqua viva, cristallina e pura. Tutti li fior che mostra primavera, Avea quivi depinto la natura; E faceano ombra sopra a quella riva Un faggio, un pino et una verde oliva. Questa era la rivera dello amore. Gia\ non avea Merlin questa incantata; Ma per la sua natura quel liquore Torna la mente incesa e inamorata. Piu\ cavallieri antiqui per errore Quella unda maledetta avean gustata; Non la gusto\ Ranaldo, come odete, Pero\ che al fonte se ha tratto la sete. Mosso dal loco, il cavalier gagliardo Destina quivi alquanto riposare; E tratto il freno al suo destrier Bagliardo, Pascendo intorno al prato il lascia andare. Esso alla ripa senz' altro riguardo Nella fresca ombra s' ebbe adormentare. Dorme il barone, e nulla se sentiva; Ecco ventura che sopra gli ariva. Angelica, dapoi che fu partita Dalla battaglia orribile et acerba, Gionse a quel fiume, e la sete la invita Di bere alquanto, e dismonta ne l' erba. Or nova cosa che averite odita! Che/ Amor vo^l castigar questa superba. Veggendo quel baron nei fior disteso, Fu il cor di lei subitamente acceso. Nel pino atacca il bianco palafreno, E verso di Ranaldo se avicina. Guardando il cavallier tutta vien meno, Ne/ sa pigliar partito la meschina. Era dintorno al prato tutto pieno Di bianchi gigli e di rose di spina; Queste disfoglia, et empie ambo le mano, E danne in viso al sir de Montealbano. Pur presto si e\ Ranaldo disvegliato, E la donzella ha sopra a se/ veduta, Che salutando l' ha molto onorato. Lui ne la faccia subito se muta, E prestamente nello arcion montato Il parlar dolce di colei rifiuta. Fugge nel bosco per gli arbori spesso: Lei monta il palafreno e segue apresso. E seguitando drieto li ragiona: #_ Ahi franco cavalier, non me fuggire! Che/ t' amo assai piu\ che la mia persona, E tu per guidardon me fai morire! Gia\ non sono io Ginamo di Baiona, Che nella selva ti venne assalire, Non son Macario, o Gaino il traditore; Anci odio tutti questi per tuo amore. Io te amo piu\ che la mia vita assai, E tu me fuggi tanto disdignoso? Vo\ltati almanco, e guarda quel che fai, Se 'l viso mio ti die' far pauroso, Che con tanta ruina te ne vai Per questo loco oscuro e periglioso. Deh tempra il strabuccato tuo fuggire! Contenta son piu\ tarda a te seguire. Che se per mia cagion qualche sciagura Te intravenisse, o pur al tuo destriero, Seri\a mia vita sempre acerba e dura, Se sempre viver mi fosse mistiero. Deh volta un poco indrieto, e poni cura Da cui tu fuggi, o franco cavalliero! Non merta la mia etade esser fuggita, Anci, quando io fuggessi, esser {add} seguita. {/add; segui\ta. Z} $_ Queste e molte altre piu\ dolci parole La damigella va gettando invano. Bagliardo fuor del bosco par che vole, Et escegli de vista per quel piano. Or chi sapra\ mai dir come si dole La meschinella e batte mano a mano? Dirottamente piange, e con mal fiele Chiama le stelle, il sole e il cel crudele. Ma chiama piu\ Ranaldo crudel molto, Parlando in voce colma di pietate. ## Chi avria creduto mai che quel bel volto $# Dicea lei ## fosse senza umanitate? Gia\ non me ha il cor amor fatto si\ stolto Ch' io non cognosca che mia qualitate Non se convene a Ranaldo pregiato; Pur non die' sdegnar lui de essere amato. Or non doveva almanco comportare Ch' io il potessi vedere in viso un poco, Che/ forse alquanto potea mitigare, A lui mirando, lo amoroso foco? Ben vedo che a ragion nol debbo amare; Ma dove e\ amor, ragion non trova loco Per che crudel, villano e duro il chiamo, Ma sia quel che si vo^le, io cosi\ l' amo. $# E cosi\ lamentando ebbe voltata Verso il faggio la vista lacrimosa: #_ Beati fior, $_ dicendo #_ erba beata, Che toccasti la faccia grazi%osa, Quanta invidia vi porto a questa fiata! Oh quanto e\ vostra sorte aventurosa Piu\ della mia! Che mo torria a morire, Se sopra lui me dovesse venire. $_ Con tal parole il bianco palafreno Dismonta al prato la donzella vaga, E dove giacque Ranaldo sereno, Bacia quelle erbe e di pianger se appaga, Cosi\ stimando il gran foco far meno; Ma piu\ se accende l' amorosa piaga. A lei pur par che manco doglia senta Stando in quel loco, et ivi se adormenta. Segnori, io so che vi meravigliati Che 'l re Gradasso non sia gionto ancora In tanto tempo; ma vo' che sappiati Che piu\ tre giorni non faran dimora. Gia\ sono in Spagna i navigli arrivati. Ma non vo' ragionar de esso per ora, Che/ prima vo' contar cio\ che e\ avvenuto De' nostri erranti, e pria de Feraguto. Il giovanetto per quel bosco andava, Acceso nella mente a dismisura; Amore et ira il petto gli infiammava. Lui piu\ sua vita una paglia non cura, Se quella bella donna non trovava, O l' Argalia dalla forte armatura; Che/ assai sua pena gli era men dispetta, Quando con lui potesse far vendetta. E cavalcando con questo pensiero, Guardandose de intorno tuttavia, Vede dormire a l' ombra un cavalliero, E ben cognosce ch' egli e\ l' Argalia. Ad un faggio e\ legato il suo destriero. Feragu\ prestamente il dissolvia, Indi con fronde lo batte e minaccia, E per la selva in abandono il caccia. E poi fu presto in terra dismontato, E sotto un verde lauro ben se assetta, Al quale aveva il suo destrier legato, E che Argalia se svegli, attento aspetta; Avvengache/ quello animo infiammato Male indugiava a far la sua vendetta; Ma pur tra se/ la collera {add} rodia, {/add; rodi\a, Z} Parendoli il svegliarlo vilania. Ma in poco d' ora quel guerrer fu desto, E vede che fuggito e\ il suo destriero. Ora pensati quanto gli e\ molesto, Poi che de andare a pie\ gli era mestiero. Ma Feraguto a levarse fu presto, E disse: #_ Non pensare, o cavalliero, Che/ qui convien morire o tu, o io: Di quei che campa sera\ il destrier mio. Lo tuo disciolsi per tuorti speranza Di potere altra volta via fuggire; Si\ che col petto mostra tua possanza, Che/ nelle spalle non dimora ardire. Tu me fuggesti e facesti mancanza, Ma ben mi spero fartene pentire. Esser gagliardo e diffenderti bene, Se non, lassar la vita te conviene. $_ Diceva l' Argalia: #_ Scusa non faccio, Che 'l mio fuggir non fosse mancamento; Ma questa man ti giuro, e questo braccio, E questo cor che nel petto mi sento, Ch' io non fuggiti per battaglia saccio, Ne/ doglia, ne/ stracchezza, ne/ spavento, Ma sol me ne fuggiti oltra al dovere Per far a mia sorella quel piacere. Si\ che prendila pur come ti piace, Che a te sono io bastante in ogni lato. Sia a tuo piacere la guerra e la pace, Che sai ben che altra volta io te ho anasato. $_ Cosi\ parlava il giovanetto audace; Ma Feraguto non e\ dimorato, Forte cridando con voce de ardire: #_ Da me ti guarda! $_ e vennelo a ferire. L' un contra l' altro de' baron se mosse, Con forza grande e molta maistria. Il menar delle spade e le percosse Presso che un miglio nel bosco se odi\a. Or l' Argalia nel salto se riscosse, Con la spada alta quanto piu\ potia, Fra se/ dicendo: ## Io nol posso ferire, Ma tramortito a terra il faro\ gire. $# Menando il colpo l' Argalia minaccia, Che certamente l' averia stordito; Ma Feraguto adosso a lui se caccia, E l' un con l' altro presto fu gremito. Piu\ forte e\ lo Argalia molto di braccia, Piu\ destro e\ Feraguto e piu\ espedito. Or alla fin, non pur cosi\ di botto, Feragu\ l' Argalia messe di sotto. Ma come quel che avea possanza molta, Tenendo Feragu\ forte abracciato Cosi\ per terra di sopra se volta. Battelo in fronte col guanto ferrato, Ma Feragu\ la daga avea in man tolta, E sotto al loco dove non e\ armato, Per l' anguinaglia li passo\ al gallone. Ah, Dio del cel, che gran compassi%one! Che/ se quel giovanetto aveva vita, Non seri\a stata persona piu\ franca, Ne/ di tal forza, ne/ cotanto ardita: Altro che nostra Fede a quel non manca. Or vede lui che sua vita ne e\ gita; E con voce angosciosa e molto stanca Rivolto a Feragu\ disse: #_ Un sol dono Voglio da te, dapoi che morto sono. Cio\ te dimando per cavalleria: Baron cortese, non me lo negare! Che me con tutta l' armatura mia Dentro d' un fiume tu debbi gettare, Perche/ io son certo che poi si diria, Quando altro avesse queste arme a provare: Vil cavallier fu questo e senza ardire, Che cosi\ armato se lascio\ morire. $_ Piangea con tal pietate Feraguto, Che parea un giaccio posto al caldo sole, E disse a l' Argalia: #_ Baron compiuto, Sappialo Iddio di te quanto mi dole. Il caso doloroso e\ intravenuto: Sia quel che 'l celo e la fortuna vo^le. Io feci questa guerra sol per gloria: Non tua morte cercai, ma mia vittoria. Ma ben di questo te faccio contento: A te prometto sopra la mia Fede, Che andara\ il tuo volere a compimento, E se altro posso far, comanda e chiede. Ma perch' io sono in mezo al tenimento De' Cristi%ani, come ciascun vede, E sto in periglio, s' io son cognosciuto, Baron, ti prego, dammi questo aiuto. Per quattro giorni l' elmo tuo mi presta, Che poi lo gettaro\ senza mentire. $_ Lo Argalia gia\ morendo alcia la testa, E parve alla dimanda consentire. Qui stette Ferragu\ ne la foresta Sin che quello ebbe sua vita a finire; E poi che vide che al tutto era morto, In braccio il prende quel barone acorto. Subito il capo gli ebbe disarmato, Tuttor piangendo, l' ardito guerrero: E lui quello elmo in testa se ha allacciato, Troncando prima via tutto il cimero. E poi che sopra al caval fu montato, Col morto in braccio va per un sentiero Che dritto alla fiumana il conducia; A quella giunto, getta l' Argalia. E stato un poco quivi a rimirare, Pensoso per la ripa se e\ aviato. Or vogliovi de Orlando racontare, Che quel deserto tutto avea cercato, E non poteva Angelica trovare; Ma crucioso oltra modo e disperato, E biastemando la fortuna fella, Apunto giunse dove e\ la donzella. La qual dormiva in atto tanto adorno, Che pensar non si puo\, non che io lo scriva. Parea che l' erba a lei fiorisse intorno, E de amor ragionasse quella riva. Quante sono ora belle, e quante fo^rno Nel tempo che bellezza piu\ fioriva, Tal sarebbon con lei, qual esser suole L' altre stelle a Di%ana, o lei col sole. Il conte stava si\ attento a mirarla, Che sembrava omo de vita diviso, E non attenta ponto di svegliarla; Ma fiso riguardando nel bel viso In bassa voce con se stesso parla: ## Sono ora quivi, o sono in paradiso? Io pur la vedo, e non e\ ver ni%ente, Pero\ ch' io sogno e dormo veramente. $# Cosi\ mirando quella se diletta Il franco conte, ragionando in vano. Oh quanto se/ a battaglia meglio assetta Che d' amar donne quel baron soprano! Perche/ qualunche ha tempo, e tempo aspetta, Spesso se trova vota aver la mano: Come al presente a lui venne a incontrare, Che perse un gran piacer per aspettare. Pero\ che Feraguto caminando Dietro alla riva in sul prato giongia, E quando quivi vede il conte Orlando, Avvengache/ per lui nol cognoscia, Assai fra se/ si vien meravigliando. Poi vede la donzella che dormia: Ben prestamente l' ebbe cognosciuta; Tutto nel viso e nel pensier se muta. Certo se crede lui, senza mancanza, Che 'l cavallier se stia li\ per guardarla; Unde con voce di molta arroganza, A lui rivolto, subito gli parla: #_ Questa prima fu mia che la tua manza, Pero\ delibra al tutto de lasciarla. Lasciar la dama o la vita con pene, O a mi tuorla al tutto ti conviene. $_ Orlando che nel petto se {add} rodia {/add; rodi\a Z} Vedendo sua ventura disturbare, Dicea: #_ Deh! cavallier, va alla tua via, E non voler del mal giorno cercare, Perche/ io te giuro per la fede mia, Che mai alcun non volsi ingiuri%are, Ma il tuo star qui me offende tanto forte, Che forza mi sera\ darti la morte. $_ #_ O tu, o io si converra\ partire, Per quel ch' io odo, adunque, d' esto loco; Ma io te acerto ch' io non me vuo' gire, E tu non li potrai star piu\ si\ poco, Che te faro\ si\ forte sbigotire, Che se dinanzi ti trovasti un foco, Dentro da quel serai da me fuggito. $_ Cosi\ parlava Feraguto ardito. Il conte se e\ turbato oltra misura, E nel viso di sangue se e\ avampato. #_ Io sono Orlando, e non aggio paura Se 'l mondo fosse tutto quanto armato; E di te tengo cosi\ poca cura Come de un fanciullino adesso nato, Vil ribaldello, figlio de puttana! $_ Cosi\ dicendo trasse Durindana. Or se incomincia la maggior battaglia Che mai piu\ fosse tra duo cavallieri. L' arme de' duo baroni a maglia a maglia Cadean troncate da quei brandi fieri. Ciascun presto spacciarse si travaglia, Perche/ vedean che li facea mistieri; Che/, come la fanciulla se svegliava, Sua forza in vano poi se adoperava. Ma in questo tempo se fu risentita La damigella da il viso sereno; E grandemente se fu sbigotita, Veggendo il prato de arme tutto pieno, E la battaglia orribile e infinita. Subitamente piglia il palafreno, E via fuggendo va per la foresta. Alora Orlando de ferir se arresta. E dice: #_ Cavallier, per cortesia Indugia la battaglia nel presente, E lasciami seguir la dama mia, Ch' io ti sero\ tenuto al mio vivente; E certo io stimo che sia gran foli\a Far cotal guerra insieme per ni%ente. Colei ne e\ gita, che ci fa ferire: Lascia, per Dio! ch' io la possa seguire. $_ #_ Non, non, $_ rispose crollando la testa Lo ardito Ferragu\ #_ non gli pensare. Stu vo^i che la battaglia tra nui resta, Convienti quella dama abandonare. Io te fo certo che in questa foresta Un sol de noi la converra\ cercare; E s' io te vinco, sera\ mio mestiero: Se tu me occidi, a te lascio il pensiero. $_ #_ Poco vantaggio avrai de questa ciuffa, $_ Rispose Orlando #_ per lo Dio beato! $_ Ora se fece la crudel baruffa, Come ne l' altro canto avro\ contato: Vedrete come l' un l' altro ribuffa. Piu\ che mai fosse, Orlando era turbato; Di Feraguto non dico ni%ente, Che mai non fu senza ira al suo vivente. L' altro cantar vi conto\ la travaglia Che fu tra' duo baroni incominciata; E forse un altro par di tanta vaglia Non vede il sol che ha la terra cercata. Orlando con alcun mai fe' battaglia Che al terzo giorno gli avesse durata, Se non sol duo, per quanto abbia saputo: L' un fu don Chiaro, e l' altro Feraguto. Or se tornano insieme ad afrontare, Con vista orrenda e minacciante sguardo. Ogniun di lor piu\ se ha a meravigliare De aver trovato un baron si\ gagliardo. Prima credea ciascun non aver pare; Ma quando l' uno a l' altro fa riguardo, Iudica ben e vede per certanza Che non v' e\ gran vantaggio di possanza. E cominciarno il dispietato gioco, Ferendose tra lor con crudeltate. Le spade ad ogni colpo gettan foco, Rotti hanno i scudi e l' arme dispezzate; E ciascadun di loro a poco a poco Ambe le braccie se avean disarmate. Non po^n tagliarle per la fatasone, Ma di color l' han fatte di carbone. Cosi\ le cose tra quei duo ne vano, Ne/ v' e\ speranza de vittoria certa. Eccoti una donzella per il piano, Che de samito negro era coperta. La faccia bella se battia con mano; Dicea piangendo: #_ Misera! diserta! Qual omo, qual Iddio me dara\ aiuto, Che in questa selva io truovi Feraguto? $_ E come vide li duo cavallieri, Col palafreno in mezo fu venuta. Ciascun di lor contiene il suo destrieri; Essa con riverenzia li saluta, E disse a Orlando: #_ Cortese guerrieri, A benche/ tu non m' abbi cognosciuta, Ne/ io te cognosco, per merce/ te prego Che alla dimanda mia non facci nego. Quel ch' io te chiedo si e\ che la battaglia Sia mo compiuta, c' hai con Feraguto, Perch' io mi trovo in una gran travaglia, Ne/ me e\ mestier d' altrui sperare aiuto. Se la fortuna mai vora\ ch' io vaglia, Forse che un tempo ancor sera\ venuto Che di tal cosa te rendero\ merto. Giamai nol scordaro\: questo tien certo. $_ Il conte a lei rispose: #_ Io son contento, (Come colui che e\ pien di cortesia), E se de oprarme te viene in talento, Io te offerisco la persona mia; Ne/ me manca per questo valimento. Abenche/ Feragu\ forse non sia, Nulla di manco per questo mistiero Faro\ quel che alcun altro cavalliero. $_ La damisella ad Orlando se inchina, E volta a Feragu\ disse: #_ Barone, Non me cognosci ch' io son Fiordespina? Tu fai battaglia con questo campione, E la tua patria va tutta in ruina; Ne/ sai, preso e\ tuo patre e Falsirone; Arsa e\ Valenza e disfatta Aragona, Et e\ lo assedio intorno a Barcellona. Uno alto re, che e\ nomato Gradasso; Qual signoreggia tutta Sericana, Con infinita gente ha fatto il passo Contra al re Carlo e la gente pagana. Cristiani e Saracin mena a fracasso, Ne/ tregua o pace vo^l con gente umana. Discese a Zebeltaro, arse Sibilia; Tutta la Spagna del suo foco impiglia. Il re Marsilio a te solo e\ rivolto, E te piangendo solamente noma; Io vidi il vecchio re battersi il volto, E trar del capo la canuta chioma. Vien; scodi il caro patre che ti e\ tolto, E il superbo Gradasso vinci e doma. Mai non avesti e non avrai vittoria Che piu\ de ora te acquisti fama e gloria. $_ Molto fu stupefatto il Saracino, Come colui che ascolta cosa nova; E volto a Orlando disse: #_ Paladino, Un' altra volta farem nostra prova. Ma ben te giuro per Macon divino Che alcun simile a te non se ritrova; E se io te vinco, io non te mi nascondo, Ardisco a dir ch' io sono il fior del mondo. $_ Or se parton densieme i cavallieri; Orlando se driccio\ verso Levante, Che/ tutto il suo disire e il suo pensieri E\ di seguir de Angelica le piante; Ma gran fatica li fara\ mestieri, Perche/, come se tolse a lor davante La damigella, per necromanzia Portata fu, che alcun non la vedia. Va Feraguto con molto ardimento Per quella selva menando fracasso, Che/ ciascuna ora li parea ben cento Di ritrovarse a fronte con Gradasso; Pero\ ne andava ratto come un vento. Ma il ragionar di lui ora vi lasso, E tornar voglio a Carlo imperatore, Che della Spagna sente quel rumore. Il suo consiglio fece radunare: Fuvi Ranaldo et ogni paladino; E disse loro: #_ Io odo ragionare, Che, quando egli arde il muro a noi vicino, De nostra casa debbiam dubitare. Dico che, se Marsilio e\ saracino, Cio\ non attendo; egli e\ nostro cognato, Et ha vicino a Francia gionto il stato. Et e\ nostro parere e nostra intenza Che si li dona aiuto ad ogni modo, Contra alla estrema et orribil potenza Del re Gradasso, il qual, si\ come io odo, Minaccia ancor di Francia a la excellenza, Ne/ della Spagna sta contento al sodo. Ben potemo saper che per ni%ente Non fa per noi vicin tanto potente. Vogliamo adunque per nostra salute Mandar cinquanta millia cavallieri; E cognoscendo l' inclita virtute Del pro' Ranaldo, e come e\ buon guerrieri, Nostro parer non vogliam che si mute, Che/ a megliorarlo non faria mestieri: In questa impresa nostro capitano Sia generale il sir di Montealbano. Vogliam che abbia Bordella e Rosiglione, Linguadoca e Guascogna a governare, Mentre che durara\ questa tenzone; E quei segnor con lui debbiano andare. $_ Cosi\ dicendo, gli porge il bastone. Ranaldo si ebbe in terra a ingenocchiare, Dicendo: #_ Forzaromme, alto segnore, Di farme degno di cotanto onore. $_ Egli avea pien di lacrime la faccia Per allegrezza, e piu\ non puo\ parlare; Lo imperator strettamente lo abbraccia, E dice: #_ Figlio, io ti vo' racordare Ch' io pono il regno mio nelle tue braccia, Il quale e\ in tutto per pericolare. Via se ne e\ gito, e non so dove, Orlando: Il stato mio a te lo racomando. $_ Questo li disse ne l' orecchia piano. Ciascun se va con Ranaldo allegrare: Ivone et Angelin, che con lui vano, E gli altri ancor, che seco hanno a passare. Ranaldo a tutti con parlare umano Proferir si sapeva e ringraziare. Subitamente se pose in vi%aggio, E fu ordinato in Spagna il suo passaggio. Ciascun bon cavallier, ch' e\ di guerra uso, Segue Ranaldo e la Francia abandona. Montano l' alpe, sempre andando in suso, E gia\ vedon fumar tutta Aragona. Essi vargarno al passo del Pertuso, In poco tempo gionsero a Sirona. Il re Marsilio quivi era fermato; Grandonio in Barcelona avea {t} mandato, {/t S; mandato. Z} Per riparare al tenebroso assedio, Benche/ si creda non poter giovare, Ne/ lui sa imaginare alcun remedio, Che non convenga il regno abandonare; E per malanconia e molto atedio Sol se ne sta, ne/ si lascia parlare. Ora ad un tempo li viene lo aiuto Di Carlo Magno, e gionse Feraguto. Era con lui gia\ prima Serpentino, Isoliere e Spinella e il re Morgante, E Matalista, il franco Saracino, Lo Argalifa di Spagna e lo Amirante. Ogni altro baron grande e piccolino, Che al re Marsilio obediva davante, Coi fratel Balugante e Falsirone, Tutti son morti, o son nella pregione. Imperoche/ Gradasso smisurato, Da poi che se parti\ de Sericana, Tutto il mar de India avea conquistato, E quella isola grande Taprobana, La Persia con la Arabia li\ da lato, Terra de' negri, che e\ tanto lontana; E mezo il mondo ha circuito in mare, Pria che 'l stretto di Spagna abbia intrare. E tanta gente avea seco adunata, E tanti re, che adesso non vi naro, Che piu\ non ne fu insieme alcuna fiata. Discese in terra, e prese Zibeltaro, Arse e disfece il regno di Granata; Sibilia ne/ Toledo fier' riparo. Venne dapoi a Valenzia meschina; Con Aragona la pose in ruina. Si\ come io dissi, aveva in sua pregione Ogni baron che a Marsilio obedia, Tratti coloro de cui fei ragione, Che dentro da Sirona seco avia, E de Grandonio, che in opini%one De esser ben presto preso se vedia: Che/ Barcellona da sera a matina E\ combattuta, e mai non se rafina. Ora tornamo al re Marsili%one, Che riceve Ranaldo a grande onore, E molto ne ringrazia il re Carlone. Ma Feraguto bacia con amore, Dicendo: #_ Figlio, io tengo opini%one Che la tua forza e l' alto tuo valore Abbattera\ Gradasso, quel malegno, A noi servando il nostro antiquo regno. $_ Ordine dasse, che il giorno seguente Se debba verso Barcellona andare, Perche/ Grandonio {add} continu%amente {/add; continuamente Z} Con foco aiuto aveva a dimandare. Cosi\ fo^rno ordinate incontinente Le schiere, e chi le avesse a governare. La prima che se parte al matutino, Guida Spinella e il franco Serpentino. Vinti millia guerreri e\ questa schiera. Segue Ranaldo, il franco combattente: Cinquanta millia sotto sua bandiera. Matalista vien drieto e il re Morgante, Con trenta millia di sua gente fiera; Et Isolier da poi con lo Amirante, Con vinti millia; e a lor drieto in aiuto Trenta milliara mena Feraguto. Il re Marsilio l' ultima guidava, Cinquanta millia de bella brigata. Ciascuna schiera in ordine ne andava, L' una da l' altra alquanto separata. Era il sol chiaro e a l' o^ra sventillava Ogni bandiera, che e\ ad alto spiegata; Si\ che al calar del monte fo^r vedute Dal re Gradasso, e da' soi cognosciute. Quattro re chiama, e lor cosi\ ragiona: #_ Cardon, Francardo, Urnasso e Stracciaberra, Combattete alle mura Barcellona, E questo giorno ponitele a terra. Non vi rimanga viva una persona; E quel Grandonio che fa tanta guerra, Io voglio averlo vivo nelle mane Per farlo far battaglia col mio cane. $_ Questi son de India sopra nominati. Di negra gente seco ne avean tanti, Quanti mai non seriano annumerati: Et oltra a questo duo millia elefanti, Di torre e di castella tutti armati. Ora Gradasso fa venirse avanti Un gran gigante, re di Taprobana, Che ha una giraffa sotto per alfana. Piu\ brutta cosa non se vide mai Che 'l viso di quel re, che ha nome Alfrera. A lui disse Gradasso: #_ Ne anderai, Fa che me arrechi la prima bandiera; Tutta la gente mena, quanta n' hai. $_ E poi, rivolto con la faccia altiera Al re de Arabia, che gli e\ li\ da lato, (Faraldo e\ quel robusto nominato), A questo re comanda a mano a mano Che gli meni Ranaldo per presone, E la bandiera del re Carlo Mano: #_ Ma guarda che non scampi il suo ronzone Ch' io te faria impiccar come un villano; Che/ quel cavallo e\ stato la cagione Che me ha fatto partir de Sericana, Per aver quello e insieme Durindana. $_ Al re di Persia fa comandamento Che prenda Matalista e il re Morgante: Framarte e\ questo, il re di valimento. Ecco il re di Macrobia, ch' e\ gigante, Che tutto negro e\ come un carbon spento: Pigliar debbe Isoliere e lo Amirante. Destrier non ha, ma sempre va pedone Questo gigante, et ha nome Ori%one. Re de Eti%opia fu un gigante arguto, Che quasi un palmo avea la bocca grossa. Davanti al re Gradasso fu venuto (Balorza ha nome quel c' ha tanta possa); Comandagli che prenda Feraguto. Ultimamente pone alla riscossa Li Sericani et ogni suo barone: Ma lui non se arma e sta nel paviglione. Diciamo de Marsilio e di sua gente, Che sopra al campo vengono arivare, Vedendo il piano de sotto patente, Che e\ pien de omini armati insino al mare. E' non credeano gia\ primeramente Che tanta gente potesse adunare Il mondo tutto, quanto e\ quivi unita; Ne/ la posson stimar, perche/ e\ infinita. L' un campo a l' altro piu\ se fa vicino, Che/ le bandiere a l' incontro se vano. Ciascun dalle due parte e\ saracino, Fuor che la gente del re Carlo Mano. Spinella de Altamonte e Serpentino Con la lor schiera son gionti nel piano; Levasi il crido de una e d' altra gente, Che par che il cel profondi veramente. Risuona il monte e tutta la rivera Di trombe, di tamburi e d' altre voce. Serpentin sta davanti alla frontera, Sopra a corsier terribile e veloce. Ora si move il gran gigante Alfrera: Cosa non fu giamai tanto feroce, Quanto e\ colui, che trenta piedi e\ altano Su la zirafa, et ha un bastone in mano. Di ferro e\ tutto quanto quel bastone: Tre palmi volge intorno per misura. Serpentin contra lui va di rondone Con l' asta a resta, e gia\ non ha paura. Feri\ il gigante e ruppe il suo troncone; Ma quella contrafatta creatura Ha con tal forcia Serpentin ferito, Che lo distese in terra tramortito. Nulla ne cura e lascialo disteso; Con la zirafa passa entro la schiera. Trova Spinella, e nel braccio l' ha preso; Via nel porto\, come cosa leggiera. Tutta la gente, di furore acceso, Col baston batte, e branca la bandiera, E quella al re Gradasso via mandone, Insieme con Spinella, chi e\ prigione. Ranaldo la sua schiera avea lasciata In man de Ivone e del fratello Alardo, E la battaglia avea tutta guardata, E quanto il grande Alfrera era gagliardo. Veggendo quella gente sbarattata, Tempo non parve a lui de esser piu\ tardo: Manda a dire ad Alardo che si mova; Lui con la lancia il gran gigante trova. Or che li potra\ far, che quel portava Un coi' di serpa sopra la coraccia? Ma pur con tanta furia lo inscontrava, Che la ziraffa e lui per terra caccia. Poi tra la schiera Bagliardo voltava, E ben de intorno con Fusberta spaccia. Tutti i Cristiani intanto ve arivaro; Non vi fu a' Saracini alcun riparo. Vanno per la campagna in abandono; Rotta, stracciata fu la sua bandiera, Benche/ dugento millia armati sono. Or di terra si leva il forte Alfrera, Piu\ terribile assai ch' io non ragiono; Ma poi che vide in volta la sua schera, Con la ziraffa se messe a seguire, Non so se per voltarli o per fuggire. Ranaldo e\ con lor sempre mescolato, Et a destra e sinistra il brando mena; Chi mezzo il capo, chi ha un braccio tagliato, Le teste in l' elmi cadeno a l' arena. Come un branco di capre disturbato, Cotal Ranaldo avanti se/ li mena: Ora convien che 'l faccia maggior prove, Che/ il re Faraldo la sua schiera move. Era quel re de Arabia incoronato, E non aveva fin la sua possanza. Or non puo\ suo valore aver mostrato, Perche/ Ranaldo de un contro di lanza L' ha per il petto alle spalle passato. Tocca Bagliardo, e con molta arroganza Da\ tra gli {add} Ara\bi, {/add; Arabi, Z} che/ nulla li preza: Con l' urto atterra e con la spada speza. Era pero\ Ranaldo accompagnato, Per le piu\ volte, de assai buon guerreri; Guizardo e Ricciardetto li era a lato, E lo re Ivone, Alardo et Anzolieri; Et ora Serpentino era arivato, Chi e\ risentito e tornato a destrieri. Ma de lor tutti e\ pur Ranaldo il fiore; De ogni bel colpo lui solo ha l' onore. Tutta la gente de li {add} Ara\bi {/add; Arabi Z} e\ in piega, Gambili e dromendarii a terra vano; Ranaldo li caccio\ piu\ de una lega. Or vien Framarte, il gran re persi%ano, La sua bandiera d' oro al vento spiega, Ben lo adocchia il segnor di Montealbano. Adosso a lui con la lancia se caccia; Dopo le spalle il passa ben tre braccia. Quel gran re cade morto alla pianura, Fuggeno i suoi per la campagna aperta. Ranaldo mena colpi a dismisura: Non dimandar se 'l frappa con Fusberta. Ecco Ori%one, la sozza figura; Mai non fu visto cosa piu\ deserta: Negro fra tutti, e nulla porta indosso, Ma la sua pelle e\ dura piu\ che un osso. Venne il gigante nudo alla battaglia, Uno arbor avea in mano il maledetto; Tutta la schiera de' Cristian sbaraglia, Non ve ha diffesa scudo o bacinetto. Avea d' intorno a se/ tanta canaglia, Che per forza Ranaldo fu costretto Ritrarsi alquanto e suonare a ricolta, Per ritornar piu\ stretto l' altra volta. Ma mentre con li altri se consiglia, Et halli il suo partito dimostrato, E gia\ la lancia su la cossa piglia, Giunse l' Alfrera, quello ismisurato, Con tanta gente, che e\ una meraviglia. Et eccoti arivar da l' altro lato L' alto Balorza; e tanta gente viene, Che in ogni verso sette miglia tiene. Venian cridando con tanto rumore, Che la terra tremava e il celo e il mare. Ivone e Serpentino e ogni segnore Dicean che aiuto si vo^l domandare. Dicea Ranaldo: #_ E' non serebbe onore. Voi vi potete adietro retirare: Et io soletto, come io son, mi vanto Metter quel campo in rotta tutto quanto. $_ Ne/ piu\ parole disse il cavalliero, Ma strenge i denti e tra color se caccia; Rompe la lancia lo ardito guerriero, Poi con Fusberta se fa far tal piaccia, Che aiuto de altri non li fa mestiero; E con voce arrogante li minaccia: #_ Via! populaccio vil, senza governo! Che tutti anco\i vi metto nello inferno. $_ Il re Marsilio da il monte ha veduto Movere a un tratto cotanta canaglia; Per un suo messo dice a Ferraguto Che ogni sua schiera meni alla battaglia. Ranaldo gia\ de vista era perduto: Lui tra la gente saracina taglia, Tutta la sua persona e\ sanguinosa; Mai non se vide piu\ terribil cosa. Or si comincia la battaglia grossa. A tutti Feraguto vien davante: Giamai non fu pagan di tanta possa. Isolier, Matalista e il re Morgante, Ciascuno e\ ben gagliardo e dura ha l' ossa. L' Argalifa vien drieto e lo Amirante; Prima entrato era Alardo e Serpentino, Ivone e Ricciardetto et Angelino. Il re Balorza, con la faccia scura, Ne porta sotto il braccio Ricciardetto; Combatte tutta fiata, e non ha cura De aver nel braccio manco il giovanetto. Ogniun ben de aiutarlo se procura, Ma il gigante il porta al lor dispetto. Alardo, Ivone et Angelin li e\ intorno: Esso de tutti fa gran beffe e scorno. Il terribile Alfrera avea levato, Al suo dispetto, Isolier dello arcione. Feraguto li e\ sempre nel costato, Ne/ vo^l che 'l porta senza questi%one. Vero e\ che 'l suo destriero e\ spaventato, Ne/ puo\ accostarse con nulla ragione: Per la ziraffa, lo animal diverso, Fugge il cavallo indrieto et a traverso. Il crudel Ori%one alcun non piglia, Ma con l' arbore occide molta gente, E petto e faccia ha di sangue vermiglia; Lancie, ne/ spade non cura ni%ente, Che/ la sua pelle a uno osso se assomiglia. Ora tornamo a Ranaldo valente, Che forte se conturba nello aspetto, Perche/ Balorza porta Ricciardetto. Se or non mostra Ranaldo il suo valore, Giamai nol mostrara\ il barone accorto; Che/ a Ricciardetto porta tanto amore, Che per camparlo quasi seri\a morto. Dente con dente batte a gran furore, L' uno e l' altro occhio nella fronte ha torto. Ma al presente io lascio sua battaglia, Per ricontarvi un' altra gran travaglia. Io ve contai pur mo che in Barcellona Stava Grandonio, e facea gran diffesa; Come a quei de India e soi re de corona Fo comandato che l' avesser presa. Turpin di questa cosa assai ragiona, Perche/ non fu giamai piu\ cruda impresa. Forte e\ la terra, intorno ben murata; Or se e\ la gran battaglia incominciata. Da mezodi\, dove la batte il mare, Era ordinato un naviglio infinito; Da terra gli elefanti hanno a menare, Di torre e di beltresche ogniom guarnito. Fanno quei Negri si\ gran saettare, Che ciascun nella terra e\ sbigottito; Ogni om s' asconde e fugge per paura, Grandonio solo appar sopra alle mura. Comincia il crido orribile e diverso, Et alle mura s' accosta la gente. Non e\ Grandonio gia\ per questo perso, Ma se diffende nequitosamente; Tira gran travi dritto et a traverso; Pezzi di torre e merli veramente, Colonne integre lancia quel gigante; Ad ogni colpo atterra uno elefante. E va d' intorno facendo gran passo, Salta per tutto quasi in un momento; Di cio\ che gli e\ davanti, fa fraccasso, Getta gran foco con molto spavento; Perche/ la gente, che era gioso al basso, Che e soi fatti vedea e suo ardimento, Solfo gli da\nno con pegola accesa; Lui tra' la vampa fuora alla distesa. Lasciam costoro, e torniamo a Ranaldo, Che nella mente tutto se rodia; Tanto e\ di scoter Ricciardetto caldo, Che se dispera e non trova la via. Quel gran gigante sta li\ fermo e saldo, E un gran baston di ferro in man {add} tenia; {/add; teni\a; Z} Armato e\ tutto da capo alle piante, E per destriero ha sotto uno elefante. Or non gli vale il furi%oso assalto, Non vale a quel barone esser gagliardo, Pero\ che non puotea gionger tanto alto. Subitamente smonta di Baiardo, E nella croppa se gitta d' un salto A quel gigante, che non gli ha riguardo; L' elmo gli spezza e d' acciaro una scoffia, Ne/ pone indugia che 'l colpo {t} ridoppia. {/t Z; ridopia. S} Par che si batta un ferro alla fucina; Quella gran testa in due parte disserra. Cadde 'l gigante con tanta roina, Che a se/ d' intorno fie' tremar le terra. Or ne fugge la gente saracina, Che e\ dinanzi a Ranaldo in quella guerra, Come la lepre fugge avanti al pardo: Stretti gli caccia quel baron gagliardo. Aveva Feraguto tuttavia Piu\ de quattro ore cacciato l' Alfrera; Ardea ne gli occhi pien de bizaria, Perche/ non trova modo, ne/ maniera Per la quale Isolier riscosso sia. Quella ziraffa, contraffatta fera, Via ne lo porta, correndo il trapasso; E giunse al pavaglion, nanti a Gradasso. Ferragu\ segue dentro al paviglione. L' Alfrera, che se vide al ponto stretto, Getta Isoliero e mena del bastone, Et ebbel gionto sopra al bacinetto, E sbalordito il fe' cader de arcione: Quel gran gigante li fu presto al petto. Cosi\ fu preso l' ardito guerreri. Torna l' Alfrera, e prese anco Isolieri. Dicea l' Alfrera: #_ Io ti so dir, segnore, Che nostra gente e\ rotta ad ogni modo, Che/ quel Ranaldo e\ di troppo valore. Mal volentiera un tuo nemico lodo; Ma, senza dir d' altrui, lui si fa onore, E poco d' ora fa, si\ come io odo, Parti\ la testa al gigante Balorza; Or po^i pensar, segnor, se egli ha gran forza. A chi te piace de' tuoi ne dimanda, Benche/ anch' io sappia della sua possanza, Che/ 'l re Faraldo d' una ad altra banda Vidi io passato d' un scontro de lanza. Il re di Persia a Macon racomanda, Che fu pur gionto a simigliante danza. Debb' io tacer di me, che andai per terra, Che mai non mi intervenne in altra guerra? $_ Dicea Gradasso: #_ Puo\ questo Iddio fare, Che quel Ranaldo sia tanto potente? Chi me volesse del cel coronare (Perche/ la terra io non stimo ni%ente), Non me potrebbe al tutto contentare, S' io non facessi prova de presente, Se quel barone e\ cotanto gagliardo Che mi diffenda il suo destrier Baiardo. $_ Cosi\ dicendo chiede l' armatura, Quella che prima gia\ porto\ Sansone. Non ebbe il mondo mai la piu\ sicura; Da capo a piedi se arma il campi%one. Ecco la gente fugge con paura, Dietro gli caccia quel figlio d' Amone. Non po^ Gradasso star si\ poco saldo, Che dentro al pavaglion sera\ Ranaldo. Piu\ non aspetta, e salta su l' alfana. Questa era una cavalla smisurata: Mai non fu bestia al mondo piu\ soprana; Come Baiardo proprio era intagliata. Ecco Ranaldo, che gionge alla piana, In mezo della gente sbaratata. Oh quanto ben d' intorno il camin spaza, Troncando busti e spalle e teste e braza! Ora se move il forte re Gradasso Sopra l' alfana, con tanta baldanza, Che tutto il mondo non stimava un asso. Verso Ranaldo bassava la lanza, E nel venir menava tal fraccasso, Che Baiardo il destrier n' ebbe temanza. Sedeci piedi sali\ suso ad alto; Non fo mai visto il piu\ mirabil salto. Il re Gradasso assai si meraviglia, Ma mostra non curare, e passa avante; Tutta la gente sparpaglia e scombiglia, Per terra abbatte Ivone e il re Morgante. L' Alfrera, che gli e\ dietro, questi piglia, Che/ sempre lo seguiva quel gigante. Trova Spinella, Guizardo e Angelino: Tutti gli abbatte il forte Saracino. Ranaldo se ebbe indietro a rivoltare, E vide quel pagan tanto gagliardo. Una grossa asta in man se fece dare, E poi dicea: #_ O destrier mio Baiardo, A questa volta, per Dio! non fallare, Che/ qui conviensi avere un gran riguardo. Non gia\, per Dio! ch' io mi senta paura; Ma quest' e\ un omo forte oltra misura. $_ Cosi\ dicendo serra la visiera, E contra al re ne vien con ardimento. Videl Gradasso, la persona altiera: Mai, da che nacque, fo tanto contento; Che/ a lui par cosa facile e leggiera Trar de l' arcion quel sir de valimento. Ma nella prova l' effetto si vede: Piu\ fatica li avra\ ch' el non si crede. Fo questo scontro il piu\ dismisurato Che un' altra volta forse abbiate udito. Baiardo le sue croppe misse al prato, Che non fu piu\ giamai a tal partito, Benche/ se fo de subito levato. Ma Ranaldo rimase tramortito; L' alfana trabucco\ con gran fracasso: Nulla ne cura il potente Gradasso. Spronando forte la facea levare, Tra l' altra gente da\ senza paura. Dice a l' Alfrera che debba pigliare Ranaldo, e che 'l destrier mena con cura. Ma certo e' gli lascio\ troppo che fare, Perche/ Baiardo per quella pianura Via ne portava il cavalliero ardito; In poco de ora se fo risentito. Credendosi ancora esser la\ dove era Il re Gradasso, prende il brando in mano; Con la zirafa lo seguia l' Alfrera, Che quasi ancora l' ha {add} seguito {/add; segui\to Z} in {t} vano. {/t S; vano, Z} Sopra Baiardo, la bestia leggiera, Ranaldo va correndo per il piano; Per tutto va cercando, e piano e monte, Sol per trovarse con Gradasso a fronte. Et eccoti davanti, et ha abbattuto Fuor de l' arcione il suo fratello Alardo. Esso non ha Ranaldo ancor veduto, Che/ in quella parte non facea riguardo. Ma de improviso li e\ sopra venuto, E punto nel ferir non fu gia\ tardo. A due man mena con tanta flagella, Che sel crede partir fin su la sella. Non fu il gran colpo a quel re cosa nova, Che/ di valor portava la ghirlanda; Ne/ crediati per questo che si mova, Ne/ arma si spezzi, ne/ sangue si spanda. Disse a Ranaldo: #_ Or vederem la prova, E dir potrai, se alcun te ne dimanda, Qual sia di noi piu\ franco feritore. Se ora mi campi, io te dono l' onore. $_ Cosi\ ragiona il forte saracino, E mena della spada tutta fiata; Cade Ranaldo tramortito e chino, Che/ mai tal botta non ha lui provata. Lo elmo affatato, che fu de Mambrino, Gli ha questa volta la vita campata. Presto Baiardo adietro si e\ voltato, Stavi Ranaldo in sul collo abbracciato. Gradasso quasi un miglio l' ha {add} seguito, {/add; segui\to, Z} Che/ ad ogni modo lo volea pigliare; Ma poi che for di vista gli fu uscito, E\ delibrato adrieto ritornare. Ora Ranaldo se fu risentito, E ben destina de se vendicare. Non e\ Gradasso rivoltato apena, Ranaldo un colpo ad ambe man li mena Sopra de l' elmo con tanto furore, Che ben li fece batter dente a dente. Tra se/ ridendo, quel re di valore Dicea: ## Questo e\ un demonio veramente. Quando egli ha il peggio e quando egli ha il megliore, Ognior cerca la briga parimente. Ma sempre mai non li andara\ ben co\lta: Se non adesso, il giongo un' altra volta. $# Cosi\ parlando quel Gradasso altiero Li viene adosso con gli occhi infiammati. Ranaldo {add} tenia {/add; teni\a Z} l' occhio al tavoliero: Se 'l bisogna, segnor, non dimandati. Un colpo mena quel gigante fiero Ad ambe mani, et ha i denti serrati. Il baron nostro sta su la vedetta: Trista sua vita se quel colpo aspetta! Ma certamente e' n' ebbe poca voglia; Con un gran salto via se fu levato. Radoppia il colpo il gigante con doglia; Baiardo se gitto\ da l' altro lato. #_ Puo\ fare Iddio ch' una volta non coglia? $_ Diceva il re Gradasso disperato; E mena 'l terzo; ma nulla li vale: Sempre Baiardo par che metta l' ale. Poi che assai se ebbe indarno affaticato, Delibra altrove sua forza mostrare, E nella schiera de' nemici entrato Cavagli e cavallier fa trabuccare. Ma cento passi non e\ dislongato, Che Ranaldo lo vene a travagliare; E benche/ molto stretto non lo offenda, Forza li e\ pur che ad altro non attenda. Tornati sono alla cruda tenzone: Bisogna che Ranaldo giochi netto. Ecco venire il gigante Ori%one, Che se ne porta preso Ricciardetto. Per li piedi il {add} tenia {/add; teni\a Z} quel can fellone: Forte cridava aiuto il giovanetto. Quando Ranaldo a tal partito il vede, Della compassi%on morir si crede. Cosi\ nel viso li abondava il pianto, Che veder non poteva alcuna cosa; Mai fu turbato alla sua vita tanto. Or li monta la colora orgogliosa. Et io vi narraro\ ne l' altro canto Il fin della battaglia dubitosa, Che, come io dissi, comincio\ a l' aurora, E duro\ tutto il giorno, e dura ancora. Voi vi doveti, segnor, racordare Come Ranaldo forte era turbato Veggendo Ricciardetto via portare. Gradasso incontinente ebbe lasciato, E il gran gigante viene ad afrontare. Era quello Ori%one ignudo nato; Negra ha la pelle, e tanto grossa e dura, Che de coperta de arme nulla cura. Ranaldo dismonto\ subito a piede, Perche/ forte temeva di Baiardo Per il gran tronco che al gigante vede; Esser non li bisogna pigro o tardo. Apena che Ori%one estima o crede, Che si ritrova in terra un si\ gagliardo Che ardisca far con lui battaglia stretta: Pero\ si sta ridendo, e quello aspetta. Ma non aveva Fusberta assaggiata, Ne/ le feroce braccia di Ranaldo, Che/ l' armatura se avrebbe augurata. A due man mena il principe di saldo, E nella cossa fa grande tagliata. Quando Ori%one sente il sangue caldo, Tra' contra terra forte Ricciardetto, Mugiando come un toro, il maledetto. Stava disteso Ricciardetto in terra, Senza alcun spirto, sbigotito e smorto; E quel gigante il grande arboro afferra: Ranaldo in su l' aviso stava accorto. Quando Ori%one il gran colpo disserra, Non che lui solo, un monte ne avria morto; Ranaldo indietro si retira un passo. Ecco a la zuffa arivo\ il re Gradasso. Non sa Ranaldo gia\ piu\ che si fare, E certamente gli tocca paura. Lui, che di core al mondo non ha pare, Mena un gran colpo fuor d' ogni misura: Fusberta se sentiva zuffellare. Gionse Ori%one al loco de cintura; A meza spada nel fianco lo afferra: Cadde il gigante in dui cavezzi in terra. Nulla dimora fa il franco barone, Ne/ pur guarda il gigante che e\ cascato. Subitamente salta su l' arcione, E contra di Gradasso se n' e\ andato. Ma non se puo\ levar de opini%one Quel re il colpo che ha visto ismisurato; Con la man disarmata ebbe a cignare Verso Ranaldo, che li vo^l parlare. E ragionando poi con lui dicia: #_ E' sarebbe, barone, un gran peccato Che lo ardir tuo e il fior de gagliardia, Quanto ne hai oggi nel campo mostrato, Perisse con si\ brutta villania; Che/ tu sei da mia gente intorni%ato. Come tu vedi, non te po^i partire: Convienti esser pregione, o ver morire. Ma Dio non voglia che cotal diffetto Per me si faccia a un baron si\ gagliardo; Unde per mio onore io aggio eletto, Da poi che 'l giorno de oggi e\ tanto tardo, Che noi veniamo dimane allo effetto, Io senza alfana, e tu senza Baiardo; Che/ la virtute de ogni cavalliero Si disaguaglia assai per il destriero. Ma con tal patto la battaglia sia, Che stu me occidi o prendime pregione, Ciascun chi e\ preso di tua compagnia, O sia vasallo al re Marsili%one, Seran lasciati su la fede mia; Ma s' io te vinco, io voglio il tuo ronzone. O vinca, o perda, poi me abbia a partire, Ne/ piu\ in ponente mai debba venire. $_ Ranaldo gia\ non stette altro a pensare, Ma subito rispose: #_ Alto segnore, Questa battaglia che debbiamo fare, Essere a me non puo\ se non de onore. E di prodecia sei si\ singulare, Che, essendo vinto da tanto valore, Non mi sera\ vergogna cotal sorte, Anci una gloria aver da te la morte. Quanto alla prima parte, te rispondo Che ben te voglio e debbo ringraziare, Ma non che gia\ mi trovi tanto al fondo, Che da te debba la vita chiamare; Perche/, se armato fosse tutto 'l mondo, Non potrebbe al partir mio divetare, Non che voi tutti; e se forse hai talento Farne la prova, io son molto contento. $_ Incontinente se ebbeno accordare Della battaglia tutto il conveniente: Il loco sia nel litto apresso il mare, Lontan sei miglia a l' una e l' altra gente. Ciascuno al suo talento se puo\ armare De arme a diffensa e di spada tagliente; Lancia ne/ mazza o dardo non si porta, E denno andar soletti e senza scorta. Ciascuno e\ molto bene apparecchiato Per domatina alla zuffa venire; Ogni vantaggio a mente hanno tornato, Le usate offese e l' arte del scrimire. Ma prima che alcun de essi venga armato, De Angelica vi voglio alquanto dire; La qual per arte, come ebbe a contare, Dentro al Cataio se fece portare. Benche/ lontana sia la giovanetta, Non puo\ Ranaldo levarse del core. Come cerva ferita di saetta, Che al lungo tempo accresce il suo dolore, E quanto il corso piu\ veloce affretta, Piu\ sangue perde et ha pena maggiore: Cosi\ ognor cresce alla donzella il caldo, Anci il foco nel cor, che ha per Ranaldo. E non poteva la notte dormire, Tanto la strenge il pensiero amoroso; E se pur, vinta dal longo marti\re, Pigliava al far del giorno alcun riposo, Sempre sognando stava in quel desire. Ranaldo gli parea sempre crucioso Fuggir, si\ come fece in quella fiata Che fu da lui nel bosco abandonata. Essa tenea la faccia in ver ponente, E sospirando e piangendo talora Diceva: ## In quella parte, in quella gente Quel crudel tanto bello ora dimora. Ahi lassa! Lui di me cura ni%ente! E questo e\ sol la doglia che me accora: Colui, che di durezza un sasso pare, Contra a mia voglia a me il conviene amare. Io aggio fatto ormai l' ultima prova Di cio\ che po^n gli incanti e le parole, E l' erbe strane ho co\lto a luna nova, E le radice quando e\ oscuro il sole; Ne/ trovo che dal petto me rimova Questa pena crudel, che al cor mi dole, Erba ne/ incanto o pietra preci%osa: Nulla mi val, che/ amor vince ogni cosa. Perche/ non venne lui sopra a quel prato, La\ dove io presi il suo saggio cugino? Che certamente io non avria cridato. Ora e\ pregione adesso quel meschino. Ma incontinente sera\ liberato, Accio\ che quello ingrato peregrino Cognosca in tutto la bontate mia, Che da\ tal merto a sua discortesia. $# E detto questo se ne ando\ nel mare, La\ dove Malagise era pregione; Con l' arte sua la\ giu\ si fe' portare, Che/ andarvi ad altra via non c' e\ ragione. Malagise ode l' uscio disserrare, E ben si crede in ferma opini%one, Che sia il demonio, per farlo morire, Perche/ a quel fondo altrui non suol mai gire. Gionta che fu la\ dentro la donzella, Di farlo portar sopra ben si spaccia; E poi che l' ebbe entro una sala bella, La catena li sciolse dalle braccia; E nulla per ancora gli favella, Ma ceppi e ferri dai pie\ li dislaccia. Come fu sciolto, li disse: #_ Barone, Tu sei mo franco, et ora eri prigione. Si\ che, volendo una cortesia fare A me, che fuor te trassi di quel fondo, Da morte a vita mi po^i ritornare, Se qua mi meni il tuo cugin iocondo: Dico Ranaldo, che mi fa penare. A te la mia gran doglia non nascondo: Penar fa me de amore in si\ gran foco, Che giorni e notte mai non trovo loco. Se me prometti nel tuo sacramento Far qua Ranaldo inanti a me venire, Io te faro\ de una cosa contento, Che forse de altra non hai piu\ desire: Darotti il libro tuo, se n' hai talento. Ma guarda, stu prometti, non mentire; Perche/ te aviso che uno annello ho in mano, Che fara\ sempre ogni tuo incanto vano. $_ Malagise non fa troppo parole, Ma come a quella piace, cosi\ giura; Ne/ sa come Ranaldo non ne vo^le, Anci crede menarlo alla sicura. Gia\ se chinava allo occidente il sole; Ma, come gionta fu la notte scura, Malagise un demonio ha tolto sotto, E via per l' aria se ne va di botto. Quel demonio li parla tutta fiata (E va volando per la notte bruna) Della gente che in Spagna era arivata, E come Ricciardetto ebbe fortuna, E la battaglia come era ordinata. Di cio\ che e\ fatto, non gli e\ cosa alcuna Che quel demonio non la sappia dire; Anci piu\ dice, perche/ sa mentire. E gia\ son gionti presso a Barcellona (Forse restava un' ora a farse giorno), E Malagise il demonio abandona. E per quei paviglion guardando intorno, Dove sia de Ranaldo la persona, E' dormir vede il cavallier adorno; Nella trabacca sua stava colcato. Malagise entra, et ebbelo svegliato. Quando Ranaldo vide la sua faccia, Non fu nella sua vita si\ contento; Del trapontin se leva e quello abbraccia, E delle volte lo bacio\ da cento. Disse a lui Malagise: #_ Ora te spaccia, Ch' io son venuto sotto a sacramento. Piacendo a te, me po^i deliberare: Non te piacendo, in pregion vo' tornare. Non aver nella mente alcun sospetto Ch' io voglia che tu facci un gran periglio; Con una fanciulletta andrai nel letto, Netta come ambro, e bianca come un giglio. Me trai di noia, e te poni in diletto. Quella fanciulla dal viso vermiglio E\ tal, che tu nol pensaresti mai: Angelica e\ colei di cui parlai. $_ Quando Ranaldo ha nominare inteso Colei che tanto odiava nel suo core, Dentro dal petto e\ di alta doglia acceso, E tutto in viso li cangio\ il colore. Ora un partito, ora un altro n' ha preso Di far risposta, e non la sa dir fuore; Or la vo^l fare, ora la vo^l differire; Ma nello effetto e' non sa che si dire. Al fin, come persona valorosa Che in zanze false non se sa coprire, Disse: #_ Odi, Malagise: ogni altra cosa (E non ne trago il mio dover morire), Ogni fortuna dura e spaventosa, Ogni doglia, ogni affanno vo' soffrire, Ogni periglio, per te liberare: Dove Angelica sia, non voglio andare. $_ E Malagise tal risposta odi\a, Qual gia\ non aspettava in veritate. Prega Ranaldo quanto piu\ sapi\a, Non per merito alcun, ma per pietate, Che nol ritorna in quella pregionia. Or gli ricorda la sanguinitate, Or le proferte fatte alcuna volta; Nulla gli val, Ranaldo non l' ascolta. Ma poi che un pezzo indarno ha predicato, Disse: #_ Vedi, Ranaldo, e' si suol dire, Ch' altro piacer non s' ha de l' omo ingrato Se non buttarli in occhio il ben servire. Quasi per te ne l' inferno m' ho dato: Tu me vo^i far nella pregion morire. Gua^rti da me; ch' io ti faro\ uno inganno, Che ti fara\ vergogna, e forse danno. $_ E, cosi\ detto, avante a lui se tolse. Subitamente se fo dispartito; E come fo nel loco dove volse (Gia\ caminando avea preso il partito), Il suo libretto subito disciolse. Chiama i demonii il negromante ardito; Draginazo e Falsetta tra' da banda: Agli altri il dipartir presto comanda. Falsetta fa adobar com' uno araldo, Il qual serviva al re Marsili%one. L' insegna avea di Spagna quel ribaldo, La cotta d' arme, e in mano il suo bastone. Va messagiero a nome de Ranaldo, E gionse di Gradasso al paviglione, E dice a lui che a l' ora de la nona Avra\ Ranaldo in campo sua persona. Gradasso lieto accetta quello invito, E d' una coppa d' o^r l' ebbe donato. Subito quel demonio e\ dipartito, E tutto da quel che era, e\ tramutato; Le annelle ha ne l' orecchie, e non in dito, E molto drappo al capo ha inviluppato, La veste lunga e d' o^r tutta vergata; E di Gradasso porta l' ambasciata. Proprio parea di Persia uno almansore, Con la spada di legno e col gran corno; E qui, davanti a ciascadun segnore, Giura che all' ora primera del giorno, Senza ni%una scusa e senza errore, Sera\ nel campo il suo segnore adorno, Solo et armato, come fo promesso; E cio\ dice a Ranaldo per espresso. In molta fretta se e\ Ranaldo armato; E suoi gli sono intorno d' ogni banda. Da parte Ricciardetto ebbe chiamato, Il suo Baiardo assai gli racomanda. #_ O si\, o no, $_ dicea #_ che sia tornato, Io spero in Dio, che la vittoria manda; Ma se altro piace a quel Segnor soprano, Tu la sua gente torna a Carlo Mano. Fin che sei vivo debbilo obedire, Ne/ guardar che facesse in altro modo. Or ira, or sdegno m' han fatto fallire; Ma chi da\ calci contra a mur si\ sodo, Non fa le pietre, ma il suo pie\ stordire. A quel segnor, dignissimo di lodo, Che non ebbe al fallir mio mai riguardo, S' io son occiso, lascio il mio Baiardo. $_ Molte altre cose ancora gli dicia; Forte piangendo, in bocca l' ha baciato. Soletto alla marina poi s' invia; A piedi sopra il litto fo arivato. Quivi d' intorno alcun non apparia. Era un naviglio alla riva attaccato, Sopra di quel persona non appare: Stassi Ranaldo Gradasso a aspettare. Or ecco Draginazo che s' appara; Proprio e\ Gradasso, et ha la sopravesta Tutta d' azurro e d' o^r dentro la sbara, E la corona d' o^r sopra la testa, L' armi forbite e la gran simitara, E 'l bianco corno, che giamai non resta, E per cimero una bandiera bianca; In summa di quel re nulla gli manca. Questo demonio ne vene sul campo: Il passeggiare ha proprio di Gradasso; Ben dadovero par ch' el butti vampo. La simitara trasse con fraccasso. Ranaldo, che non vo^le avere inciampo, Sta su l' aviso e tiene il brando basso; Ma Draginazo con molta tempesta Li calla un colpo al dritto della testa. Ranaldo ebbe quel colpo a riparare: D' un gran riverso gli tira alla cossa. Or cominciano e colpi a radoppiare; A l' un e l' altro l' animo s' ingrossa. Mo comincia Ranaldo a soffi%are, E vo^l mostrare a un punto la sua possa: Il scudo che avea in braccio getta a terra, La sua Fusberta ad ambe mane afferra. Cosi\ crucioso, con la mente altiera, Sopra del colpo tutto se abandona. Per terra va la candida bandiera; Calla Fusberta sopra alla corona, E la barbuta getta tutta intiera. Nel scudo d' osso il gran colpo risuona, E dalla cima al fondo lo disserra; Mette Fusberta un palmo sotto terra. Ben prese il tempo il demonio scaltrito: Volta le spalle, e comincia a fuggire. Crede Ranaldo averlo sbigotito, E de allegrezza se/ non puo\ soffrire. Quel maledetto al mar se n' e\ fuggito; Dietro Ranaldo se 'l mette a seguire, Dicendo: #_ Aspetta un poco, re gagliardo: Chi fugge, non cavalca il mio Baiardo. Or debbe far un re si\ fatta prova? Non te vergogni le spalle voltare? Torna nel campo e Baiardo ritrova: La meglior bestia non puoi cavalcare. Ben e\ guarnito et ha la sella nova, E pur ier sira lo feci ferrare. Vien, te lo piglia: a che mi tieni a bada? Eccolo quivi, in ponta a questa spada. $_ Ma quel demonio ni%ente l' aspetta, Anci pariva dal vento portato. Passa ne l' acqua, e pare una saetta, E sopra quel naviglio fo montato. Ranaldo incontinente in mar se getta, E poi che sopra al legno fo arivato, Vede il nemico, e un gran colpo gli mena: Quel per la poppa salta alla carena. Ranaldo ognior piu\ drieto se gl' incora, E con Fusberta giu\ pur l' ha {add} seguito. {/add; segui\to. Z} Quel sempre fugge, e n' esce per la prora. Era 'l naviglio da terra partito, Ne/ pur Ranaldo se n' avede ancora, Tanto e\ dietro al nemico invellenito; Et e\ dentro nel mar gia\ sette miglia, Quando disparve quella meraviglia. Quello ando\ in fumo. Or non me domandate Se meraviglia Ranaldo se dona. Tutte le parte del legno ha cercate: Sopra al naviglio piu\ non e\ persona. La vella e\ piena, e le sarte tirate; Camina ad alto e la terra abandona. Ranaldo sta soletto sopra al legno: Oh quanto se lamenta il baron degno! ## Ah Dio del cel, $# dicea ## per qual peccato M' hai tu mandato cotanta sciagura? Ben mi confesso che molto ho fallato, Ma questa penitenzia e\ troppo dura. Io son sempre in eterno vergognato, Che/ certo la mia mente e\ ben sicura Che, racontando quel che me e\ accaduto, Io diro\ il vero, e non sera\ creduto. La sua gente mi dette il mio segnore, E quasi il stato suo mi pose in mano: Io, vil, codardo, falso, traditore, Gli lascio in terra e nel mar me allontano; Et or mi par d' odir l' alto romore Della gran gente del popol pagano; Parmi de' miei compagni odir le strida, Veder parmi l' Alfrera che gli occida. Ahi Ricciardetto mio, dove ti lasso Si\ giovanetto, tra cotanta gente? E voi, che pregion seti di Gradasso, Guicciardo, Ivone, Alardo mio valente? Or foss' io stato della vita casso, Quando in Spagna passai primeramente! Gagliardo fui tenuto e d' arme esperto: Questa vergogna ha l' onor mio coperto. Io me ne vado; or chi fara\ mia scusa, Quando sero\ de codardia appellato? Chi non sta al paragon, se stesso accusa: Piu\ non son cavallier, ma riprovato. Or foss' io adesso il figliol de Lanfusa, E per lui nel suo loco impregionato! Per lui dovessi in tormento morire! Ch' io non ne sentirei mita\ marti\re. Che se dira\ di me nella gran corte, Quando sera\ sentito il fatto in Franza? Quanto Mongrana se dolera\ forte Che il sangue suo commetta tal mancanza! Come {add} tri%omfaranno {/add; triomfaranno Z} in su le porte Gaino con tutta casa di Maganza! Ahime\! Gia\ puote' dirli traditore: Parlar non posso piu\; son senza onore. $# Cosi\ diceva quel baron pregiato, Et altro ancora nel suo lamentare; E ben tre volte fu deliberato Con la sua spada se stesso passare; E ben tre volte, come disperato, Come era armato, gettarse nel mare: Sempre il timor de l' anima e lo inferno Li veto\ far di se/ quel mal governo. La nave tutta fiata via camina, E fuor del stretto e\ gia\ trecento miglia. Non va il delfino per l' onda marina, Quanto va questo legno a meraviglia. A man sinistra la prora se inchina, Volto ha la poppa al vento di Sibiglia; Ne/ cosi\ stette volta, e in uno istante Tutta se e\ volta incontra di levante. Fornita era la nave da ogni banda, Excetto che persona non li appare, Di pane e vino et optima vivanda. Ranaldo ha poca voglia di mangiare: In genocchione a Dio si racomanda; E cosi\ stando, se vede arivare Ad un giardin, dove e\ un palagio adorno; Il mare ha quel giardin d' intorno intorno. Or qui lasciar lo voglio nel giardino, Che sentirete poi mirabil cosa, E tornar voglio a Orlando paladino, Qual, come io dissi, con mente amorosa Verso levante ha preso il suo camino; Giorno ne/ notte mai non se riposa, Sol per cercare Angelica la bella, Ne/ trova chi di lei sappia novella. Il fiume della Tana avea passato, Et e\ soletto il franco cavalliero. In tutto il giorno alcun non ha trovato: Presso alla sera riscontra un palmiero. Vecchio era assai e molto adolorato, Cridando: #_ Oh caso dispietato e fiero! Chi m' ha tolto il mio bene e 'l mio desio? Figliol mio dolce, te acomando a Dio! $_ #_ Se Dio te aiute, dimme, peregrino, Quella cagion che te fa lamentare. $_ Cosi\ diceva Orlando; e quel meschino Comincia il pianto forte a radoppiare, Dicendo: #_ Lasso! misero! tapino! Mala ventura ebbi oggi ad incontrare. $_ Orlando di pregarlo non vien meno Che il fatto gli raconti tutto a pieno. #_ Dirotti la cagion perch' io me doglio, $_ Rispose lui, #_ da poi che il vo^i sapere. Qui drieto a due miglia e\ uno alto scoglio, Che a la tua vista po^ chiaro apparere; Non a me, che non vedo come io soglio, Per pianger molto e per molti anni avere. La ripa di quel scoglio e\ d' erba priva, E di colore assembra a fiamma viva. Alla sua cima una voce risuona, Non se ode al mondo la piu\ spaventosa; Ma gia\ non te so dir cio\ che ragiona. Corre di sotto una acqua furi%osa, Che cinge il scoglio a guisa di corona. Un ponte vi e\ di pietra tenebrosa, Con una porta che assembra a diamante; E stavvi sopra armato un gran gigante. Un giovanetto mio figliuolo et io Quivi dapresso passavam pur ora; E quel gigante maledetto e rio, Quasi dir posso ch' io nol vidi ancora, Si\ de nascoso prese il figliol mio; Hassel portato, e credo che il divora. La cagion de che io piango, or saverai; Per mio consiglio indietro tornarai. $_ Pensossi un poco, e poi rispose Orlando: #_ Io voglio ad ogni modo avanti andare. $_ Disse il palmiero: #_ A Dio ti racomando, Tu non debbi aver voglia di campare. Ma credi a me, che il ver te dico: quando Avrai quel fier gigante a remirare, Che tanto e\ lungo e si\ membruto e grosso, Pel non avrai che non ti tremi adosso. $_ Risene Orlando, e preselo a pregare Che per Dio l' abbia un poco ivi aspettato, E se nol vede presto ritornare, Via se ne vada senza altro combiato. Il termine de un' ora li ebbe a dare, Poi verso il scoglio rosso se n' e\ andato. Disse il gigante, veggendol venire: #_ Cavallier franco, non voler morire. Quivi m' ha posto il re di Circasia, Perch' io non lasci alcuno oltra passare; Che/ sopra al scoglio sta una fera ria, Anci un gran monstro se debbe appellare, Che a ciascadun che passa in questa via, Cio\ che dimanda, suole indivinare; Ma poi bisogna che anco egli indivina Quel che la dice, o che qua giu\ il roina. $_ Orlando del fanciullo adimandone: Rispose averlo e volerlo tenire; Onde per questo fu la questi%one, E cominciorno l' un l' altro a ferire. Questo ha la spada, e quell' altro il bastone: Ad un ad un non voglio i colpi dire. Al fine Orlando tanto l' ha percosso, Che quel si rese e disse: #_ Piu\ non posso. $_ Cosi\ riscosse Orlando il giovanetto, E ritornollo al padre lacrimoso. Trasse il palmiero un drappo bianco e netto, Che nella tasca {add} tenia {/add; teni\a Z} nascoso. Di questo fuor sviluppa un bel libretto, Coperto ad oro e smalto luminoso; Poi volto a Orlando disse: #_ Sir compiuto, Sempre in mia vita ti sero\ tenuto. E s' io volessi te remeritare, Non bastarebbe mia possanza umana. Questo libretto voglilo accettare, Che e\ de virtu\ mirabile e soprana, Perche/ ogni dubbioso ragionare Su queste carte si dichiara e spiana. $_ E, donatogli il libro, disse: #_ Addio! $_ E molto allegro da lui se partio. Orlando s' aresto\ col libro in mano, E fra se stesso comincia a pensare; Mirando al scoglio che e\ cotanto altano, Ad ogni modo in cima vo^l montare, E vo^l veder quel monstro tanto istrano, Che ogni dimanda sapea indivinare. E sol per questo volea far la prova, Per saper dove Angelica si trova. Passa nel ponte con vista sicura, Che/ gia\ non lo divieta quel gigante. Egli ha provata Durindana dura, Da\gli la strata: Orlando passa avante. Per una tomba tenebrosa e oscura Monta alla cima quel baron aitante, Dove, entro a un sasso rotto per traverso, Stava quel monstro orribile e diverso. Avea crin d' oro e la faccia ridente Come donzella, e petto di lione, Ma in bocca avea di lupo ogni suo dente, Le braccie d' orso e branche di grifone, E busto e corpo e coda di serpente; L' ale depinte avea come pavone. Sempre battendo la coda lavora, Con essa e sassi e il forte monte fora. Quando quel monstro vede il cavalliero, Distese l' ale e la coda coperse: Altro che il viso non mostrava intiero. La pietra sotto lui tutta se aperse. Orlando disse a lui con viso fiero: #_ Tra le provenze e le lingue diverse, Dal freddo al caldo e da sira a l' aurora, Dimmi ove adesso Angelica dimora. $_ Dolce parlando, la maligna fiera Cosi\ risponde a quel che Orlando chiede: #_ Quella per cui tua mente se dispera, Presso al Cataio in Albraca si vede. Ma tu respondi ancora a mia manera: Qual animal passeggia senza piede? E poi qual altro al mondo se ritrova, Che con quattro, dui, tre de andar se prova? $_ Pensa Orlando alla dimanda strana, Ne/ sa di quella punto sviluppare: Senza dire altro trasse Durindana. Quella comincia intorno a lui volare; Or lo ferisce tutta subitana, Or lo minaccia e fallo intorno andare, Or di coda lo batte, or dello ungione: Ben li e\ mistiero aver sua fatasone. Che se non fosse lui stato afatato, Come era tutto, il cavalliero eletto, Ben cento volte l' arebbe passato, D' avanti a dietro, e dalle spalle al petto. Quando fu Orlando assai ben regirato, L' ira li monta e crescegli il dispetto; Adocchia il tempo e, quando quella cala, Piglia un gran salto, e gionsela ne l' ala. Cridando il crudel monstro cade a terra; Longe d' intorno fu quel crido odito. Le gambe a Orlando con la coda afferra, E con le branche il scudo li ha gremito. Ma presto fu finita questa guerra, Perche/ nel ventre Orlando l' ha ferito; Poi che de intorno a se/ l' ebbe spiccato, Giu\ di quel scoglio lo trabucca al prato. Smonta la ripa e prende il suo destriero, Forte camina, come inamorato; E cavalcando li venne in pensiero De cio\ che il monstro l' avea dimandato. Tornagli a mente il libro del palmiero, E fra se/ disse: ## Io fui ben smemorato! Senza battaglia potea satisfare. Ma cosi\ piacque a Dio che avesse andare. $# E guardando nel libro, pone cura Quel che disse la fera indivinare; Vede il vecchio marino e sua natura, Che con l' ale che nota, ha {ed} a {/ed Z} passeggiare; Poi vede che l' umana creatura In quattro piedi comincia ad andare, E poi con duo, quando non va carpone; Tre n' ha poi vecchio, contando il bastone. Leggendo il libro gionse a una rivera De una acqua negra, orribile e profonda. Passar non puote per nulla maniera, Che/ derupata e\ l' una e l' altra sponda. Lui de trovare il varco pur se spera, E, cavalcando il fiume alla seconda, Vede un gran ponte e un gigante che guarda: Vassene Orlando a lui, che/ gia\ non tarda. Come 'l gigante il vide, prese a dire: #_ Misero cavallier! Malvagia sorte Fu quella che ti fece qui venire. Sappi che questo e\ il Ponte della Morte; Ne/ piu\ di qui ti potresti partire, Perche/ son strate inviluppate e torte, Che pur al fiume te menan d' ogniora: Convien che un di noi doi sul ponte mora. $_ Questo gigante che guardava il ponte, Fu nominato Zambardo il robusto: Piu\ de duo piedi avea larga la fronte, Et a proporzi%on poi l' altro busto. Armato proprio rasembrava un monte, E tenea in man di ferro un grosso fusto; Dal fusto uscivan poi cinque catene, Ciascuna una pallotta in cima tiene: Ogni pallotta vinte libbre pesa. Da capo a piede e\ di un serpente armato, Di piastre e maglia, a fare ogni diffesa; La simitara avea dal manco lato. Ma, quel che e\ peggio, una rete ha distesa, Perche/, quando alcun l' abbia contrastato, Et abbia ardire e forza a meraviglia, Con la rete di ferro al fine il piglia. E questa rete non si puo\ vedere, Perche/ coperta e\ tutta ne l' arena; Lui col piede la scocca a suo piacere, E il cavallier con quella al fiume mena. Rimedio non si pote a questo avere; Qualunche e\ preso, e\ morto con gran pena. Non sa di questa cosa il franco conte: Smonta il destriero e vien dritto in sul ponte. Il scudo ha in braccio e Durindana in mano, Guarda il nemico grande et aiutante; Tanto ne cura il senator romano, Quanto quel fusse un piccoletto infante. Dura battaglia fu sopra quel piano. Ma in questo canto piu\ non dico avante, Che/ quello assalto e\ tanto faticoso, Che, avendo a dirlo, anch' io chiedo riposo. Stati ad odir, segnor, la gran battaglia, Che un' altra non fu mai cotanto oscura. Di sopra odisti la forza e la taglia De Zambardo, diversa creatura. Ora odireti con quanta travaglia Fu combattuto, e la disaventura Che intravenne ad Orlando senatore, Qual forse non fu mai, ne/ fia maggiore. Lo ardito cavallier monta su il ponte; Zambardo la sua mazza in mano afferra. A mezza cossa non li aggiunge il conte, Ma con gran salti si leva da terra, Si\ che ben spesso li tien fronte a fronte. Ecco il gigante che il baston disserra: Orlando vede il colpo che vien d' alto, Da l' altro canto se gitto\ de un salto. Forte se turba quel saracin fello; Ma ben lo fece Orlando piu\ turbare, Perche/ nel braccio il gionse a tal flagello, Che il baston fece per terra cascare. Subitamente poi parve uno uccello, Che l' altro colpo avesse a radoppiare; Ma tanto e\ duro il cor' di quel serpente, Che sempre poco ne tocca, o ni%ente. La simitara avea tratto Zambardo, Da poi ch' in terra gli cadde il bastone. Ben vide quel barone esser gagliardo, E de adoprar la rete fa rasone; Ma quello aiuto vo^l che sia il piu\ tardo. Or mena della spada un riversone; A meza guancia fu il colpo diverso: Ben vinti passi Orlando ando\ in traverso. Per questo e\ il conte forte riscaldato, Il viso gli comincia a lampeggiare; L' un e l' altro occhio aveva stralunato. Questo gigante ormai non puo\ campare: Il colpo mena tanto infulminato, Che Durindana facea vinculare, Et era grossa, come Turpin conta, Ben quattro dita da l' elcio alla ponta. Orlando lo colpisce nel gallone, Spezza le scaglie e il dosso del serpente. Avea cinto di ferro un corrigione: Tutto lo parte quel brando tagliente. Sotto lo usbergo stava il pancirone, Ma Durindana cio\ non cura niente; E certamente per mezo il tagliava, Se per lui stesso a terra non cascava. A terra cadde, o per voglia, o per caso, Io nol so dir; ma tutto se distese. Color nel volto non gli era rimaso, Quando vidde il gran colpo si\ palese; Il cor gli batte, e freddo ha il mento e 'l naso. Il suo baston, ch' e\ in terra, ancor riprese; Cosi\ a traverso verso Orlando mena, E gionsel proprio a mezo alla catena. Il conte di quel colpo ando\ per terra, E l' un vicino a l' altro era caduto. Cosi\ distesi, ancora se fan guerra; Piu\ presto in piedi Orlando e\ rivenuto. Nella barbuta ad ambe man lo afferra; Lui anco e\ preso dal gigante arguto, E stretto se lo abbraccia sopra al petto; Via ne 'l porta nel fiume il maledetto. Orlando ad ambe man gli batte il volto, Che/ Durindana in terra avea lasciata; Si\ forte il batte, che 'l cervel gli ha tolto: Cadde il gigante in terra un' altra fiata. Incontinente il conte si e\ rivolto Dietro alle spalle, e la testa ha abbracciata. Balordito e\ il gigante, e non gli vede, Ma al dispetto de Orlando salta in piede. Or si rinova il dispietato assalto: Questo ha il bastone, e quello ha Durindana. Gia\ nol puotea ferire Orlando ad alto, Standose fermo in su la terra piana, Ma sempre nel colpire alciava un salto: Battaglia non fu mai tanto villana. Vero e\ che Orlando del scrimire ha l' arte; Gia\ ferito e\ il gigante in quattro parte. Mostra Zambardo un colpo radoppiare, Ma nel ferire a mezo se rafrena; E, come vede Orlando indietro andare, Passagli adosso, e forte a due man mena. Non vale a Orlando il suo presto saltare; Sibilla il cielo e suona ogni catena. Non se smarisce quel conte animoso, Col brando incontra 'l colpo roi%noso: Et ha rotto il bastone e fraccassato. E non crediati poi ch' el stia a dormire; Ma d' un riverso al fianco gli ha menato, La\ dove l' altra volta ebbe a colpire. Quivi il cor' del serpente era tagliato: Or che potra\ Zambardo ben guarnire? Che/ Durindana vien con tal furore, Che la saetta de 'l tron non l' ha maggiore. Quasi il parte da l' uno a l' altro fianco (Da un lato se tenea poco, o ni%ente). Venne il gigante in faccia tutto bianco, E vede ben che e\ morto veramente. Forte la terra batte col pie\ stanco, E la rete si scocca incontinente, E con tanto furor agrappa Orlando, Che nel pigliar de man li trasse 'l brando. Le braccia al busto li strenge con pena, Che gia\ non si poteva dimenare; Tanto ha grossa la rete ogni catena, Che ad ambe man non si puotria pigliare. #_ O Dio del celo, o Vergine serena, $_ Diceva il conte #_ debbiame aiutare! $_ Alor che quella rete Orlando afferra, Cadde Zambardo morto in su la terra. Solitario e\ quel loco e si\ diserto, Che rare volte gli veni\a persona. Legato e\ il conte sotto il celo aperto; Ogni speranza al tutto l' abandona. Perduto e\ de l' ardire ogni suo merto: Non gli val forza, ne/ armatura buona. Senza mangiare un di\ stette in quel loco, E quella notte dormi\ molto poco. Cosi\ quel giorno e la notte passava; Cresce la fame, e la speranza manca. A cio\ che sente d' intorno, guardava: Et ecco un frate con la barba bianca. Come lo vidde, il conte lo chiamava, Quanto levar puotea la voce stanca: #_ Patre, amico de Dio, donami aiuto! Ch' io sono al fin della vita venuto. $_ Forte si meraviglia il vecchio frate, E tutte le catene va mirando; Ma non sa come averle dischiavate. Diceva il conte: #_ Pigliate il mio brando, E sopra a me questa rete tagliate. $_ Rispose il frate: #_ A Dio te racomando, S' io te occidessi, io seri\a irregulare; Questa malvagita\ non voglio fare. $_ #_ Stati securo in su la fede mia, $_ Diceva Orlando #_ ch' io son tanto armato, Che quella spada non mi tagliaria. $_ Cosi\ dicendo tanto l' ha pregato, Che il monaco quel brando pur prendia: Apena che di terra l' ha levato. Quanto puo\ l' alcia sopra alla catena: Non che la rompa, ma la segna apena. Poi che se vidde indarno affaticare, Getta la spada, e con parlare umano Comincia 'l cavalliero a confortare: #_ Vogli morir $_ dicea #_ come cristiano, Ne/ ti voler per questo disperare. Abbi speranza nel Segnor soprano, Che/, avendo in paci%enzia questa morte, Te fara\ cavallier della sua corte. $_ Molte altre cose assai gli sapea dire, E tutto il martilogio gli ha contato, La pena che ogni Santo ebbe a soffrire: Chi crucifisso, e chi fo scorticato. Dicea: #_ Figliolo, il te convien morire: Abbine Dio del celo ringraziato. $_ Rispose Orlando, con parlar modesto: #_ Ringraziato sia lui, ma non di questo; Perch' io vorrebbi aiuto, e non conforto. Mal aggia l' asinel che t' ha portato! Se un giovane veni\a, non seri\a morto: Non potea giunger qui piu\ sciagurato. $_ Rispose il frate: #_ Ahime\! barone accorto, Io vedo ben che tu sei disperato. Poi che ti e\ forza la vita lasciare, L' anima pensa, e non l' abbandonare. Tu sei barone di tanta presenza, E lascite alla morte spaventare? Sappi che la divina Provvidenza Non abandona chi in lei vo^l sperare: Troppo e\ dismisurata sua potenza! Io di me stesso ti voglio contare, Che sempre ho, la mia vita, in Dio sperato: Odi da qual fortuna io son campato. Tre frati et io di Ermenia se partimo, Per andar al perdono in Zorzania; E smarrimo la strata, come io stimo, Et arivamo quivi in Circasia. Un fraticel de' nostri andava primo, Perche/ diceva lui saper la via. Et ecco indietro correndo e\ rivolto, Cridando aiuto, e pallido nel volto. Tutti guardamo; et ecco giu\ del monte Venne un gigante troppo smisurato. Un occhio solo aveva in mezo al fronte; Io non ti sapria dir de che era armato: Pareano ungie di draco insieme agionte. Tre dardi aveva e un gran baston ferrato; Ma cio\ non bisognava a nostra presa, Che tutti ce lego\ senza contesa. A una spelonca dentro ce fe' entrare, Dove molti altri avea nella pregione; Li\ con questi occhi miei viddi io sbranare Un nostro fraticel, che era garzone; E cosi\ crudo lo viddi mangiare, Che mai non fo maggior compassi%one. Poi volto a me dicea: #" Questo letame Non se potra\ mangiar, se non con fame; $" E con un pie\ mi trabucco\ del sasso. Era quel scoglio orribile et arguto: Trecento braccia e\ dalla cima al basso. In Dio speravo, e Lui mi dette aiuto; Perche/ ruinando io giu\ tutto in un fasso, Me fo un ramo de pruno in man venuto, Che uscia del scoglio con branchi spinosi; A quel me appresi, e sotto a quel me ascosi. Io stavo queto e pur non soffi%ava, Fin che venuto fu la notte oscura. $_ Mentre che 'l frate cosi\ ragionava Guardosse indietro, e con molta paura Fuggia nel bosco. #_ Ahime\ tristo! $_ cridava #_ Ecco la maladetta creatura, Quel che io t' ho detto ch' e\ cotanto rio. Franco barone, io te acomando a Dio. $_ Cosi\ li disse, e piu\ non aspettava, Che/ presto nella selva se nascose. Quel gigante crudel quivi arivava: La barba e le mascielle ha sanguinose; Con quel grande occhio d' intorno guardava. Vedendo Orlando, a riguardar se il pose; Sul col lo abbranca e forte lo dimena, Ma nol puo\ sviluppar della catena. #_ Io non vo' gia\ lasciar questo grandone, $_ Diceva lui #_ dapoi ch' io l' ho trovato; Debbe esser sodo come un bon montone: Integro a cena me lo avro\ mangiato, Sol de una spalla vo' fare un boccone. $_ Cosi\ dicendo, ha il grande occhio voltato, E vede Durindana su la terra: Presto se china e quella in mano afferra. E soi tre dardi e il suo baston ferrato Ad una quercia avea posati apena, Che Durindana, quel brando afilato, Con ambe mano adosso a Orlando mena; Lui non occise, perche/ era fatato, Ma ben gli taglia adosso ogni catena; E si\ gran bastonata sente il conte, Che tutto suda dai piedi alla fronte. Ma tanto e\ l' allegrezza de esser sciolto, Che nulla cura quella passi%one. Dalle man del gigante e\ presto tolto; Corre alla quercia, e piglia il gran bastone. Quel dispietato se turbo\ nel volto, Che/ se 'l credea portar come un castrone: Poi che altramente vede il fatto andare, Per forza se il destina conquistare. Come sapiti, essi hanno arme cambiate. Orlando teme assai della sua spada, Pero\ non se avicina molte fiate; Da largo quel gigante tiene a bada. Ma lui menava botte disperate: Il conte non ne vo^l di quella biada; Or la\, or qua giamai fermo non tarda, E da sua Durindana ben se guarda. Batte spesso il gigante del bastone, Ma tanto viene a dir come ni%ente, Che/ quello e\ armato d' ungie de grifone: Piu\ dura cosa non e\ veramente. Per lunga stracca pensa quel barone Che nei tre giorni pur sara\ vincente; E mentre che 'l combatte in tal riguardo, Muta pensiero, e prende in mano un dardo. Un di quei dardi che lascio\ il gigante; Orlando prestamente in man l' ha tolto. Non fallo\ il colpo quel segnor d' Anglante, Che/ proprio a mezo l' occhio l' ebbe co\lto. Un sol n' avea, come odisti davante, E quel sopra del naso in cima al volto: Per quello occhio ando\ il dardo entro al cervello; Cade il gigante in terra con flagello. Non fa piu\ colpo a sua morte mistiero: Orlando ingenocchion Dio ne ringraccia. Ora ritorna il frate in sul sentiero, Ma come vede quel gigante in faccia, Ben che sia morto, li parve si\ fiero, Che ancor fuggendo nel bosco si caccia. Ridendo Orlando il chiama et assicura: E quel ritorna, et ha pur gran paura. E poi diceva: #_ O cavallier de Dio, Che/ ben cosi\ ti debbo nominare, Opera de un baron devoto e pio Sera\ de morte l' anime campare Che avea nella pregion quel monstro rio: Alla spelonca te sapro\ guidare. Ma se un gigante fosse rivenuto, Da me non aspettare alcuno aiuto. $_ Cosi\ dicendo alla spelonca il guida, Ma de entrar dentro il frate dubitava. Orlando in su la bocca forte crida: Una gran pietra quel buco serrava. La\ giu\ se {add} odi\no {/add; odino Z} voce in pianto e strida, Che/ quella gente forte lamentava. La pietra era de un pezzo, quadra e dura; Dece piedi e\ ogni quadro per misura. Aveva un piede e mezo di grossezza, Con due catene quella si sbarava. In questo loco infinita fortezza Volse mostrare il gran conte di Brava; Con Durindana le catene spezza, Poi su le braccia la pietra levava; E tutti quei prigion subito sciolse, Et ando\ ciascadun la\ dove volse. De qui se parte il conte, e lascia il frate; Va per la selva dietro ad un sentiero, E gionse proprio dove quattro strate Faceano croce; e stava in gran pensiero Qual de esse meni alle terre abitate. Vede per l' una venire un correro; Con molta fretta quel correro andava: Il conte de novelle il dimandava. Dicea colui: #_ Di Media son venuto, E voglio andare al re di Circasia; Per tutto il mondo vo' cercando aiuto Per una dama, che e\ regina mia. Ora ascoltati il caso intravenuto: Il grande imperator di Tartaria De la regina e\ inamorato forte, Ma quella dama a lui vo^l mal di morte. Il patre della dama, Galifrone, E\ omo antiquo et amator di pace; Ne/ col Tartaro vo^l la questi%one, Che/ quello e\ un segnor forte e troppo audace. Vo^l che la figlia, contra a ogni ragione, Prenda colui che tanto li dispiace: La damigella prima vo^l morire Che alla voglia del patre consentire. Ella ne e\ dentro ad Albraca fuggita, Che longe e\ dal Cataio una giornata; Et e\ una rocca forte e ben guarnita, Da fare a lungo assedio gran durata. Li\ dentro adesso e\ la dama polita, Angelica nel mondo nominata; Che/ qualunche e\ nel cel piu\ chiara stella, Ha manco luce et e\ di lei men bella. $_ Poi che partito fo quel messagiero, Orlando via cavalca alla spiccata; E ben pare a se stesso nel pensiero Aver la bella dama guadagnata. Cosi\ pensando, il franco cavalliero Vede una torre con lunga murata, La qual chiudeva de uno ad altro monte; Di sotto ha una rivera con un ponte. Sopra a quel ponte stava una donzella, Con una coppa di cristallo in mano. Veggendo il conte, con dolce favella Fassigli incontra, e con un viso umano Dice: #_ Baron, che seti su la sella, Se avanti andati, vo' andareti in vano. Per forza o ingegno non si puo\ passare: La nostra usanza vi convien servare. Et e\ l' usanza che in questo cristallo Bever conviensi di questa rivera. $_ Non pensa il conte inganno o altro fallo: Prende la coppa piena, e beve intera. Come ha bevuto, non fa lungo stallo Che tutto e\ tramutato a quel che egli era; Ne/ sa per che qui venne, o come, o quando, Ne/ se egli e\ un altro, o se egli e\ pur Orlando. Angelica la bella gli e\ fuggita Fuor della mente, e lo infinito amore Che tanto ha travagliata la sua vita; Non se ricorda Carlo imperatore. Ogni altra cosa ha del petto bandita, Sol la nova donzella gli e\ nel core; Non che di lei se speri aver piacere, Ma sta suggetto ad ogni suo volere. Entra la porta sopra a Brigliadoro, Fuor di se stesso, quel conte di Brava. Smonta a un palagio de si\ bel lavoro, Che per gran meraviglia il riguardava; Sopra a colonne de ambro e base d' oro Una ampla e ricca logia se posava; Di marmi bianchi e verdi ha il suol distinto, Il cel de azurro et o^r tutto e\ depinto. Davanti della logia un giardin era, Di verdi cedri e di palme adombrato, E de arbori gentil de ogni maniera. Di sotto a questi verdeggiava un prato, Nel qual sempre fioriva primavera: Di marmoro era tutto circondato; E da ciascuna pianta e ciascun fiore Usciva un fiato di suave odore. Posesi il conte la logia a mirare, Che avea tre facce, ciascuna depinta. Si\ seppe quel maestro lavorare, Che la natura vi serebbe vinta. Mentre che il conte stava a riguardare, Vide una istoria nobile e distinta. Donzelle e cavallieri eran coloro: Il nome de ciascuno e\ scritto d' oro. Era una giovanetta in ripa al mare, Si\ vivamente in viso colorita, Che, chi la vede, par che oda parlare. Questa ciascuno alla sua ripa invita, Poi li fa tutti in bestie tramutare. La forma umana si vedia rapita; Chi lupo, chi leone e chi cingiale, Chi diventa orso, e chi grifon con l' ale. Vedevasi arivar quivi una nave, E un cavalliero uscir di quella fuore, Che con bel viso e con parlar suave Quella donzella accende del suo amore. Essa pareva donarli la chiave, Sotto la qual si guarda quel liquore, Col qual piu\ fiate quella dama altera Tanti baron avea mutati in fera. Poi si vedea lei tanto accecata Del grande amor che portava al barone, Che dalla sua stessa arte era ingannata, Bevendo al napo della incantasone; Et era in bianca cerva tramutata, E da poi presa in una cacciasone (Circella era chiamata quella dama): Dolesi quel baron che lei tanto ama. Tutta la istoria sua ve era compita, Come lui fugge, e lei dama tornava. La depintura e\ si\ ricca e polita, Che d' o^r tutto il giardino aluminava. Il conte, che ha la mente sbigotita, Fuor de ogni altro pensier quella mirava. Mentre che de se stesso e\ tutto fore, Sente far nel giardino un gran romore. Ma poi vi contaro\ di passo in passo Di quel romore, e chi ne fu cagione. Ora voglio tornare al re Gradasso, Che tutto armato, come campi%one, Alla marina giu\ discese al basso. Tutto quel giorno aspetta il fio de Amone: Or pensati se il debbe aspettare, Che/ quel dua millia leghe e\ longe in mare. Ma poi che vede il cel tutto stellato, E che Ranaldo pur non e\ apparito, Credendo certamente esser gabato Ritorna al campo tutto invelenito. Diciam de Ricciardetto adolorato, Che, poi che vede il giorno esserne gito, E che non e\ tornato il suo germano, O morto, o preso lo crede certano. De l' animo che egli e\, voi lo pensati; Ma non lo abatte gia\ tanto il dolore, Che non abbia i Cristian tutti adunati, E del suo dipartir conta il tenore; E quella notte se ne sono andati. Non ebbeno i Pagani alcun sentore; Che/ ben tre leghe il sir di Montealbano Dal re Marsilio aloggiava lontano. Via caminando van senza riposo, Fin che son gionti di Francia al confino. Or tornamo a Gradasso furi%oso: Tutta sua gente fa armare al matino. Marsilio da altra parte e\ pauroso, Che/ preso e\ Ferraguto e Serpentino, Ne/ vi ha baron che ardisca di star saldo: Fugirno i Cristi%an, perso e\ Ranaldo. Viene lui stesso, con basso visaggio, Avante al re Gradasso ingenocchione; De' Cristi%ani raconta lo oltraggio, Che fuggito e\ Ranaldo, quel giottone. Esso promette voler fare omaggio, Tenir il regno come suo barone; Et in poche parole e\ssi acordato; L' un campo e l' altro insieme e\ mescolato. Usci\ Grandonio fuor de Barcellona; E fece poi Marsilio il giuramento Di seguir de Gradasso la corona Contra di Carlo e del suo tenimento. Esso in secreto e palese ragiona Che disfara\ Parigi al fondamento, Se non gli e\ dato il suo Baiardo in mano; E tutta Francia vo^l gettare al piano. Gia\ Ricciardetto con tutta la gente E\ gionto dal re Carlo imperatore; Ma di Ranaldo non sa dir ni%ente. Di questo e\ nato in corte un gran romore. Quei di Magancia assai vilanamente Dicono che Ranaldo e\ un traditore. Ben vi e\ chi il niega, et ha questi a mentire, E vo^l battaglia con chi lo vo^l dire. Ma il re Gradasso ha gia\ passati i monti, Et a Parise se ne vien disteso. Raduna Carlo soi principi e conti, E bastagli lo ardir de esser diffeso. Nella cita\ guarnisce torre e ponti, Ogni partito della guerra e\ preso. Stanno ordinati; et ecco una matina Vedon venir la gente saracina. Lo imperatore ha le schiere ordinate Gia\ molti giorni avanti nella terra. Or le bandiere tutte son spiegate, E suonan gl' instrumenti de la guerra. Tutte le gente sono in piaza armate, La porta di San Celso se disserra; Pedoni avanti, e dietro i cavallieri: Il primo assalto fa il danese Ogieri. Il re Gradasso ha sua gente partita In cinque parte, ognuna e\ gran battaglia. La prima e\ de India una gente infinita: Tutti son negri la brutta canaglia. Sotto a duo re sta questa gente unita: Cardone e\ l' uno, e come cane abaglia; Il suo compagno e\ il dispietato Urnasso, Che ha in man la cetta e de sei dardi un fasso. A Stracciaberra la seconda tocca. Mai non fu la piu\ brutta creatura: Dui denti ha de cingial fuor della bocca, Sol nella vista a ogni om mette paura. Con lui Francardo, che con l' arco scocca Dardi ben lunghi e grossi oltra misura. Di Taprobana e\ poi la terza schiera; Conducela il suo re, e quello e\ l' Alfrera. La quarta e\ tutta la gente di Spagna, Il re Marsilio et ogni suo barone. La quinta, che empie il monte e la campagna, E\ proprio di Gradasso il suo penone; Tanta e\ la gente smisurata e magna, Che non se ne puo\ far descrizi%one. Ma parlamo ora del forte Danese, Che con Cardone e\ gia\ gionto alle prese. Dodeci millia di bella brigata Mena il danese Ogieri alla battaglia, E tutta insieme stretta e ben serrata; La schiera de quei negri apre e sbaraglia. Contra a Cardone ha la lancia arestata: Quel brutto viso come un cane abaglia; Sopra un gambilo armato e\ il maledetto. Danese lo colpisce a mezo il petto. E non li vale scudo o pancirone, Che/ giu\ di quel gambilo e\ {add} rui%nato; {/add; ruinato; Z} Or tra' di calci al vento sul sabbione, Perche/ da banda in banda era passato. Movese Urnasso, l' altro compagnone: Verso il Danese ha de un dardo lanciato. Passa ogni maglia, e la corazza, e il scudo, Et ando\ il ferro insino al petto nudo. Ogier turbato li sperona adosso; Quel lancio\ l' altro con tanto furore, Che li passo\ la spalla insino a l' osso, E ben sente il Danese un gran dolore, Fra se/ dicendo: ## Se accostar mi posso, Io te castigaro\, can traditore! $# Ma quello Urnasso e dardi in terra getta, E prende ad ambe mani una gran cetta. Segnor, sappiate che il caval de Urnasso Fu bon destriero e pien de molto ardire: Un corno aveva in fronte lungo un passo, Con quel suoleva altrui spesso ferire. Ma per adesso di cantar vi lasso, Che/, quando e\ troppo, incresce ogni bel dire: E la battaglia, ch' ora e\ cominciata, Sera\ crudele e lunga e smisurata. Dura battaglia e crudele e diversa E\ cominciata, come ho sopra detto; Ora il Danese Urnasso giu\ riversa: Partito l' ha Curtana insino al petto. Questa schiera pagana era ben persa; Ma quel destrier de Urnasso maledetto Feri\ il Danese col corno alla coscia: Lo arnese e quella passa con angoscia. Era il Danese in tre parte ferito, E torno\ indrieto a farse medicare. Lo imperator, che 'l tutto avea sentito, Fa Salamone alla battaglia entrare, E dopo lui Turpino, il prete ardito; Il ponte a San Dionigi fa callare, E mette Gaino fuor con la sua scorta: Ricardo fece uscir de un' altra porta. De un' altra uscitte il possente Angelieri, Dudon quel forte, che a bonta\ non mente: E da Porta Real vien Olivieri, E di Bergogna quel Guido possente; Il duca Naimo e il figlio Berlengieri, Avolio, Otone, Avino, ogniom valente, Chi da una porta e chi da l' altra vene, Per dare a' Saracin sconfitta e pene. Lo imperator, de gli altri piu\ feroce, Uscitte armato, e guida la sua schiera, Racomandando a Dio con umil voce La cita\ di Parigi, che non piera. Monaci e preti con reliquie e croce Vanno de intorno, e fan molte preghera A Dio e a' Santi, che diffenda e guardi Re Carlo Mano e' soi baron gagliardi. Ora suona a martello ogni campana, Trombe, tamburi, e cridi ismisurati; E da ogni parte la gente pagana Davanti, in mezzo e dietro {add} e\no {/add; eno Z} assaltati. Battaglia non fu mai cotanto strana, Che/ tutti insieme son ramescolati. Olivier tra la gente saracina Un fiume par che fenda la marina. Cavalli e cavallier vanno a traverso, E questo occide, e quel getta per terra; Mena Altachiera a dritto et a roverso, Piu\ che mille altri ai Saracin fa guerra: Non creder che un sol colpo egli abbia perso. Ecco scontrato fu con Stracciaberra, Quel negro de India, re di Lucinorco, C' ha for di bocca il dente come porco. Tra lor duro\ la battaglia ni%ente, Che/ il marchese Olivier mosse Altachiera, Tra occhio e occhio e l' uno e l' altro dente, Partendo in mezo quella faccia nera; Poi da\ tra li altri col brando tagliente, Mete in ruina tutta quella schiera; E mentre che 'l combatte con furore, Ariva quivi Carlo imperatore. Avea quel re la spada insanguinata, Montato era quel giorno in su Baiardo; La gente saracina ha sbarattata, Mai non fu visto un re tanto gagliardo. Ripone il brando e una lancia ha pigliata, Pero\ che ebbe adocchiato il re Francardo: Francardo, re d' Elissa, l' Indi%ano, Che combattendo va con lo arco in mano. Sagittando va sempre quel diverso: Tutto era negro, e il suo gambilo e\ bianco. Lo imperatore il gionse su il traverso, E tutto lo passo\ da fianco a fianco; De l' anima pensati, il corpo e\ perso. Ma gia\ non parve allor Baiardo stanco; Col morto era il gambilo in sul sentiero, Sopra de un salto li passo\ il destriero. #_ Chi mi potra\ giamai chiuder il passo, Ch' io non ritrovi a mio diletto scampo? $_ Dicea il re Carlo; e con molto fracasso Parea fra' Saracin di foco un vampo. Cornuto, quel destrier che fu de Urnasso, Andava a vota sella per il campo. Col corno in fronte va verso Baiardo: Non si spaventa quel destrier gagliardo. Senza che Carlo lo governi o guide, Volta le groppe e un par de calci sferra; Dove la spalla a ponto se divide, Gionse a Cornuto, e gettalo per terra. Oh quanto Carlo forte se ne ride! Mo se incomincia ad ingrossar la guerra, Perche/ de' Saracin gionge ogni schiera; Davanti a tutti gli altri vien l' Alfrera. Su la zirafa viene il smisurato, Menando forte al basso del bastone: Turpin de Rana al campo ebbe trovato, Sotto la cinta se il pose al gallone; Tal cura n' ha se non l' avesse a lato. Dopo lui branca Berlengiere e Otone: De tutti tre dopo ne fece un fasso, Legati insieme li porta a Gradasso. E ritorno\ ben presto alla campagna, Che/ tutti gli altri ancora vo^l pigliare. Gionse Marsilio e sua gente di Spagna; Or si comincia le man a menare. La vita o il corpo qua non si sparagna, Ciascun tanto piu\ fa, quanto puo\ fare. Gia\ tutti i paladini et Olivieri Sono redutti intorno allo imperieri. Egli era in su Baiardo, copertato A zigli d' o^r da le co^me al tallone; Oliviero il marchese a lato a lato, Alle sue spalle il possente Dudone, Angelieri e Ricardo apregi%ato, Il duca Naimo e il conte Ganelone. Ben stretti insieme vanno con ruina Contra a Marsilio e gente saracina. Ferraguto scontro\ con Olivieri: Ebbe vantaggio alquanto quel pagano, Ma non che lo piegasse de il destrieri; Poi cominciorno con le spade in mano. E scontrorno Spinella et Angelieri; E il re Morgante se scontro\ con Gano, E lo Argalifa e il duca di Bavera, E tutta insieme poi schiera con schiera. Cosi\ le schiere sono insieme urtate. Grandonio era afrontato con Dudone; Questi si davan diverse mazate, Pero\ che l' uno e l' altro avea il bastone. Par che le gente siano acoppi%ate; Re Carlo Mano e\ con Marsili%one: E ben l' arebbe nel tutto abattuto, Se non gli fosse gionto Ferraguto, Che lascio\ la battaglia de Oliviero, Tanto gl' increbbe di quel suo ci%ano. Ma quel marchese, ardito cavalliero, Venne allo aiuto lui de Carlo Mano. Or ciascun di lor quattro e\ bon guerrero, Di core ardito e ben presto di mano; Re Carlo era quel giorno piu\ gagliardo Che fosse mai, perche/ era su Baiardo. Ciascuno e\ gran barone, o re possente, E per onore e gloria se procaccia; Non se adoprano i scudi per ni%ente, Ogni om mena del brando ad ambe braccia. Ma in questo tempo la cristiana gente La schiera saracina in rotta caccia; Del re Marsilio e\ in terra la bandiera. Ecco alla zuffa e\ tornato l' Alfrera. Quella gente de Spagna se ne andava A tutta briglia fuggendo nel piano. Marsilio, ne/ Grandonio li voltava, Anci con gli altri in frotta se ne vano. E lo Argalifa le gambe menava, E il re Morgante, quel falso pagano; Spinella si fuggiva alla distesa: Sol Ferraguto e\ quel che fa diffesa. Lui ritornava a guisa di leone, Ne/ mai le spalle al tutto rivoltava. Adosso a lui sempre e\ il franco Dudone, Olivieri e il re Carlo martellava. Lui or de ponta, or mena riversone, Or questo, or quel di tre spesso cacciava; Ma, come egli era punto dai soi mosso, A furia tutti tre gli eran adosso. E certamente l' avrian morto, o preso, Ma, come e\ detto, ritorno\ l' Alfrera. Mena il bastone di cotanto peso, Al primo colpo divide una schiera. Gia\ Guido di Bergogna a lui si e\ reso, Con esso il vecchio duca di Bavera; Ma Olivi%er, Dudone e Carlo Mano Tutti tre insieme adosso a lui ne vano. Chi di qua, chi di la\ li viene a dare, Ciascun li e\ intorno con fronte sicura; Lui la zirafa non puo\ rivoltare, Ch' e\ bestia pigra molto per natura. Colpi diversi ben potea menare: Re Carlo e gli altri de schiffarli han cura; Ma, poi che piu\ non puo\, nanti a Gradasso Con la ziraffa fugge di trapasso. Il re Gradasso lo vede venire, Che l' avea prima in bona opini%one. Verso di lui se afronta, e prese a dire: #_ Ahi brutto manigoldo! vil briccone! Non te vergogni a tal modo fuggire? Tanto sei grande e sei tanto poltrone? Va nel mio paviglion, vituperato! Fa che piu\ mai io non ti veda armato. $_ E cosi\ detto, tocca la sua alfana; Al primo scontro riverso\ Dudone. Mostra Gradasso forza piu\ che umana: Ricardo abatte e lo re Salamone. Movesi la sua gente sericana, A tutti fa il suo core di dracone; Di ferro intorno e\ cinta la sua lanza: Mai non fu al mondo si\ fatta possanza. {t} E' {/t S; E Z} se fu riscontrato al conte Gano: Gionse nel scudo, a petto del falcone; A gambe aperte lo gitto\ sul piano. Da longe ebbe veduto il re Carlone: Spronagli adosso, con la lancia in mano, Al primo colpo il getta de l' arcione; La briglia de Baiardo in mano ha tolta: Presto le groppe quel destrier rivolta. Forte cridando, un par de calci mena, Di sotto dal genocchio il colse un poco; La schinera e\ incantata e grossa e piena, Pur dentro se piego\ gettando foco. Mai non senti\ Gradasso cotal pena: Tanto ha la doglia, che non trova loco. Lascia Baiardo e la briglia abandona: Dentro a Parigi va la bestia bona. Gradasso si ritorna al pavaglione; Non dimandati se l' ha gran dolore. S' e\ radotto nel campo ier un vecchione, Che della medicina avea l' onore. Lego\ il genocchio con molta ragione; Poi de radice e d' erbe avea un liquore, Che, come il re Gradasso l' ha bevuto, Par che quel colpo mai non abbia avuto. Or torna alla battaglia assai piu\ fiero: Non e\ rimedio alla sua gran possanza. Venegli addosso il marchese Oliviero, Ma lui lo atterra de un colpo de lanza. Avolio, Avino e Guido et Angeliero Van tutti quattro insieme ad una danza: A dire in summa, e' non vi fu barone Che non l' avesse quel giorno pregione. Il popol cristi%ano in fuga e\ volto. Ne/ contra a' Saracin piu\ fan diffesa. Ogni franco baron di mezzo e\ tolto, L' altra gentaglia fugge alla distesa. Non vi e\ chi mostri a quei pagani il volto; Tutta la bona gente e\ morta, o presa; Gli altri tutti ne vanno in abandono. Sempre alle spalle e Saracin li sono. Or dentro da Parigi e\ ben palese La gran sconfitta, e che Carlo e\ in pregione. Salta del letto subito il Danese, Forte piangendo, quel franco barone. Fascia la coscia, vestise l' arnese, Et a la porta ne viene pedone; Che/, per non indugiare, il sir pregiato Comanda che il destrier li sia menato. Come qui gionge, la porta e\ serrata, Di fuor da quella se odeno gran stride; Morta e\ tutta la gente baptizata. Non vo^le aprir quel portiero omicide; Perche/ la Pagania non vi sia entrata, Comporta che i Pagan sua gente occide. Il Danese lo prega e lo conforta Che sotto a sua diffesa apra la porta. Quel portier crudo con turbata faccia Dice al Danese che non vo^le aprire, E con parole superbe il minaccia, Se dalla guardia sua non se ha a partire. Il Danese turbato prende una accia; Ma, come quello il vede a se/ venire, Lascia la porta e fugge per la terra: Presto il Danese quella apre e disserra. Il ponte cala lo ardito guerrero; Sopra vi monta lui con l' accia in mano. Ora di aver boni occhi li e\ mestiero, Che/ dentro fugge a furia ogni Cristiano, E ciascadun vo^le essere il primero. Meschiato e\ tra lor seco alcun pagano; Ben lo cognosce il Danese possente, E con quella accia fa ciascun dolente. Gionge la furia de' pagani in questa: Avanti a tutti gli altri e\ Serpentino. Sopra del ponte salta con tempesta, L' accia mena il Danese paladino, E gionge a Serpentino in su la testa. Tutto se avampa a foco l' elmo fino, Perche/ di fatasone era sicura Del franco Serpentin quella armatura. Sente il Danese la folta arivare: Gionge Gradasso e Ferragu\ possente. Ben vede lui che non puo\ riparare, Tanto gli ingrossa d' intorno la gente; Il ponte alle sue spalle fa tagliare. Giamai non fu un baron tanto valente; Contra tanti pagan tutto soletto Diffese un pezo il ponte al lor dispetto. Intorno li e\ Gradasso tutta fiata, E ben comanda che altri non se impaccia. Sente il Danese la porta serrata: Ormai piu\ non si cura, e mena l' accia. Gradasso con la man l' ebbe spezzata; Dismonta a piedi e ben stretto lo abbraccia. Grande e\ il Danese e forte campi%one, Ma pur Gradasso lo porta prigione. Dentro alla terra non e\ piu\ barone, Et e\ venuto gia\ la notte scura. Il popol tutto fa processi%one, Con veste bianche e con la mente pura: Le chiesie sono aperte e le pregione. Il giorno aspetta con molta paura; Ne/ altro ne resta che, alla porta aperta, Veder se stesso e sua cita\ deserta. Astolfo con quelli altri fo lasciato, Ne/ se amentava alcun che 'l fosse vivo; Perche/, come fu prima impregionato, Fu detto a pieno che de vita e\ privo. Era lui sempre di parlar usato, E vantatore assai piu\ che non scrivo; Pero\, come odi\ 'l fatto, disse: #_ Ahi lasso! Ben seppe come io stava il re Gradasso. Se io me trovavo della pregion fuora, Non era giamai preso il re Carlone: Ma ben li ponero\ rimedio ancora. Il re Gradasso vo' pigliar pregione; E domatina, al tempo de l' aurora, Armato e solo io montaro\ in arcione; Stati voi sopra a' merli alla vedetta. Tristo e\ il pagan che nel campo me aspetta! $_ Di for se allegra quella gente fiera, E stanno al re Gradasso tutti intorno. Lui sta nel mezzo con superba ciera, Per prender la citade al novo giorno; Per allegrezza perdono\ a l' Alfrera. Or condutti e pregion davanti fo^rno: Come Gradasso vide Carlo Mano, Seco lo assetta e prendelo per mano. Et a lui disse: #_ Savio imperatore, Ciascun segnor gentil e valoroso La gloria cerca e pascese de onore. Chi attende a far ricchezze, o aver riposo, Senza mostrare in prima il suo valore, Merta del regno al tutto esser deposo. Io, che in Levante mi potea possare, Sono in Ponente per fama acquistare. Non certamente per acquistar Franza, Ne/ Spagna, ne/ Alamagna, ne/ Ungaria: Lo effetto ne fara\ testimonianza. A me basta mia antiqua segnoria; Equale a me non voglio di possanza. Adunque ascolta la sentenzia mia: Un giorno integro tu con toi baroni Voglio che in campo me siati prigioni; Poi ne potrai a tua cita\ tornare, Che/ io non voglio in tuo stato por la mano, Ma con tal patto: che me abbi a mandare Il destrier del segnor di Montealbano; Che/ de ragione io l' ebbi ad acquistare, Abenche/ me gabasse quel villano. E simil voglio, come torni Orlando, Che in Sericana mi mandi il suo brando. $_ Re Carlo dice de darli Baiardo, E che del brando fara\ suo potere; Ma il re Gradasso il prega senza tardo Che mandi a tuorlo, che/ lo vuol vedere. Cosi\ ne viene a Parigi Ricardo; Ma come Astolfo questo ebbe a sapere (Lui del governo ha pigliato il bastone), Prende Ricardo e mettelo in pregione. Di fuor del campo manda uno araldo A disfidar Gradasso e la sua gente; E se lui dice aver preso Ranaldo, O ver cacciato, o morto, che il ne mente, E disdir lo fara\ come ribaldo; Che Carlo ha a fare in quel destrier ni%ente. Ma se lo vo^le, esso il venga acquistare; Doman su il campo ge l' avro\ a menare. Gradasso domandava a re Carlone Chi fosse questo Astolfo e di che sorte. Carlo gli dice sua condizi%one, Et e\ turbato ne l' animo forte. Gano dicea: #_ Segnor, egli e\ un buffone, Che da\ diletto a tutta nostra corte; Non guardare a suo dir, ne/ star per esso Che non ci attendi quel che ci hai promesso. $_ Dicea Gradasso a lui: #_ Tu dici bene, Ma non creder pero\ per quel ben dire Di andarne tu, se Baiardo non viene. Sia chi si vo^le, egli e\ de molto ardire. Voi seti qui tutti presi con pene, E lui vo^l meco a battaglia venire. Or se ne venga, e sia pur bon guerrero, Ch' io son contento; ma mena il destriero. Ma s' io guadagno per forza il ronzone, Io pur far posso de voi il mio volere, Ne/ son tenuto alla condizi%one, Se non m' aveti il patto ad ottenere. $_ O quanto era turbato il re Carlone! Che/, dove il crede libertade avere, E stato, e robba, et ogni suo barone, Perde ogni cosa; e un paccio ne e\ cagione. Astolfo, come prima apparve il giorno, Baiardo ha tutto a pardi copertato; Di grosse perle ha l' elmo al cerchio adorno Guarnito, e d' o^r la spada al manco lato. E tante ricche petre aveva intorno, Che a un re de tutto il mondo avria bastato: Il scudo e\ d' oro; e su la coscia avia La lancia d' o^r, che fu de l' Argalia. Il sole a punto alora si levava, Quando lui giunse in su la prataria. A gran furore il suo corno sonava, E ad alta voce dopo il suon dicia: #_ O re Gradasso, se forse te grava Provarti solo alla persona mia, Mena con teco il gran gigante Alfrera, E, se te piace, mille in una schiera. Mena Marsilio e il falso Balugante, Insieme Serpentino e Falsirone; Mena Grandonio, che e\ si\ gran gigante, Che un' altra volta il tratai da castrone, E Ferraguto, che e\ tanto arrogante: Ogni tuo paladino, ogni barone Mena con teco, e tutta la tua gente; Che/ te con tutti non temo ni%ente. $_ Con tal parole Astolfo avea cridato: Oh quanto il re Gradasso ne ridia! Pur se arma tutto e vassene sul prato, Che/ de pigliar Baiardo voglia avia. Cortesemente Astolfo ha salutato, Poi dice: #_ Io non so gia\ che tu ti sia; Io domandai de tua condizi%one: Gano me dice che tu sei buffone. Altri m' ha detto poi che sei segnore Leggiadro, largo, nobile e cortese, E che sei de ardir pieno e di valore: Quel che tu sia, io non faccio contese, Anci sempre ti voglio fare onore; Ma questo ti so ben dirti palese, Ch' io vo' pigliarte, e sii, se vo^i, gagliardo: Altro del tuo non voglio, che Baiardo. $_ #_ Ma tu fai senza l' osto la ragione, $_ Diceva Astolfo #_ e convienla riffare; Al primo scontro te levo de arcione, E, poi che te odo cortese parlare, Del tuo non voglio il valor d' un bottone, Ma vo' che ogni pregion m' abbi a donare; E te lasciaro\ andare in Pagania Salvo, con tutta la tua compagnia. $_ #_ Io son contento, per lo Dio Macone, $_ Disse Gradasso #_ e cosi\ te lo giuro. $_ Poi volta indrieto, e guarda il suo troncone, Cinto di ferro e tanto grosso e duro, Che non di to^rre Astolfo del ronzone, Ma credia di atterrare un grosso muro. Da l' altra parte Astolfo ben se afranca; Forza non ha, ma l' animo non manca. Gia\ su la alfana se move Gradasso, Ne/ Astolfo d' altra parte sta a guardare; L' un piu\ che l' altro viene a gran fraccasso, A mezo 'l corso si ebbeno a scontrare. Astolfo tocco\ primo il scudo abasso, Che per ni%ente non voli\a fallare: Si\ come io dissi, al scudo basso il tocca, E fuor de sella netto lo trabocca. Quando Gradasso vede ch' egli e\ in terra, Apena che a se/ crede che il sia vero: Ben vede mo che e\ finita la guerra, E perduto e\ Baiardo, il bon destriero. Levasi in piede, e la sua alfana afferra, Vo\lto ad Astolfo, e disse: #_ Cavalliero, Con meco hai tu vinta la tenzone: A tuo piacer vien, piglia ogni pregione. $_ Cosi\ ne vanno insieme a mano a mano; Gradasso molto li faceva onore. Carlo ne/ i paladini ancor non sano Di quella giostra che e\ fatta, il tenore; Et Astolfo a Gradasso dice piano, Che nulla dica a Carlo imperatore, Et a lui sol de dir lassi l' impaccio, Che/ alquanto ne vo^l prender di solaccio. E gionto avanti a lui, con viso acerbo Disse: #_ E peccati te han cerchiato in tondo. Tanto eri altiero e tanto eri superbo, Che non stimavi tutto quanto il mondo. Ranaldo e Orlando, che fo^r di tal nerbo, Sempre cercasti di metterli al fondo; Ecco: usurpato te avevi Baiardo, Or l' ha acquistato questo re gagliardo. A torto me ponesti in la pregione, Per far careze a casa di Magancia: Or dimanda al tuo conte Ganelone Che ti conservi nel regno di Francia. Or non v' e\ Orlando, fior de ogni barone, Non v' e\ Ranaldo, quella franca lancia; Che se sapesti tal gente tenire, Non sentiresti mo questo marti\re. Io ho donato a Gradasso il ronzone, E gia\ mi son con lui bene accordato; Stommi con seco, e servo da buffone, {add} Merce/ {/add; Merce\ Z} di Gano, che me gli ha lodato: So che li piace mia condizi%one. Ogni om di voi li avro\ racomandato: Lui Carlo Mano vo^l per ripostieri, Danese scalco, e per coquo Olivieri. Io li ho lodato Gano di Maganza Per omo forte e digno de alto afare, Si\ che stimata sia la sua possanza: Le legne e l' acqua converra\ portare. Tutti voi altri poi, gente da zanza, A questi soi baron vi vo^l donare; E se a lor sera\ grata l' arte mia, Faro\ che avreti bona compagnia. $_ Gia\ non rideva Astolfo de ni%ente, E proprio par che 'l dica da davera. Non dimandar se il re Carlo e\ dolente, E ciascadun che e\ preso in quella schiera. Dice Turpino a lui: #_ Ahi miscredente! Hai tu lasciata nostra fede intiera? $_ A lui rispose Astolfo: #_ Si\, pritone, Lasciato ho Cristo, et adoro Macone. $_ Ciascuno e\ smorto e sbigotito e bianco: Chi piange, e chi lamenta, e chi sospira. Ma poi che Astolfo di beffare e\ stanco, Avanti a Carlo ingenocchion se tira, E disse: #_ Segnor mio, voi seti franco; E se il mio fallir mai vi trasse ad ira, Per pietate e per Dio chiedo perdono, Che/, sia quel ch' io mi voglia, vostro sono. Ma ben ve dico che mai per ni%ente Non voglio in vostra corte piu\ venire. Stia con voi Gano et ogni suo parente, Che sanno il bianco in nero convertire. Il stato mio vi lascio obidi%ente; Io domatina mi voglio partire, Ne/ mai me posaro\ per freddo o caldo, In sin che Orlando non trovi e Ranaldo. $_ Non sanno ancor se 'l beffa, o dice il vero: Tutti l' un l' altro se guardano in volto; Sin che Gradasso, quel segnor altiero, Comanda che ciascun via se sia tolto. Gano fu il primo a montare a destriero: Astolfo, che lo vede, il tempo ha {add} co\lto, {/add; colto, Z} E disse a lui: #_ Non andate, barone: Gli altri son franchi, e voi seti pregione. $_ #_ Di cui sono io pregion? $_ diceva Gano; Rispose a lui: #_ De Astolfo de Inghilterra. $_ Alor Gradasso fa palese e piano Come sia stata tra lor duo la guerra. Astolfo il conte Gano prende a mano, Con lui davanti di Carlo se atterra, E ingenocchiato disse: #_ Alto segnore, Costui voglio francar per vostro amore. Ma con tal patti e tal condizi%one, Che in vostra mano e' converra\ giurare, Per quattro giorni de entrare in pregione, E dove, e quando io lo voro\ mandare. Ma, sopra a questo, vuo' promissi%one, Perche/ egli e\ usato la fede mancare, Da' paladini e da vostra corona, Darmi legata e presa sua persona. $_ Rispose Carlo: #_ Io voglio che lo faccia! $_ E fecelo giurare incontinente. Or de andare a Parigi ogni om si spaccia. Altro che Astolfo non se ode ni%ente: E chi lo bacia in viso, e chi lo abbraccia, Et a lui solo va tutta la gente: Campato ha Astolfo, et e\ suo quest' onore, La {add} fe/ {/add; fe\ Z} de Cristo e Carlo imperatore. Carlo si forza assai de il ritenire: Irlanda tutta li volea donare. Ma lui se e\ destinato di partire, Che/ vo^l Ranaldo e Orlando ritrovare. Qua piu\ non ne diro\, lasciatel gire, Che assai di lui avro\ poi a contare: Or quella notte, inanti al matutino, Parti\ Gradasso et ogni Saracino. Andarno in Spagna, e li\ resto\ Marsiglio, Con la sua gente et ogni suo barone. Gradasso ivi monto\ sopra al naviglio, Che era una quantita\ fuor di ragione. Or di narrarvi fatica non piglio Il suo vi%aggio e quelle regi%one Di negra gente sotto il cel si\ caldo; Ma trovar voglio ove lasciai Ranaldo. E conterovi de una alta ventura Che li intravenne, e ben meravigliosa, E di letizia piena e di sciagura, Che forse sua persona valorosa Mai non fu a sorte si\ spietata e dura. Ma pigliar voglio adesso alcuna posa, E poi vi contaro\ ne l' altro canto Cose mirabil di allegrezza e pianto. Gionse Ranaldo a Palazo Zoioso (Cosi\ se avea quella isola a chiamare), Ove la nave fie' il primo riposo, La nave che ha il nocchier che non appare. Era quello un giardin de arbori ombroso, Da ciascun lato in cerco batte il mare; Piano era tutto, coperto a verdura; Quindeci miglia e\ intorno per misura. Di ver ponente, aponto sopra al lito, Un bel palagio ricco se mostrava, Fatto de un marmo si\ terso e polito, Che il giardin tutto in esso se specchiava. Ranaldo in terra presto fu salito, Che/ star sopra alla nave dubitava; Apena sopra il litto era smontato, Ecco una dama, che l' ha salutato. La dama li dicea: #_ Franco barone, Qua ve ha portato la vostra ventura; E non pensati che senza cagione Siati condotto, con tanta paura, Tanto di longe, in strana regi%one; Ma vostra sorte, che al principio e\ dura, Avra\ fin dolce, allegro e dilettoso, Se avete il cor, come io credo, amoroso. $_ Cosi\ dicendo per la mano il piglia, E dentro al bel palagio l' ha menato: Era la porta candida e vermiglia, E di ner marmo, e verde, e di meschiato. Il spazo che coi piedi se scapiglia, Pur di quel marmo e\ tutto vari%ato; Di qua, di la\ son logie in bel lavoro, Con relevi e compassi azuro e de oro. Giardini occulti di fresca verdura Son sopra a' tetti e per terra nascosi; Di gemme e d' oro a vaga depintura Son tutti e lochi nobili e zoiosi; Chiare fontane e fresche a dismisura Son circondate d' arboscelli ombrosi; Sopra ogni cosa, quel loco ha uno odore Da tornar lieto ogni affannato core. La dama entra una logia col barone, Adorna molto, ricca e delicata, Per ogni faccia e per ogni cantone Di smalto in lama d' oro istori%ata; Verdi arboscelli e di bella fazione Dal loco aperto la teneano ombrata; E le colonne di quel bel lavoro Han di cristallo il fusto e il capo d' oro. In questa logia il cavalliero intrava. Di belle dame ivi era una adunanza; Tre cantavano insieme, e una suonava Uno instrumento fuor de nostra usanza, Ma dolce molto il cantare acordava; L' altre poi tutte menano una danza. Come intro\ dentro il cavalliero adorno, Cosi\ danzando lo acerchiarno intorno. Una di quelle con sembianza umana Disse: #_ Segnor, le tavole son pose, E l' ora della cena e\ prossimana. $_ Cosi\ per l' erbe fresche et odorose Seco il menarno a lato alla fontana Sotto un coperto di vermiglie rose: Quivi e\ apparato, che nulla vi manca, Di drappo d' oro e di tovaglia bianca. Quattro donzelle se fo^rno assettate, E tolsen dentro a lor Ranaldo in megio. Ranaldo sta smarito in veritate; Di grosse perle adorno era il suo segio. Quivi venner vivande delicate, Coppe con zoie di mirabil pregio, Vin di bon gusto e di suave odore: Servon tre dame a lui con molto onore. Poi che la cena comincia a finire, E fo^r scoperte le tavole d' oro, Arpe e leuti se poterno udire. A Ranaldo se acosta una di loro, Basso alla orecchia li comincia a dire: #_ Questa casa real, questo tesoro E l' altre cose che non po^i vedere, Che piu\ son molto, sono a tuo piacere. Per tua cagione e\ tutto edificato, E per te solo il fece la regina; Ben ti dei reputare aventurato, Che te ami quella dama pellegrina. Essa e\ piu\ bianca che ziglio nel prato, Vermiglia piu\ che rosa in su la spina; La giovenetta Angelica se chiama, Che tua persona piu\ che il suo core ama. $_ Quando Ranaldo, fra tanta allegrezza, Ode nomar colei che odiava tanto, Non ebbe alla sua vita tal tristezza, E cambiosse nel viso tutto quanto; La lieta casa ormai nulla non prezza, Anci li assembra un loco pien di pianto. Ma quella dama li dice: #_ Barone, Anci non po^i disdir, che/ sei pregione. Qua non te val Fusberta adoperare, Ne/ te vari\a, se avesti il tuo Baiardo: Intorno ad ogni parte cinge il mare; Qui non te vale ardir ne/ esser gagliardo. Quel cor tanto aspro ti convien mutare: Lei altro non disia fuor che il tuo sguardo. Se de mirarla il cor non ti conforta, Come vedrai alcun che odio ti porta? $_ Cosi\ dicea la bella giovanetta, Ma nulla ne ascoltava il cavalliero, Ne/ quivi alcuna de le dame aspetta, Anci soletto va per il verziero. Non trova cosa quivi che 'l diletta; Ma con cor crudo, dispietato e fiero Partir de quivi al tutto se destina, E da ponente torna alla marina. Trova il naviglio che l' avea portato, E sopra a quel soletto torna ancora, Perche/ nel mar si serebbe gettato Piu\ presto che al giardin far piu\ dimora. Non se parte il naviglio, anzi e\ acostato, E questo e\ la gran doglia che lo acora; E fa pensier, se non se po^ partire, Gettarse in mare et al tutto morire. Ora il naviglio nel mar se alontana, E con ponente in poppa via camina; Non lo potria contar la voce umana Come la nave va con gran ruina. Ne l' altro giorno una gran selva e strana Vede, et a quella il legno se avicina. Ranaldo al litto di quella dismonta: Subito un vecchio bianco a lui se afronta. Forte piangendo quel vecchio dicia: #_ Deh non me abandonar, franco barone, Se onor te move di cavalleria, Che e\ la diffesa di iusta ragione! Una donzella, che e\ figliola mia, {add} E\mme {/add; Emme Z} rapita da un falso latrone, E pur adesso presa se la mena: Ducento passi non e\ longe apena. $_ Mosse pietate quel baron gagliardo: Benche/ sia a piedi, armato con la spada A seguire il ladron gia\ non fu tardo; Coperto d' arme corre quella strada. Come lo vide quel ladron ribaldo, Lascia la dama, e gia\ non stette a bada; Pose alla bocca un grandissimo corno: Par che risuoni l' aria e il cel d' intorno. Venne Ranaldo la vista ad alciare: A se/ davanti vede un monticello, Che facea un capo piccoletto in mare. Alla cima di quello era un castello, Che al suon del corno il ponte ebbe a calare; Fuor ne venne un gigante iniquo e fello: Sedeci piedi e\ da la terra altano, Una catena e un dardo tiene in mano. Quella catena ha da capo un uncino: Or chi potra\ questa opra indovinare? Come fu gionto il gigante mastino, Il dardo con gran forza ebbe a lanciare. Gionge nel scudo, che e\ ben forte e fino, Ma tutto quanto pur l' ebbe a passare; Usbergo e maglia tutto ebbe passato: Feri\ il barone alquanto nel costato. Dicea Ranaldo a lui: #_ Te tien a mente Chi meglio de noi duo di spada fiera! $_ E va\lli addosso iniquitosamente. Come il gigante il vide nella ciera, Volta le spalle e non tarda ni%ente; Forte correndo fugge a una riviera. Questa riviera un ponte sopra avia: Una sol pietra quel ponte faci\a. Nel capo di quel ponte era uno annello; Dentro li attacca il gigante l' oncino. E gia\ Ranaldo e\ sopra 'l ponticello, Che/, correndo, al pagano era vicino. Tiro\ lo ingegno con gran forza il fello: La pietra se profonda. #_ O Dio divino $_ Dicea Ranaldo #_ aiuta! O Matre eterna! $_ Cosi\ dicendo va nella caverna. Era la tana oscura e tenebrosa, E sopra ad essa la fiumana andava; Una catena dentro vi era ascosa, Che il caduto baron presto legava. E quel gigante gia\ non se riposa; Cosi\ legato in spalla sel portava, A lui dicendo: #_ E perche/ davi impaccio Al mio compagno? Et io te ho gionto al laccio. $_ Non respondia Ranaldo alcuna cosa, Ma nella mente tristo ne dicia: ## Or ti par che fortuna rui%nosa Una disgrazia dietro a l' altra invia! Qual sorte al mondo e\ la piu\ dolorosa Non se paragia alla sventura mia, Ch' in tal miseria mi vedo arivare, Ne/ con qual modo lo sapria contare. $# Cosi\ dicendo, gia\ sono su il ponte Che del crudel castello era l' intrata: Teste de occisi nella prima fronte, E gente morta vi pende apiccata; Ma, quel che era piu\ scuro, eran disionte Le membra ancora vive alcuna fiata. Vermiglio e\ lo castello, e da lontano Sembrava foco, et era sangue umano. Ranaldo sol pregando Idio se aiuta: Ben vi confesso che ora ebbe paura. Gia\ davanti una vecchia era venuta, Tutta coperta de una veste oscura, Macra nel volto, orribile e canuta, E di sembianza dispietata e dura. Lei fa Ranaldo alla terra gettare Cosi\ legato, e comincia parlare. #_ Forse per fama avrai sentito dire, $_ Dicea la vecchia #_ la crudele usanza Che questa rocca ha preso a mantenire. Ora nel tempo che a viver te avanza, Poi che a diman s' indugia il tuo morire, (Che/ gia\ de vita non aver speranza), In questo tempo ti voglio contare Qual cagion fece la usanza ordinare. Un cavallier di possanza infinita Di questa rocca un tempo fu segnore. Vita tenea magnifica e fiorita, Ad ogni forastier faceva onore; Ciascun che passa per la strada invita, Cavallier, dame e gente di valore. Avea costui per moglie una donzella, Che altra al mondo mai fu tanto bella. Quel cavalliero avea nome Grifone; Questa rocca Altaripa era chiamata, E la sua dama Stella, per ragione, Che/ ben parea del celo esser levata. Era di maggio alla bella stagione; Andava il cavalliero alcuna fiata A quella selva che e\ in su la marina, Dove giungesti tu in questa mattina. E passar per lo bosco ebbe sentito Un altro cavallier, che a caccia andava. Si\ come a tutti, fie' il cortese invito, Et alla rocca qua suso il menava. Fu quest' altro ch' io dico, mio marito: Marchino, il sir de Aronda, se chiamava. Lui fu menato dentro a questa stanza, Et onorato assai, come era usanza. Or, come volse la disaventura, Gli occhi alla bella Stella ebbe voltato, E fo preso de amore oltra misura, E seco penso\ il viso delicato Di quella mansueta creatura; In summa, e\ dentro il cor tanto infiammato, Ch' altro nol stringe, ne/ d' altro ha pensiero, Se non di tuor la donna al cavalliero. Da questa rocca si parte fellone; Torna cambiato in viso a meraviglia: Altro che lui non sapea la cagione. Parte da Aronda con la sua famiglia; Porta le insegne seco di Grifone, E di persona alquanto il rasomiglia. E soi compagni nel bosco nascose, Le insegne e l' arme pur con essi pose. Lui, come a caccia, tutto disarmato Va per la selva, e forte suona un corno; Il cortese Grifon l' ebbe ascoltato, Ch' era nel bosco ancora lui quel giorno. In quella parte presto ne fu andato: Marchino il falso si guardava intorno, E, come non avesse alcun veduto, Forte diceva: #" Io l' avero\ perduto. $" Poi ver Grifon se ne vene a voltare. Come il vedesse allor primeramente, Diceva: #" Io vengo un mio cane a cercare, Ma in questo loco non so andar ni%ente. $" Or vanno insieme, e vengon a rivare Ove Marchino ha nascoso la gente; E, per venir piu\ presto al compimento, Occiserlo costoro a tradimento. Con la sua insegna la rocca pigliaro, Ne/ dentro vi lascia^r persona viva; Fanciulli e vecchi, senza alcun riparo, Et ogni dama fu de vita priva. La bella Stella qua dentro trovaro, Che la sventura sua forte piangiva. Molte carezze li facea Marchino: Mai non se piega quel cor pellegrino. Ella pensava lo oltraggio spietato Che li avea fatto il falso traditore, E Grifon, che da lei fu tanto amato, Sempre li stava notte e di\ nel core; Ne/ altro desia che averlo vendicato, Ne/ trova qual partito sia il megliore. Infin li offerse il suo voler crudele Quello animal che al mondo e\ di piu\ fele. Lo animal che e\ piu\ crudo e spaventevole, Et e\ piu\ ardente che foco che sia, E\ la moglie che un tempo fu amorevole, Che, disprezata, cade in zelosia: Non e\ il leon ferito piu\ spiacevole, Ne/ la serpe calcata e\ tanto ria, Quanto e\ la moglie fiera in quella fiata Che per altrui se/ vede abandonata. Et io ben lo so dir, che lo provai, Quando advisata fui di questa cosa. Io non sentetti maggior doglia mai, E quasi venni in tutto rabbi%osa: Ben lo mostro\ la crudelta\ che usai, Che forse ti parra\ meravigliosa; Ma dove zelosia strenge lo amore, Quel mal che io feci in duo, e\ ancor peggiore. Duo fanciulletti avevo di Marchino; Il primo lo scanai con la mia mano. Stava a guardarme l' altro piccolino, E dicea: #" Matre, deh per Dio! fa piano. $" Io presi per li piedi quel meschino, E detti il capo a un sasso prossimano. Te par ch' io vendicassi il mio dispetto? Ma questo fu un principio, e non lo effetto. Quasi vivendo ancora lo squartai; De il petto a l' uno e a l' altro trassi il core. Le piccolette membra minuzzai: Pensa se, cio\ facendo, avia dolore! Ma ancor mi giova ch' io mi vendicai. Servai le teste, non gia\ per amore, Che/ in me non era amor, ne/ anco pietade: Servalle per usar piu\ crudeltade. Quelle portai qua suso de nascoso; La carne che feci io, poi posi al foco: Tanto pote/ lo oltraggio dispettoso! Io stessa fui beccaro, io stessa coco. A mensa li ebbe il patre doloroso, E quelle se mangio\ con festa e gioco. Ahi crudel sole, ahi giorno scelerato, Che comporto\ veder tanto peccato! Io mi parti' dapoi nascosamente, Le mani e il petto di sangue macchiata. Al re de Orgagna andai subitamente, Che gia\ lunga stagion m' aveva amata (Era costui della Stella parente), E racontai l' istoria dispietata. Quel re condussi io armato in su l' arcione A far vendetta del morto Grifone. Ma non fo questa cosa cosi\ presta, Che, come io fui partita dal castello, La cruda Stella, menando gran festa, A Marchin va davanti in viso fello, E li appresenta l' una e l' altra testa De' figli, ch' io servai dentro a un piatello. Benche/ per morte ciascuna era trista, Pur li cognobbe 'l patre in prima vista. La damisella aveva il crin disciolto, La faccia altiera e la mente sicura, Et a lui disse: #" L' uno e l' altro volto Son de' toi figli: da\gli sepoltura. Il resto hai tu nel tuo ventre sepolto: Tu il divorasti: non aver piu\ cura. $" Ora ha gran pena il falso traditore, Che/ crudelta\ combatte con amore. Lo oltraggio ismisurato ben lo invita A far di quella dama crudo strazio; Da l' altra parte la faccia fiorita E lo afocato amor gli dava impazio. Delibra vendicarse alla finita: Ma qual vendetta lo potria far sazio? Che/, pensando al suo oltraggio, in veritade Non v' era pena di tal crudeltade. Il corpo di Grifon fece portare, Che, cosi\ occiso, ancor giacea nel piano; Fece la dama a quel corpo legare, Viso con viso stretto, e mano a mano: Cosi\ con lei poi se ebbe a dilettare. Or fu piacer giamai tant' inumano? Gran puza mena il corpo tutta fiata; La damisella a quel stava legata. In questo tempo venne il re de Orgagna, Et io con esso, con molta brigata; Ma come fumo visti alla campagna, Marchin la bella Stella ebbe scanata. Ne/ ancor per questo dapoi la sparagna, Ma usava con lei morta tutta fiata. Credo io che il fece sol per darse vanto Che altro om non fusse scelerato tanto. Noi qui vennemo, e con cruda battaglia La forte rocca alfin pur fo pigliata; E Marchin preso, di ardente tenaglia Fu sua persona tutta lacerata: Chi rompe le sue membra, e chi le taglia. La bella dama poi fu sotterrata Intra un sepolcro adorno; per ragione Posto fu seco il suo caro Grifone. Il re de Orgagna poi se ne fu andato, Et io rimasi in questa rocca oscura. Era lo octavo mese gia\ passato, Quando sentimo in quella sepoltura Un grido tanto orribile e spietato, Ch' io non vo' dir che gli altri abbian paura; Ma tre giganti ne fo^r spaventati, Che il re de Orgagna meco avea lasciati. Un de essi, alquanto piu\ di core ardito, Volse la sepoltura un poco aprire, Ma ben ne fo poi presto repentito; Pero\ che un monstro, che non puote uscire, Pur for getto\ una branca, et ha 'l gremito: In poco d' ora lo fece morire. Stracciollo in pezzi e trassel dentro, possa La carne devoro\ con tutte l' ossa. Non se trovo\ piu\ om tanto sicuro, Che dentro a quella chiesia voglia entrare; Cinger poi la feci io d' un forte muro, Quello sepolcro a ingegno disserrare. Uscinne un monstro contrafatto e oscuro, Tanto che alcun non li ardisce a guardare: La orribil forma sua non te descrivo, Perche/ sarai da lui di vita privo. Noi poi servamo cosi\ fatta usanza, Che ciascun giorno qualcuno e\ pigliato, E lo gettamo dentro a quella stanza, Perche/ la bestia l' abbia devorato. Ma tanto ne pigliamo, che ne avanza; Alcun se scanna, alcun vien impiccato; Squartansi vivi ancora alcuna fiata, Come veder potesti in su la entrata. $_ Poi che la usanza cruda, ismisurata, Fu per Ranaldo pienamente intesa, E l' orribil cagione e scelerata Che fie' la bestia, a chi non val diffesa, Rivolto a quella vechia dispietata, Disse: #_ Deh! matre, non mi far contesa. Concedime, per Dio, che dentro vada, Armato come io sono, e con la spada. $_ Rise la vecchia e disse: #_ Or pur ti vaglia! Quante arme vo^i, ti lasciaro\ portare; Che/ il monstro con suo dente il ferro taglia, Ne/ contra alle ungie sue se pote armare. A te convien morir, non far battaglia, Che/ la sua pelle non se puo\ tagliare; Ma, per fare il tuo peggio, io son contenta, Perche/ la bestia piu\ lo armato stenta. $_ Si\ come apparve il giorno il sol lucente, Ranaldo dentro al muro e\ giu\ calato, E fu una porta alciata: incontinente Esce 'l monstro diverso e sfigurato. Si\ forte batte l' uno a l' altro dente, Che ciascun sopra al muro e\ spaventato, Ne/ di star tanto ad alto se assicura: Altri se asconde e fugge per paura. Solo e\ Ranaldo lui senza spavento: Armato e\ tutto, et in mano ha Fusberta. Ma credo io che a voi tutti sia in talento Di quel monstro saper la forma aperta. Accio\ che abbiati il suo cominciamento, {add} Fiello {/add; Fie\llo Z} il demonio, questa e\ cosa certa, Del seme de Marchin, che 'n corpo porta Quella donzella che da lui fu morta. Egli era piu\ che un bove di grandezza: Il muso aveva proprio di serpente; Sei palme avea la bocca di longhezza, Ben mezo palmo e\ lungo ciascun dente. La fronte ha de cingiale, in tal fierezza Che non si puo\ guardarla per ni%ente; E di ciascuna tempia usciva un corno, Che move a suo piacere e volge intorno. Ciascuno corno taglia come spata; Mugia con voce piena di terrore, La pelle ha verde e gialla e vari%ata Di negro e bianco e di rosso colore; Avea la barba sempre insanguinata, Occhi di foco e guardo traditore; La mano ha d' omo et armata de ungione Maggior che quel de l' orso o del leone. Ne l' ungie e dente avea cotanta possa, Che piastra o maglia non li puo\ durare; E la pelle si\ dura e tanto grossa, Che nulla cosa la potria tagliare. Questa bestia feroce ora se e\ mossa, E va con furia Ranaldo a trovare Su duo pie\ ritta, con la bocca aperta. Mena Ranaldo un colpo con Fusberta, E proprio a mezo il muso l' ebbe co\lta. Or par di foco la bestia adirata, E con piu\ furia a Ranaldo rivolta Con la mano alta tira una ciampata. Troppo non gionse avanti quella volta, Ma quanta maglia prese, ebbe stracciata, Tanto avea duro il dispietato ungione! Sino alla carne disarmo\ il barone. Ora per questo Ranaldo non resta: Benche/ abbia il peggio, pur non si spaventa; Tira a due mani al dritto della testa. Quella bestia crudel par che non senta, Anci a ogni colpo mena piu\ tempesta; Salta de intorno, ne/ giamai se allenta: Or de una zampa, ora de l' altra mena Con tal prestezza che si vede apena. In quattro parte e\ gia\ il baron ferito, Ma non ha il mondo cosi\ fatto core; Vedesi morto, e non e\ sbigotito: Perde il suo sangue, e cresce il suo furore. Lui certamente avea preso il partito Che al disperato caso era megliore; Pero\ che, se nol fa il monstro perire, Pur li\ di fame li convien morire. Gia\ se faceva il giorno alquanto scuro, E dura la battaglia tutta fiata. Ranaldo se e\ accostato a l' alto muro: Il sangue ha perso, e la lena e\ mancata, E ben e\ del morir certo e sicuro, Ma mena pur gran colpi della spata; Vero e\ che sangue al monstro non ha mosso, Ma fraccassato li ha la carne e l' osso. Or se 'l destina in tutto di stordire: Mena un gran colpo quel baron soprano. La mala bestia il brando ebbe a gremire: Or che dee far il sir di Montealbano? Diffender non si puo\, ne/ puo\ fuggire, Perche/ Fusberta li e\ tolta di mano. Ma poi vi diro\ come ando\ il fatto: In questo canto piu\ di lui non tratto. Odito aveti la sozza figura Che avea la fiera orribile e {t} deserta, {/t S; deserta. Z} Qual con Ranaldo alla battaglia dura, E come li ha di man tolto Fusberta. E lui lasciamo in quella gran paura, Che/ bisogna che altrove io mi converta: Or de una dama lo amoroso caldo Contar conviensi, e poi torno a Ranaldo. Voi vi doveti, segnor, racordare Di Angelica, la bella giovanetta, E come Malagise ebbe a lasciare; E giorno e notte stava alla vedetta. Or quanto gli rencresce lo aspettare, Sappialo dir colui che il tempo aspetta: Dico che aspetta promessa d' amore, Perche/ ogni altro aspettare e\ rose e fiore. Ella guardava verso la marina, Verso la terra, per monte e per piano; Se alcuna nave vede, la meschina, O scorge vela molto di lontano, Lei, compiacendo a se stessa, indivina Che dentro vi e\ il segnor di Montealbano; Se vede in terra bestia o ver carretta, Sopra di quella il suo Ranaldo aspetta. Et ecco Malagise a lei ritorna (E gia\ non ha Ranaldo in compagnia), Pallido, afflitto e con barba musorna: Gli occhi battuti alla terra {add} tenia; {/add; teni\a; Z} Non ha di drappo la persona adorna, Ma par che n' esca alor di pregionia. La dama, che in tal forma l' ebbe scorto, #_ Ahime\, $_ cridava #_ il mio Ranaldo e\ morto! $_ #_ Anci non e\ gia\ morto per ancora, $_ Rispose Malagise alla donzella #_ Ma non puotra\ gia\ far lunga dimora, Che non sia occisa la persona fella. Che maledetto sia quel giorno e l' ora Che fece una alma si\ de amor ribella! $_ Poi conta tutto a lei, di ponto in ponto, Come alla rocca crudel l' avea gionto; E come ad ogni modo vo^l che 'l mora, E che quel monstro l' abbia divorato. Non domandati se la dama acora, Che quasi il spirto al tutto li e\ mancato. Ella parea di vita al tutto fora, Con gli occhi vo\lti e col viso agiacciato; Ma, poi che fu tornata in suo vigore, A Malagise disse: #_ Ahi traditore! Traditor, crudo, perfido, ribaldo, Che ancora ardisci a dimorarmi a canto, Et hai condotto il tuo cugin Ranaldo Vicino a morte, con periglio tanto! Ma se l' aiuto non gli da\i di saldo, Non ti varan demonii, ne/ tuo incanto; Che/ incontinente ti faro\ bruciare, E la tua polver gettaro\ nel mare. Non pigliar scusa, falso truffatore, De aver cio\ fatto per la mia querella. Ora non era partito megliore Che, avendo uno a morire, io fossi quella? Lui di beltate e di prodezza e\ il fiore, Io vile e sciagurata feminella. Ma, oltra a questo, non debbi pensare Che senza lui io non puotria campare? $_ Diceva Malagise: #_ Ancor soccorso, Volendo tu, se li potra\ donare; Ma te bisogna prender questo corso, E tu sia quella che il vada a campare; {t} Che/, {/t S; Che Z} benche/ sia crudel piu\ che alcuno orso, A suo dispetto converratti amare; Si\ che spazzati pure e sii ben presta, Che/ nostra indugia forse lo molesta. $_ Cosi\ dicendo li porge una corda, Di lacci ad ogni palmo ragroppata, E una gran lima, che segava sorda, E uno alto pan di cera impegolata: Come le debbia adoprar li racorda. Angelica dal vento e\ via portata, Sopra a un demonio, che ha la faccia nera; A Crudel Rocca gionse quella sera. Ora voglio a Ranaldo ritornare, Che era condutto a caso tanto scuro, Che della morte non potea campare: Perduto ha il brando che 'l facea sicuro. Fuggendo intorno, ogni cosa ha a guardare; Et ecco avanza, quasi a mezo 'l muro, Un travo fitto dece piedi ad alto. Prese Ranaldo un smisurato salto, E gionse al travo, e con la man l' ha preso, Poi con gran forza sopra li montava; Cosi\ tra celo e terra era sospeso. Or quel monstro crudel ben furi%ava; Avenga che sia grosso e di tal peso, Spesso vicino a Ranaldo saltava, E quasi alcuna volta un poco il tocca: Pare a Ranaldo sempre esserli in bocca. Era venuta gia\ la notte bruna. Stassi Ranaldo a quel legno abracciato, Ne/ sa veder qual senno o qual fortuna Lo possa di quel loco aver campato. Et ecco, sotto il lume de la luna, Pero\ che era sereno e il cel stellato, Sente per l' aria non sa che volare: Quasi una dama ne l' ombra li pare. Angelica era quella, che veni\a Per dar soccorso al franco cavalliero; Poi che in faccia Ranaldo la vedia, Gettarsi a terra prese nel pensiero, Perche/ tanto odio a quella dama avia, Che piu\ non li dispiace il monstro fiero: Ello esser morto stima minor pene Che veder quella che a campare il viene. Ella si stava ne l' aria sospesa, E ingenocchiata diceva: #_ Barone, Sopra d' ogni altra doglia il cor mi pesa Che tu sia gionto qui per mia cagione. Ben ti confesso ch' io son tanto accesa, Ch' io potrebbi uscir fuor d' ogni ragione; Ma che nocer potessi a tua persona, Questo pensiero al tutto lo abandona. Fu la mia stima che con tuo diletto, Con apiacere e riposo e con zoglia Fussi condotto avanti al mio cospetto; Ora te vedo de cotanta noglia E da periglio estremo si\ costretto, Che quasi mi ne uccido di gran doglia; Ma sia ogni timor pur da te rimosso, Ch' io il seppi ad ora che campar ti posso. Non te rincresca de venirmi in braccio, Che via per l' aria te possa portare. Vedrai di terra uno infinito spaccio Sotto a' tuoi piedi in un punto passare; Te potrai far de un alto disio saccio, Se mai ti venne voglia di volare. Vien, monta sopra a me, baron gagliardo: Forse non son peggior del tuo Baiardo. $_ Era Ranaldo tanto addolorato, Che con gran pena la puoteva odire. Pur li rispose: #_ Per lo Dio beato, Piu\ son contento di dover morire, Che per tuo mezo vederme campato; E quando non ti vogli pur partire, Di questo loco me voglio gettare: Or statte e vanne, e fa come ti pare. $_ Non crediati che sia maggior iniuria Che alla donna che chiede, esser sprezzata. Tutte hanno in odio che la sua lussuria Gli possa essere in viso improperata; Ma questa dispettosa e trista furia Angelica non mosse in questa fiata: Tanto portava a quel barone amore, Che ogni sua ingiuria a lei parea minore. Ella rispose: #_ Io faro\ il tuo volere, E se altro far volessi, io non potrei: S' io pensassi morendo a te piacere, Adesso con mia man me occiderei. Ma tu m' hai bene in odio oltra al dovere! A cio\ me en testimonii omini e dei; Sol il sprezarmi e\ 'l mal che mi po^i fare, Ma che io non te ami, non me po^i vetare. $_ Cosi\ dicendo nel campo discende, Ove rugiava lo animal spietato, E la corda alaciata giu\ distende, Poi quel pan della cera ebbe gettato. Quel crudel monstro in bocca presto il prende: L' un dente e l' altro insieme e\ impegolato; Mugia saltando e cerca uscir de impaccio: Al primo salto fu gionto nel laccio. Cosi\ legato il lascio\ la donzella, E lei si diparti\ subitamente. Era levato gia\ la chiara stella Che vien davanti al sole in ori%ente: Vede Ranaldo quella bestia fella, Che ha la bocca di pece piena e il dente; E poi legata per cotal maniera, Che mover non si puo\ dal loco ove era. Subitamente salta gioso al piano, Dove e\ la fiera fera di natura, Che facea un crido tant' orrendo e strano, Che al mur de intorno potea far paura. Ranaldo prende sua Fusberta in mano, E de assalire 'l monstro si assicura; Ma quella bestia si scote si\ forte, Che par che debbia romper le ritorte. Ranaldo non li lascia prender fiato, Or la ferisce in capo, or nella panza, Or da il sinestro, ora da il destro lato; Il ferir de quel monstro era una cianza. Egli avrebbe una pietra, un fer tagliato, Ma quella pelle ogni durezza avanza. Per cio\ non e\ Ranaldo sbigotito, Ma subito piglio\ questo partito: A quella bestia salta sopra al dosso, La gola ad ambe man gli ebbe a pigliare, E le genocchie strenge a piu\ non posso: Mai non se vide il piu\ fier cavalcare. Era il barone in faccia tutto rosso: Quivi ogni suo valor convien mostrare; E quivi piu\ che altrove l' ha mostrato, Che/ con le mani il monstro ha strangolato. Poi che la bestia al tutto e\ suffocata, Pensa Ranaldo della sua partita; Ma quella piazza intorno era serrata De un grosso muro e de altezza infinita. Sol di verso il castello era una grata, Che de travi accialin tutta era ordita; Ben la assagio\ Ranaldo con la spata, Ma troppo e\ sua grossezza smisurata. Ora Ranaldo se vide pregione, Che gia\ di questo non pensava in prima, E del suo scampo manca ogni ragione, Che/ di morir di fame lui se estima. Guarda d' intorno per ogni cantone, Et ha veduta in terra la gran lima, La lima che la dama avea portata; Stima il baron che Dio l' abbia mandata. Con quella lima la pregione apriva, E poco manca che non possa uscire. Ciascuna stella nel cel se copriva, E cominciava il giorno ad apparire; Et eccoti un gigante quivi ariva, Ma de venire a lui non ebbe ardire; Anci, come il barone ebbe veduto, Fugge, forte cridando: #_ Aiuto! aiuto! $_ In questo avea Ranaldo sbarattato Tutto il serraglio, e quella grata aperta; Ma per il crido di quel smisurato Gionge la gente crudele e diserta. E gia\ Ranaldo fuora era saltato; Or li conviene adoperar Fusberta, Che/ intorno a lui de gente cresci\a il ballo: Gia\ son piu\ che seicento senza fallo. Nulla ne cura quel franco barone, Se ben sei tanto fosse il populaccio. Davanti a gli altri stava un gigantone, Quel proprio che Ranaldo prese al laccio. Mai non fu visto il piu\ falso poltrone; Ma ben presto Ranaldo gli die\ il spaccio: Sotto il genocchio un colpo li disserra, E senza gambe il fie' cadere in terra. Quivi lo lascia, e tra gli altri se caccia, E sua Fusberta mena con ruina; Presto a lui sol rimase quella piaccia, Via ne fuggia la gente saracina. Chi senza capo va, chi senza braccia, Piena e\ di sangue la piaza meschina. La vecchia nel palazo era serrata, E dentro ha con lei molta brigata. L' altro gigante ancora e\ dentro chiuso; Gionge Ranaldo, e gia\ non sta a guardare: Rompe la porta e favi entro un gran buso, Poi con la man la prende a dimenare. Il gran gigante se vede confuso, Tema e vergogna il fanno dubitare. Da capo a piedi egli era tutto armato: Apre la porta, e fuora fu saltato. E nella gionta mostra molto ardire; Sopra a Ranaldo un gran colpo ha donato. Ridendo quel baron li prese a dire: #_ Io son contento di averti onorato. Il sir de Montealban te fa morire: Giu\ nello inferno tu serai lodato; Che/ ben li\ trovarai gran compagnia, Che io li ho mandato con Fusberta mia. $_ Cosi\ dicendo quel baron valente Mena un gran colpo fuor de ogni misura, Fende al gigante il capo insino al dente; Or fuggon gli altri tutti con paura. Intra Ranaldo, e occide l' altra gente; Ma quella vecchia dispietata e scura Stava assettata sopra de un balcone; Giu\ si getto\, come vide il barone. Ben cento pedi quel balcone era alto: Se la vecchia se occise, io nol domando. Quando Ranaldo vide quel gran salto, #_ Va $_ disse #_ al diavol, ch' io te racomando. $_ Fatta e\ la sala gia\ di sangue un smalto: Sempre mena Ranaldo intorno il brando. Accio\ che tutto il fatto a un ponto scriva, Non rimase al castello anima viva. Da poi se parte, e torna alla marina: Non ha piu\ voglia nel naviglio entrare, Ma cosi\ a piedi nel litto camina; Et una dama venne a riscontrare, Che dicea: #_ Lassa! misera! tapina! La vita voglio al tutto abandonare. $_ Ma parlar piu\ di cio\ lascia Turpino, E torna a dir de Astolfo paladino. Era partito Astolfo gia\ di Franza: Baiardo il buon destrier menato avia; L' arme ha dorate, e dorata ha la lanza, E va soletto e senza compagnia. Gia\ passato ha il paese di Maganza, E gia\ la Magna grande e la Ongaria; Passa il Danubio nella Transilvana, La Rossia bianca, et e\ gionto alla Tana. Alla man destra volta giuso al basso, E ne la Circasia fece la intrata. Or quella regi%one era in conquasso, Tutta la gente se vedeva armata; Pero\ che Sacripante, il re circasso, Una gran guerra aveva incominciata Contra Agricane, re di Tartaria; L' uno e l' altro segnor gran possa avia. La cagione era di questo rumore Non odio antiquo o zelosia di stato, Ne/ lo confin di regno o disonore, Ne/ lo esser per vittoria reputato; Ma l' arme li avea posto in mano Amore, Perche/ Agricane al tutto e\ destinato Angelica per moglie di ottenire: Essa ha proposto piu\ presto morire. Et ha mandato in ogni regi%one, Presso e lontano, e per ogni paese; O sia re grande, o sia picciol barone, Invita ciascaduno a sue diffese; E gia\ molte migliaia di persone, Per aiutar la dama, han le armi prese; Ma prima assai de gli altri Sacripante, Che lungamente li era stato amante. Egli era innamorato oltra a misura Della donzella, e lei lui poco amava; Ma questa e\ piu\ d' amor la gran sciagura, Che il non essere amato non disgrava. Or, per non far piu\ lunga la scrittura, Re Sacripante sua gente adunava, E gia\ se stava nel campo attendato, Quando li venne Astolfo apresentato. Perche/ aveva quel re fatto ordinare Per ogni passo e per ogni sentiero Dove persone potea capitare, Che ciascun, paesano o forastiero, Avanti a lui se debba appresentare; E se de lui li faceva mestiero, Con bono accordio seco il retenia; Non se accordando, andava alla sua via. Venne Astolfo da lui sopra Baiardo, E fu da Sacripante assai mirato; E ben lo stimo\ fior de ogni gagliardo, Tanto lo vede gentilmente armato. Gia\ non aveva la insegna da il pardo, Ma sopravesta e scudo avea dorato; E percio\ sempre per quel tenitoro Nomossi il cavallier da il scudo d' oro. Disseli Sacripante: #_ Sir valente, Che soldo chiedi per la tua persona? $_ Rispose Astolfo: #_ Tutta la tua gente, Quanta ne e\ in campo sotto tua corona. Altro partito non voglio ni%ente: Cosi\ mi piglia, o cosi\ me abandona; In altro modo non sapria servire, Perche/ io so comandar, non obedire. Ma accio\ che pensi se me la dei dare (Perche/ forse me stimi per un paccio), Voglio una prova nel presente fare: Che me leghi di dietro il manco braccio; Questo esercito poi voglio pigliare, Da tua persona a l' ultimo ragaccio; E perche/ meraviglia non te mova, Adesso adesso ne faro\ la prova. $_ Il re, rivolto a' soi baron, dicia Che li incresciva di quel cavalliero, Che a tal partito il senno perso avia; E che potrebbe anco esser de legiero Che lo intelletto li ritornaria, Quando di lui se pigliasse pensiero. Altri diceva: #_ Deh! lasciamlo andare! Poco de un paccio se puo\ guadagnare. $_ E cosi\ Astolfo fu licenzi%ato, E via cavalca senza altro pensiero. Quel re di Circasia molto ha guardato L' arme dorate e Baiardo il destriero; E ne l' animo suo si ha destinato De andar soletto dietro al cavalliero: Poca fatica a quello alto re pare L' arme ad Astolfo e quel caval levare. De sopra a l' elmo trasse la corona, Che/ gia\ non voleva esser cognosciuto; Lo usato scudo e le insegne abandona. Era questo re grande e ben membruto, E forte a meraviglia di persona, Molto avisato in guerra e proveduto: Ma poi racontaremo sue prodece Nella gran guerra che a Albraca se fece. Lui segue Astolfo, come e\ sopra detto, Che era davanti bene una giornata, E cavalcava via tutto soletto. Et ecco scontra a mezo della strata Un Saracin, che un altro si\ perfetto Non ha la terra, che e\ dal mar voltata; Sua gran virtu\ conviene che se scopra A quella guerra ch' io dissi di sopra. Quel saracino ha nome Brandimarte, Et era conte di Rocca Silvana; In tutta Pagania per ogni parte Era sua fama nobile e soprana. Di torniamenti e giostra sapea l' arte; Ma, sopra tutto, la persona umana Era cortese, il suo leggiadro core Fu sempre acceso di gentile amore. Costui menava seco una donzella, Alor che con Astolfo se scontrava, Che tanto cara gli e\ quanto era bella, E di bellezza le belle avanzava. Or come Astolfo il vide in su la sella, Subitamente a giostra lo invitava: #_ Prendi del campo, $_ Astolfo li dicia #_ O ver lascia la dama, e va a tua via. $_ Diceva Brandimarte: #_ Per Macone, Prima vi voglio la vita lasciare; Ma io te aviso, franco campi%one, Poi che donzella non hai a menare, Che, se io te abato, te toro\ il ronzone, E converratti a pedi caminare; E gia\ non stimo farti villania: Tu non hai dama, e vo^i tormi la mia. $_ Aveva quel barone un gran destriero, Che fu ben certo delli avantaggiati. Or volta l' uno e l' altro cavalliero, Da poi che insieme fo^rno desfidati, E ritrova^rsi al mezo del sentiero, E de gran colpi se fo^rno atrovati. Ma Brandimarte cadde con tempesta, E scontrarno e destrier testa per testa. Mori\ quel del barone incontinente: Baiardo non curo\ di quella urtata. Cio\ non estima il cavallier valente; Ma di perder la dama delicata Al tutto se dispera nella mente, Che/ piu\ che 'l proprio cor l' aveva amata. Poi che ha perso ogni bene, ogni diletto, Trasse la spada per darse nel petto. Astolfo, che a quello atto ben comprese Che il cavallier moriva disperato, Subitamente di Baiardo scese, E con parole assai l' ha confortato. #_ Credi, $_ diceva #_ ch' io sia si\ scortese, Ch' io te toglia quel ben che hai tanto amato? Teco giostrai per vittoria e per fama: Mio sia l' onore, e tua sia questa dama. $_ Il cavallier che a piedi l' ascoltava, E prima di dolor volea morire, Or di tanta allegrezza lacrimava, Che non poteva una parola dire, Ma e piedi al duca e le gambe baciava, E forte singiottendo disse: #_ Sire, Or se radoppia la vergogna mia, Poi ch' io son vinto ancor di cortesia. Et io ben son contento tutta fiata Di avere ogni vergogna per tuo onore; Tu m' hai la vita al presente campata: Sempre perder la voglio per tuo amore. Io non posso mostrarti mente grata, Che/ di servirti non aggio valore; E tu sei de ogni cosa si\ compiuto, Che a l' altri servi, e tu non chiedi aiuto. $_ Mentre che stanno in questo ragionare, Re Sacripante ariva alla foresta; E quando la fanciulla ebbe a mirare, Destina di lasciar la prima inchiesta, Che/ quella dama voli\a conquistare, Fra se/ dicendo: ## Oh che ventura e\ questa! Io feci aviso avere arme e destriero; Or far meglior guadagno e\ di mestiero. $# Con alta voce crida il Saracino: #_ Di qualunche di voi la dama sia, A me la lascia, e vada al suo cammino, O che si prova alla persona mia. $_ #_ Tu non sei cavallier, ma si\ assassino, $_ Il franco Brandimarte li dicia #_ Che/ tu sei su il destriero, io sono a piedi, Et a robarme a battaglia mi chiedi. $_ E poi ad Astolfo se ebbe ingenocchiare, E li dimanda con ogni preghiere Che il suo destrier li piaccia di prestare. Ridendo Astolfo con piacevol ciere Disse: #_ Il mio per ni%ente non vo' dare, Ma il suo ti donero\ ben voluntiere; E guadagnar lo voglio per tuo amore: Tuo fia il cavallo, e mio sera\ l' onore. $_ A Sacripante poi disse: #_ Barone, Prima che acquisti questa damigella, Convienti fare un' altra questi%one; E se io ti getto fora de la sella, Io te faro\ partir senza ronzone; Se tu me abbatti, sero\ pure a quella, E tu te pigliarai questo destriero; Poi della dama a te lascio il pensiero. $_ #_ O Dio Macon, $_ diceva Sacripante #_ Quanto aiutarme tua mente procura! Per l' arme venni e per quello afferante, E trovai questa bella creatura! Et ora mi guadagno in uno instante La dama col destriero e l' armatura! $_ Cosi\ dicendo da Astolfo si scosta, E, vo\lto, disse a lui: #_ Vieni a tua posta. $_ Ora son mossi con molto furore; Nel corso ciascadun sua lancia aresta: L' un se crede de l' altro esser megliore, E vannose a ferir con gran tempesta. Ma Sacripante cadde con dolore, Sopra del prato percosse la testa. Astolfo quivi in terra lo abandona: Il suo destriero a Brandimarte dona. #_ Odisti mai piu\ piacevol novella, $_ Diceva Astolfo #_ di questo barone, Che se credette levarmi di sella, Et esso ne convien andar pedone? $_ Cosi\ ne va parlando; e la donzella Gli dice: #_ Il fiume della oblivi%one E\ qui davanti; sicche/, cavallieri, {add} Piglia\ti {/add; Pigliati Z} al nostro aiuto bon pensieri. Se ogni om de noi non e\ cauto e prudente, Noi siam tutti perduti questa sera; Lo ardir, ne/ l' arma non varra\ ni%ente, Che/ qui presso a tre miglia e\ una rivera, Che tra' l' omo a se stesso de la mente: Non se puo\ racordar piu\ quel che egli era. Onde io mi penso che assai meglio sia Tornare a dietro e lasciar questa via; Che/ la rivera non si puo\ passare, Perche/ ciascuna ripa ha uno alto monte; Da l' uno a l' altro una muraglia appare, Che le due rocche tiene insieme agionte. Stavi una dama nel mezo a mirare, Sotto una torre, ch' e\ in guardia del ponte; Con una coppa lucida e pulita Ciascun che ariva a ber del fiume invita. Come ha bevuto, perde ogni memoria, Tanto che il proprio nome ha smenticato; Ma se alcun piu\ superbo, per sua boria, Volesse a forza il ponte esser passato, Seri\a impossibil lui acquistar vittoria, Che/ sempre alcun barone appregi%ato Tien quella dama fuora d' intelletto, Per far vendetta d' ogni suo dispetto. $_ Con tal parole la dama procura Che il suo vi%aggio si debba mutare. Ciascun de' cavallier non ha paura, Et ha diletto tal cosa trovare; E per veder quella strana ventura, De esser la\ gionti mille anni li pare; E cavalcando, vicino alla sera Gionsero al ponte sopra alla rivera. La damisella ch' era guardi%ana, A loro incontra sopra al ponte e\ gita, E con gentil sembiante, in voce umana, A ber del fiume ciascadun invita. #_ Ahi! $_ disse Astolfo #_ Via, falsa, puttana! Che/ l' arte tua malvaggia e\ pur finita: Morir convienti, tientene ben certa, Che/ la tua fraude al tutto e\ discoperta. $_ La damisella che il parlare intese, Lascia cader il cristal che avea in mano. Un si\ gran foco nel ponte se accese, Che il volervi passar serebbe vano. L' altra donzella ben quello atto intese, Et ambi i cavallier prese per mano: L' altra dama, dico io, di Brandimarte, Che sa di questa ogni malizia et arte. Lei prese a mano ciascun cavalliero, E quanto ne po^ gir, tanto ne andava, Drieto alla ripa, per stretto sentiero. L' acqua incantata quivi si vargava Sopra de un ponte che passa al verziero. Per altrui quella porta non se usava, Ma la nova donzella, che e\ ben scorta Di questo incanto, sapea quella porta. Brandimarte getto\ la porta in terra, E gia\ se vede quel falso giardino, Che tanti cavallier dentro a se/ serra. Quivi era chiuso Orlando paladino, E il re Ballano, quel mastro di guerra, E Chiari%one, il franco saracino; Era li\ dentro Oberto dal Leone, Con Aquilante e il suo fratel Grifone. Eravi ancora il forte re Adriano, Et eravi Antifor de Albarosia; Non cognoscon l' un l' altro, e insieme vano, Ne/ sapria dire alcun quel che lui sia, Ne/ se egli e\ saracino, o cristi%ano: Tutti son persi per negromanzia. Tutti li ha persi quella falsa dama, Che Dragontina per nome se chiama. Or se incomincia una gran questi%one, Che/ Astolfo e Brandimarte sono entrati. Il re Ballano e il forte Chiari%one Per Dragontina stan quel giorno armati. Adri%ano e Antifor e ogni barone Son tutti insieme, li altri smemorati; Tutti {add} e\n {/add; en Z} nel prato, il conte Orlando excetto, Che la logia mirava per diletto. Era ancor tutto armato il cavalliero, Perche/ gionto era pur quella matina; E Brigliadoro, il suo franco destriero, Legato e\ tra le rose ad una spina. Lui de altra cosa non avea pensiero; Et eccoti qui gionge Dragontina, Dicendo: #_ Cavallier, per lo mio amore Non anderai dove odi quel rumore? $_ Altro non pensa il cavallier soprano, Salta in arcione e la visera serra: Alla zuffa ne va col brando in mano. Gia\ Brandimarte ha Chiari%on per terra, Et Astolfo ha abbattuto il re Ballano, Et a cavallo e a pedi se fan guerra. Ma, come prima gionse il conte Orlando, Cognobbe Astolfo Durindana el brando; E crida forte: #_ O cavallier pregiato, Fiore e corona de ogni paladino! Oh sempre Dio del cel ne sia lodato! Non me cognosci ch' io son tuo cugino, Che tanto per il mondo te ho cercato? Chi te condusse per questo giardino? $_ Il conte de ni%ente non lo ascolta, Ne/ se ricorda vederlo altra volta; Ma con gran furia e senza alcun riguardo Un grandissimo colpo a due man mena; E se non fosse che il destrier Baiardo E\ di tal senno e di cotanta lena, Serebbe ucciso quel duca gagliardo, Che/ morto l' avria Orlando con gran pena: Ben che il mur del giardin fosse molto alto, Baiardo a un tratto lo passo\ de un salto. Orlando fuor del ponte se ne uscia, Che/ quel nemico al tutto vo^l pigliare; E benche/ Brigliador forte corria, Gia\ con Baiardo non puotea durare, Ma pur lo segue quanto piu\ puotia. Or non piu\ adesso per questo cantare; Ne l' altro avreti, se tornati a odire, Del duca Astolfo un smisurato ardire. Orlando segue Astolfo a tutta briglia, Forte spronando, ma nulla gli vale; Corre Baiardo piu\ che a meraviglia: Giurato avria ciascun che l' avesse ale. Il duca in ver levante il camin piglia, Benche/ di Brandimarte gli par male, Che gli era stato un pezo compagnone; Or lo lasciava peggio che pregione. Ma lui tanto temeva Durindana, Che avria lasciato un suo carnal germano. Or poi che Orlando per la selva strana Vede averlo {add} seguito {/add; segui\to Z} un pezo invano, E che da lui piu\ sempre se alontana (Gia\ quasi piu\ nol vede sopra al piano), Nella campagna lui non fe' dimora: Verso il giardin correndo torna ancora. La battaglia la\ dentro ancor durava, Pero\ che Brandimarte stava in sella, Et or Ballano, or Chiari%one urtava, E ciascadun di loro a lui martella. Ma la sua dama piangendo il pregava Ch' el lascia la battaglia iniqua e fella, E coi duo cavallier faccia la pace, Facendo quel che a Dragontina piace; Perche/ altramente non puotra\ campare, Quando non beva de l' acqua incantata; Ne/ se curi al presente smemorare, Ma cosi\ aspetti la sua ritornata, Che certamente lo verra\ aiutare. Ne/ piu\ ni%ente se fu dimorata, Ma volta il palafreno alla pianura, E via camina per la selva oscura. Or la battaglia subito se parte, E son finite le crudel contese; E Dragontina piglia Brandimarte, E da\gli il beveraggio li\ palese Della fiumana che e\ fatto per arte. Piu\ oltra il cavallier mai non intese, Ne/ se ricorda come qui sia gionto: Tutto divenne un altro in su quel ponto. Dolce bevanda e felice liquore, Che puote alcun della sua mente trare! Or sciolto e\ Brandimarte dello amore Che in tanta doglia lo facea penare. Non ha speranza piu\, non ha timore Di perder lodo, o vergogna acquistare; Sol Dragontina ha nel pensier presente, E de altra cosa non cura ni%ente. Orlando e\ ritornato nel giardino, Avanti a Dragontina e\ ingenocchiato, E fa sua scusa con parlar tapino, Se quell' altro baron non ha pigliato. Tanto li sta sumesso il paladino, Che ad un piccol fantin seri\a bastato. Ora tornamo de Astolfo a contare, Che de aver drieto Orlando ancor li pare; Unde camina {add} continu%amente, {/add; continuamente, Z} E notte e giorno, il cavallier soprano. Il primo giorno non trovo\ ni%ente Per quel diserto inospite e silvano, Ma nel secondo vede una gran gente, Che era attendata sopra di quel piano: Ad uno araldo Astolfo dimandava Che gente e\ questa che quivi accampava. Lo araldo gli mostrava una bandera, Che quasi il mezo de il campo {add} tenia, {/add; teni\a, Z} E dice: #_ Quivi aloggia con sua schera Il re de' re, segnor de Tartaria. $_ (Era quella bandera tutta nera, Un caval bianco dentro a quella avia, D' intorno ornato a perle, a zoglie e ad oro: Non avea il mondo piu\ ricco lavoro.) #_ Quell' altra c' ha il sol d' oro in campo bianco, E\ del re de Mongalia, Saritrone, Che non ha il mondo un baron tanto franco. Vedi la verde da il bianco leone? Quella e\ del smisurato Radamanto, Che vinti piedi e\ lungo il campi%one, E signoreggia sotto tramontana Mosca la grande e la terra Comana. Quella vermiglia, che ha le lune d' oro E\ del gran Polifermo, re de Orgagna, Che di stato e\ possente e di tesoro, Et e\ gagliardo sopra a la campagna. Io te vo' racontar tutti costoro, Ne/ vo' che alcun stendardo vi remagna, Che nol cognoschi e nol possi contare, Se in altre parte forse hai arrivare. Vedi la\ il forte re della Goti\a, Che Pandragon per nome era chiamato. Vedi lo imperator de la {add} Rossi\a, {/add; Rossia, Z} Che ha nome Argante, et e\ si\ smisurato. Vedi Lurcone et il fier Santaria; Il primo e\ di Norvega incoronato, Il secondo de Sueza; e prossimana Ha la bandera del re de Normana. Quel re per nome e\ chiamato Brontino, Che porta nel stendardo verde un core. Il re di Danna li aloggia vicino, Che ha nome Uldano, et ha molto valore. Costoro a l' India prendono il camino, Perche/ Agricane e\ de tutti il segnore, E tutti sottoposti a se/ li mena, Per dare a Galifrone amara pena. Quel Galifrone in India signoreggia Una gran terra, che ha nome il Cataio, Et ha una figlia, a cui non se pareggia Rosa piu\ fresca de il mese de maio. Ora Agricane per costei vaneggia, Ne/ tiene altro pensiero intro il coraio Che de acquistar quella bella fanciulla; Di regno o stato non si cura nulla. Vero e\ ch' iersera il vecchio Galifrone Mando\ nel campo una sua ambasciaria, Facendo molto d' escusazi%one, Se non li dava la figlia in bali\a; Pero\ che quella, contro ogni ragione, La rocca de Albraca\ tolto li avia, E che, radotta in quella terra forte, Dicea volervi star fino alla morte. Or potrebbe esser che tutta la gente Andasse a Albraca per porvi l' assedio; Che/ il patre non ha colpa de ni%ente, Se la sua figlia ha il re Agricane a tedio. Ma io m' estimo bene e certamente Che la fanciulla non vi avra\ remedio A far con questo gia\ lunga contesa: Meglio e\ per lei che subito sia resa. $_ Dapoi che Astolfo la cagione intende Perche/ era quivi la gente adunata, Subitamente il suo vi%aggio prende; Forte cavalca ciascuna giornata, Fin che alla rocca di Albraca discende, Dove stava la dama delicata; La qual, si\ come Astolfo vide in faccia, Subito lo cognobbe, e quello abbraccia. #_ Per mille volte tu sia il benvenuto, $_ Dicea la dama #_ franco paladino, Che sei giunto al bisogno dello aiuto! Teco fosse Ranaldo, il tuo cugino! Questo castello avessi io poi perduto, E tutto il regno (io non daria un lupino), Pur che qua fosse quel baron iocondo, Che piu\ val sol che tutto l' altro mondo. $_ Diceva Astolfo: #_ Io non ti vo' negare, Che un franco cavallier non sia Ranaldo; Ma questo ben ti voglio racordare, Che a la battaglia son di lui piu\ saldo. Alcuna fiata avemmo insieme a fare, Et io gli ho posto intorno tanto caldo, Che io l' ho fatto sudare insino a l' osso, E dire: #" Io te mi rendo, e piu\ non posso. $" E il simil ti vo' dire ancor de Orlando, Che della gagliardia se tien stendardo; Ma se mancasse Durindana il brando, Come a quell' altro e\ mancato Baiardo, Non se andarebbe pel mondo vantando, Ne/ se terrebbe cotanto gagliardo; Non con meco pero\, che/ in ogni guerra Che ebbi con seco, lo gettai per terra. $_ La dama non sta gia\ seco a contendere, Perche/ sapea come era solaccevole; Ne/ di Ranaldo lo volse reprendere, Benche/ odirlo biasmar li e\ dispiacevole; E ben ne sapea lei la ragion rendere, Perche/ era di quel tempo racordevole Quando vide a Parigi ogni barone, E di lor tutti la condizi%one. La dama fa ad Astolfo un grande onore, E dentro dalla rocca lo aloggiava. Et eccoti levare un gran romore, Per un messagio che quivi arivava; Di polvere era pieno e di sudore: #_ A l' arme! a l' arme! $_ per tutto cridava. Dentro alla terra se arma ogni persona, Perche/ a martello ogni campana suona. Eran qui dentro cavallier tre millia, Dentro alla rocca avea mille pedoni. La dama con Astolfo se consiglia, E con li principal de' soi baroni; Et alla fine il partito se piglia De diffender le mure e' torri%oni. La terra e\ di fortezza si\ mirabile, Che per battaglia al tutto e\ inespugnabile. Delibra^r che la terra se guardasse, Che per ben quindeci anni era fornita. Diceva a loro Astolfo: #_ Se io pensasse Perdere un giorno qui della mia vita, Che quei re ad uno ad un non assaggiasse, Voria che l' alma mia fosse finita; Et allo inferno me voglio donare, Se questo giorno non li faccio armare. $_ E cosi\ detto le sue arme prende, Sopra Baiardo al campo se abandona; Dice cose mirabile e stupende, Da far meravigliare ogni persona. #_ Forsi ch' io vi faro\ sficar le tende, Soletto come io son! $_ cosi\ ragiona. #_ Ni%un non campara\, questo e\ certano: Tutti vi voglio occider di mia mano. $_ Vintidue centenara di migliara De cavallier avia quel re nel campo; Turpino e\ quel che questa cosa nara. Astolfo non li estima, e getta vampo. Dice il proverbio: ## Guastando se impara $#: Cadde quel giorno Astolfo a tale inciampo, Che alquanto se muto\ de opini%one, Governandosi poi con piu\ ragione. Ma nel presente tutti li disfida, Chiamando Radamanto e Saritrone; Polifermo et Argante forte iscrida, E Brontino dispreza e Pandragone; Ma piu\ Agricane, che de li altri e\ guida, E il forte Uldano, e il perfido Lurcone; Con quisti il re di Sueza, Santaria: A tutti dice oltraggio e vilania. Or se arma tutto il campo a gran furore. Non fo mai vista cosa tanto oscura Quanto e\ quel populaccio, pien de errore, Che de un sol cavallier se mette in cura. Tanto alto e\ il crido e si\ grande il romore, Che ne risuona il monte e la pianura, E spiegan le bandiere tutte quante; Dece re insieme a quelle vanno avante. E quando Astolfo viderno soletto, Pur vergognando anda^rli tutti adosso; Argante imperator, senza rispetto, Fuor della schiera subito se e\ mosso. Largo sei palmi e\ tra le spalle il petto: Mai non fo visto un capo tanto grosso; Schizzato il naso e l' occhio piccolino, E il mento acuto, quel brutto mastino. E sopra un gran destrier, che e\ di pel so^ro, Con la testa alta Astolfo riscontrava. Il franco duca con la lancia d' oro For della sella netto il trabuccava: Ben fe' meravigliar tutti coloro. Il forte Uldano sua lancia abassava, Che fu segnor gagliardo e ben cortese: Cugin carnale e\ questo de il Danese. Astolfo con la lancia l' ha scontrato; Disconzamente in terra il trabuccava. Ciascun dei re ben se e\ meravigliato, E piu\ l' un l' altro gia\ non aspettava. Movesi un crido grande e smisurato: #_ Adosso! adosso! $_ ciascadun cridava; E tutti insieme quella gran canaglia Contra de Astolfo viene alla battaglia. Lui d' altra parte sta fermo e securo, E tutta quella gente solo aspetta, Come una rocca cinta de alto muro; Sopra Baiardo a gran fatti se assetta. Per la polvere il celo e\ fatto scuro, Che move quella gente maledetta; Quattro vengono avanti: Saritrone, Radamanto, Agricane e Pandragone. Or Saritrone fu il primo incontrato, E verso il cel rivolse ambe le piante; Ma Radamanto da il dritto costato Percosse il duca; e quasi in quello instante Agricane il feri\ da l' altro lato; E nella fronte de l' elmo davante Pur in quel tempo il gionse Pandragone: Questi tre colpi lo leva^r d' arcione. E tramortito in terra se distese, Per tre gran colpi che avea ricevuti. Radamanto e\ smontato, e lui lo prese, Benche/ sian l' altri quivi ancor venuti. Vero e\ che Astolfo non fece diffese, Che/ era stordito, e non vi e\ chi lo aiuti. Ebbe Agricane assai meglior riguardo, Che/ lascio\ Astolfo, e guadagno\ Baiardo. Io non so dir, segnor, se quel destriero, Per aver perso il suo primo patrone, Non era tra' Pagan piu\ tanto fiero; O che lo essere in strana regi%one Gli tolse del fuggire ogni pensiero; Ma prender se lascio\ come un castrone: Senza contesa il potente Agricane Ebbe il caval fatato in le sue mane. Or preso e\ Astolfo e perduto Baiardo E il ricco arnese e la lancia dorata; In Albraca non e\ baron gagliardo Che ardisca uscir di quella alcuna fiata. Sopra le mura stan con gran riguardo, Col ponte alciato e la porta serrata; E mentre che cosi\ stanno a guardare, Vedeno un giorno gran gente arivare. Se volete saper che gente sia Questa che gionge con tanto romore, Questo e\ quel gran segnor di Circasia, Re Sacripante, lo animoso core; Et ha seco infinita compagnia: Sette re sono, et uno imperatore, Che vengon la donzella ad aiutare; Il nome de ciascun vi vo' contare. Il primo che e\ davanti, e\ cristi%ano, Benche/ macchiato e\ forte de eresia: Re de Ermenia, et ha nome Varano, Che e\ de ardir pieno e d' alta vigoria. Sotto sua insegna trenta millia vano, Che tutti al saettare han maestria: E l' altro, che ha la schiera sua seconda, E\ l' alto imperator de Tribisonda, Et e\ per nome Brunaldo chiamato: Vintisei millia ha di fiorita gente. Il terzo e\ di Roase incoronato, Che ha nome Ungiano, et e\ molto possente: Cinquanta millia e\ il suo popul armato. Poi son duo re, ciascuno e\ piu\ valente: Ogniom di loro ha molta signoria, L' un tien la Media, e l' altro la Turchia. Quel de la Media ha nome Savarone: Torindo il Turco per nome si spande. Questo ha quaranta millia di persone, E il primo trentasei dalle sue bande. Odito hai nominar la regi%one Di Babilonia, e Baldaca la grande: Di quella gente e\ venuto il segnore, Re Trufaldino, il falso traditore. E le sue gente mena tutte quante, Che son ben cento millia, in una schiera. Re di Damasco, schiatta di gigante, Ne ha vinti millia sotto sua bandiera. Bordacco ha nome; e segue Sacripante, Re de' Cercassi, quella anima fiera, Di corpo forte, de animo prudente; Ottanta millia e\ tutta la sua gente. Giunsero ad Albraca\ quella matina Che la presa di Astolfo era {add} seguita; {/add; segui\ta; Z} Et assalirno il campo con roina, Benche/ Agricane ha una gente infinita. Era nella prima ora matutina, E l' alba pur allora era apparita, Quando se incomincio\ la gran battaglia, Che a l' una e l' altra gente die\ travaglia. Or chi potra\ la quinta parte dire Della battaglia cruda e perigliosa? E l' aspro scontro, e il diverso colpire, E il crido della gente dolorosa, Che d' una e da altra parte hanno a morire? Chi mostrara\ la terra sanguinosa, L' arme suonante e bandiere stracciate, E il campo pien di lancie fraccassate? La prima zuffa fu del re Varano, Che senza alcun romor sua schiera guida. Comandamento fa di mano in mano Che pregion non si pigli, e ogni om se occida. Fu lo assalto improviso e subitano, Il campo tutto #_ A l' arme! a l' arme! $_ crida; Chi si diffende, e chi prende armatura, Chi se nasconde e fugge per paura. Ma non bisogna gia\ star troppo a bada, Che/ li inimici entro alle tende sono; Vanno e Tartari al taglio de la spada, Ne/ trovan delli Ermeni alcun perdono; Per boschi e per campagna, e fuor di strada Fugge tutta la gente in abandono. Ecco la furia adosso piu\ li abonda: Gionto e\ lo imperator de Trebisonda. Con la sua gente e Tartari sbaraglia. Ora ecco Ungiano, il forte campi%one, Ch' e\ gionto con quest' altri alla battaglia; E gia\ Torindo e il franco Savarone La gente tartaresca abatte e taglia; Alla riscossa sta sotto il penone Re Sacripante, e Bordaco e\ rimaso Con Trufaldino, il traditor malvaso. La battaglia era tutta inviluppata: Chi qua, chi la\ per lo campo fuggia. La polvere tanto alto era levata, Che l' un da l' altro non se cognoscia; Et e\ la cosa si\ disordinata, Che non giova possanza o vigoria Del re Agricane, che e\ cotanto forte; Ma a lui davanti son sue gente morte. Quel re di gran dolor la morte brama; Soletto fuor de schiera se tra' avante, Ciascun de' soi baron per nome chiama: Uldano, e Saritrone, e il fiero Argante, E Pandragone, degno di gran fama, Lurcone, e Radamanto, che e\ gigante, Polifermo e Brontino e Santaria Ad alta voce chiama tutta via. Montato era Agrican sopra Baiardo; Davanti a tutti vien con l' asta in mano. Apre ogni schiere quel destrier gagliardo, Con tanta furia vien sopra del piano; Abatte ciascadun senza riguardo: Et ecco riscontrato ha il re Varano. Avanti lo colpisce entro la testa, Gettalo a terra con molta tempesta. Brunaldo fu cacciato dello arcione Da Polifermo; et ecco il forte Argante Che con la lancia atterra Savarone; E Radamanto, quel crudo gigante, Abatte Ungiano sopra del sabbione. Or vede bene il franco Sacripante Tutta sua gente morta e sbigotita, Se sua persona non li porge aita. Lascia sua schiera il re pien di valore Sopra il destriero, et abassa la lanza, E Polifermo atterra con furore; Brontino e Pandragon poco li avanza, E questo Argante, che era imperatore, Che/ tutti in terra vanno ad una danza; E poi ch' egli ha la spada in sua man tolta, La gente tartaresca fugge in volta. In altra parte combatte Agricane, E meraviglia fa di sua persona; Vede sua gente per coste e per piane Fuggire in rotta, e che il campo abandona. Per la grande ira morde ambe le mane, E in quella parte cruci%oso sprona; Urta et occide chi li viene avante, O sia de' suoi, o sia de Sacripante. Come di verno, nel tempo guazoso, Giu\ de un gran monte viene un fiume in volta, Che va sopra a la ripa {add} rui%noso, {/add; ruinoso, Z} Grosso di pioggia e di neve disciolta: Cotal veniva quel re furi%oso, Con ira grande e con tempesta molta. Una gran prova poi, che egli ebbe a fare, Vi vo' ne l' altro canto racontare. Di sopra odisti il corso e la roina Del re Agricane, quella anima fiera. Come un gran fiume fende la marina, Si\ come una bombarda apre una schiera, Cosi\ quel re col brando non afina, Ogni stendardo atterra, ogni bandiera; Taglia e nimici e spezza la sua gente, Ne/ l' un ne/ l' altro non cura ni%ente. Ne/ Tartaro o Circasso lui riguarda, Ne/ de amici o nemici fa pensiero; A quel vo^l mal, che il camino gli intarda. Ora e\ pur gionto quel segnor altiero Dove discerne la prova gagliarda Che fa il re Sacripante in sul destriero: Vede fuggire e soi con alte stride, E il re circasso vede, che li occide. #_ Fuggitevi de qui, vituperati! $_ Disse Agricane #_ popol da ni%ente; Ne/ miei vasalli piu\ vi nominati, Ch' io non voglio esser re de cotal gente. Via nel mal ponto! e me quivi lasciati; Che/ io molto meglio restaro\ vincente Sol, come io sono, de questa battaglia, Che in compagnia de voi, brutta canaglia. $_ Cosi\ dicendo, si fa largo fare, E Sacripante alla battaglia invita. Or non doveti, segnor, dubitare Se ben l' accetta quella anima ardita; E incontinente un messo ebbe a mandare Dentro alla terra, alla dama fiorita; Pregando lei che su la rocca saglia, Per radoppiarli il core alla battaglia. Venne la damisella sopra al muro, E mando\ un brando al re di Circasia, Ad ogni prova tagliente e sicuro. Il re Agricane gran doglia ne avia, Pur diceva ghignando: #_ Io non mi curo, Che/ quella spada al fin sera\ la mia, E Sacripante insieme, e quel castello, Con quella ria putana de bordello. Non se vergogna, brutta incantatrice, Ad altro piu\ che a me portare amore, Che/ se puotea chiamar tanto felice E aver del mondo la parte maggiore. Certo il ver de le femine si dice, Che sempre mai se apprendeno al peggiore: Il re de' re puotea aver per marito, E un vil circasso tol per appetito. $_ Cosi\ dicendo, turbato se volta, Et al nemico assai se e\ dilungato: La grossa lancia su la coscia ha tolta. E gia\ da l' altra parte e\ rivoltato Re Sacripante, e vien con furia molta; E l' uno e l' altro insieme e\ riscontrato Con tal romore e con tanta roina Che par che il cel profondi e il mondo afina. L' un l' altro in fronte a l' elmo se e\ percosso, Con quelle lancie grosse e smisurate, Ne/ alcun per questo se e\ de l' arcion mosso; L' aste fino alla resta han fraccassate, Benche/ tre palmi ciascun tronco e\ grosso. Gia\ fan rivolta, et hanno in man le spate, E furi%osi tornansi a ferire. Che/ ciascun vo^le o vincere o morire. Chi mai vide due tori alla verdura Per una vacca accesi di furore, Che a fronte a fronte fan battaglia dura Con voce orrenda e piena di terrore; Veggia qui duo guerrer senza paura, Che non stiman la vita per amore, Anci hanno e scudi per terra gettati, E la lor guerra fan da disperati. Or Sacripante al tutto se abandona, A due man mena un colpo dispietato. Gionselo in testa, e taglia la corona: Lo elmo non puo\ tagliar, che/ era incantato. Ma Agrican il colpisce alla persona, E sopra a un fianco l' ha forte piagato. Ciascun di vendicarse ben procaccia, E rendonsi pan fresco per fogaccia. Ne/ si\ spesso la pioggia, o la tempesta, Ne/ la neve si\ folta da il cel cade, Quanto in quella battaglia aspra e molesta Se {add} odi\no {/add; odino Z} spesso e colpi delle spade. E' da l' arcion son sangue insin la testa: Mai non se vide tanta crudeltade. Ciascun de vinte piaghe e\ sanguinoso, E cresce ognor lo assalto furi%oso. Vero e\ che Sacripante sta pur peggio, Perche/ versa piu\ sangue il fianco fore; Ma lui della sua vita fa dispreggio, E riguardando Angelica, il bel fiore, Fra se/ diceva: ## O re del celo, io cheggio Che quel ch' io faccio per soperchio amore Angelica lo veda, e siagli grato; Poi son contento di morir nel prato. Io son contento al tutto de morire, Pur ch' io compiaccia a quella creatura. Oh se lei nel presente avesse a dire: #" Certo io son ben spietata e troppo dura, Facendo un cavallier de amor perire, Che per piacermi sua vita non cura! $" Se cio\ dicesse, et io fossi acertato, E morto e vivo poi seri\a beato. $# E sopra a tal pensier tanto se infiama, {t} Che {/t S; Che/ Z} non fu cor giamai cosi\ perverso; Ad ogni colpo Angelica pur chiama, E mena il brando a dritto et a roverso. Altro non ha nel cor che quella dama: Piaga non cura, o sangue che abbia perso; Ma pur il spirto a poco a poco manca, Benche/ nol sente, et ha la faccia bianca. Li altri re intorno stavano a guardare La gran battaglia piena di spavento. A ciascaduno un gran dalmaggio pare Veder morir quel re pien de ardimento. Ma sopra a tutti nol puo\ comportare Torindo il Turco, et ha molto tormento Di veder Sacripante in tal travaglia, Ne/ sa come sturbar quella battaglia. E tra li cavallier comincia a dire Come egli e\ certamente un gran peccato Veder quel franco re cosi\ morire. E seguia poi: #_ Ahi populaccio ingrato! Potrai tu forse con gli occhi soffrire Di veder morto quel che t' ha campato? Noi fuggivamo in rotta et in sconfita: Esso ce ha reso e l' onore e la vita. Deh non abbiate di color spavento, Benche/ sia innumerabil quantitate. Diamo pur dentro a lor con ardimento, Che poco li\ faren noi con le spate. Ne/ vi crediati di far tradimento, Perche/ questa battaglia disturbate, Che/ tradimento non si puo\ appellare Quel che si fa per suo segnor campare. Sia mia la colpa, se colpa ne viene, E vostre sian le lode tutte quante. $_ Cosi\ dicendo piu\ non se ritiene, Ma con ruina sprona il suo aferrante. La grossa lancia alla resta sostiene; Primo e secundo che li viene avante, E il terzo e il quarto abatte con furore: Or se comincia altissimo romore. Che/ ciascun turco e ciascadun circasso, Ciascun di Tribisonda e di Soria, E gli altri tutti che al presente lasso, Perche/ dietro a Torindo ognun seguia, Ne' Tartari ferirno con fraccasso, Contra a quei de Mongalia e di {add} Rossi\a. {/add; Rossia. Z} Ecco di sopra si lieva il polvino, Che/ da quel canto gionge Trufaldino, Quel di Baldache, ch' e\ tanto potente. Or comincia la zuffa smisurata, Che/ cento millia e\ tutta la sua gente, Che in una schiera vien stretta e serrata. Agricane a tal cose pone mente, E vede la sua gente sbarattata; E, vo\lto a Sacripante, disse: #_ Sire, Le vostre gente han fatto un gran fallire. A te ben ne daro\ bon guidardone: Tu prova contra a' mei quel che po^i fare. $_ L' un va di qua, di la\ l' altro barone, E comincia le schiere a sbarattare, Menando i brandi con distruzi%one. Mai tanta gente se ebbe a consumare, Che/ trenta falcie piu\ non fan nel prato, Quanti ciascun di loro oggi ha tagliato. Agricane inscontro\ con Trufaldino. Vede quel falso che non puo\ campare; Fassegli inanzi sopra del camino, Dicendo: #_ Ben di me ti po^i vantare, Se tu me abatti sopra de un roncino, E il tuo destriero al mondo non ha pare! Lascia il vantaggio, come il dover chiede, Che alla battaglia te desfido a piede. $_ Era Agricane assai di fama caldo: Subito smonta alla verde campagna; A un conte da\ il destrier del bon Ranaldo, Che/ gia\ non vo^l che altrui quel se guadagna. Ben colse il tempo Trufaldin ribaldo: Volta la briglia, e mena le calcagna; E prima che Agrican sia rimontato, Lui tra sua gente e\ gia\ remescolato. Or si riversa tutta la battaglia Verso la terra, e fuggono e Circassi. Quei di Baldache, la brutta canaglia, Fuggono {t} e {/t S; i Z} Sori%an dolenti e lassi, Gettan per terra lancie e scudi e maglia, E gettan le saette con turcassi. Non vi e\ chi contra a' Tartari risponde: Fuggono i Turchi e quei di Trebisonde. E gia\ son gionti ove il fosso confina Sotto alla terra, che e\ cotanto forte. La\ gioso ogni om se getta con roina, Che/ il ponte e\ alciato, e chiuse son le porte. Che debbe fare Angelica meschina, Che vede le sue gente tutte morte? Apre la porta e il ponte fa callare, Che/ gia\ soletta lei non vo^l campare. Come la porta in quel ponte se apria, Sia maledetto chi a drieto rimane. La gente tartaresca che seguia, E\ mescolata con loro alle mane. Or la porta gataia giu\ cadia, E resto\ dentro il forte re Agricane; Trecento cavallier de sue masnate Fo^r con lui chiusi dentro alla citate. Egli era in su Baiardo copertato: Mai non fu visto un baron tanto fiero. Bordaco il Damaschino era tornato Dentro alla terra, e vede il cavalliero, E con molta arroganza li ha parlato: #_ Or tua possanza ti fara\ mestiero: Non te varra\ Baiardo a questo ponto. Ve' che una volta pur vi fosti gionto! In ogni modo te convien morire, Ne/ po^i mostrar valor ne/ far deffesa. $_ Il re Agrican ridendo prese a dire: #_ Non facciam di parole piu\ contesa, Ma tu comincia, se hai ponto de ardire: Della mia morte pigliane l' impresa, Che/ tu serai il primo a caminare La\ giu\, dove molti altri aggio a mandare. $_ Portava il re Bordaco una catena, Che avea da capo una palla impiombata; Con quella ad Agricane a due man mena, Ma lui riscontra al colpo con la spata, Ne/ parve pur che lo toccasse apena, Che/ quella cadde alla terra tagliata. Dicea il Tartaro a lui: #_ Sapra' mi dire Qual sappia de noi duo meglio ferire. $_ Cosi\ dicendo, quel baron possente A due man mena sopra al bacinetto, E quel fraccassa, e mette il brando al dente E parte il mento e il collo insino al petto. Veggendo quel gran colpo, l' altra gente Tutti fuggian, turbati nello aspetto, E tutti in fuga se pongono in caccia; Il re Agrican li segue e li minaccia. Egli e\ di core ardente e tanto fiero, Che sempre voluntate lo trasporta; Pero\ che, se egli aveva nel pensiero Tornare adrieto, et aprir quella porta, Prender la terra assai gli era leggiero, Et Angelica avere, o presa o morta. Ma la ira, che ciascun di senno priva, Dietro il pose alla gente che fuggiva. Battaglia e\ ancora di fuor tutta fiata, Molto crudele, orribile e diversa; Qui l' una e l' altra gente e\ radunata: Chi more, e chi del ponte se sumersa. Tanto e\ quivi de' morti la tagliata, Che il sangue che de' corpi fuor riversa, Sparge per tutto e corre tanto grosso, Che insino a l' orlo ha gia\ cresciuto il fosso. Ma dentro dalla terra altro terrore E piu\ crudel partito se apresenta. Quel re sopra Baiardo con furore, Terribile a vedere, ogniun spaventa. Non fu battaglia al mondo mai maggiore, Ne/ dove tanta gente fosse spenta; Tanti ne occise quel pagan gagliardo, Che a pena e corpi passa con Baiardo. Prima che fosse in Albraca serrato, Come intendesti, il re de Tartaria, Gia\ se era prima dentro recovrato Re Sacripante, pien di gagliardia. Medicar se faceva disarmato, E tanto sangue gia\ perduto avia, Che di star dritto non avea potere, Ma sopra al letto stavasi a giacere. Ora torniamo al potente Agricane, Che assembra una fortuna di marina. Il brando sanguinoso ha con due mane: Mai non fo vista cotanta roina. Oditi e gran lamenti e voce strane, Che/ tutta e\ occisa la gente tapina, Re Sacripante, e in letto, con dolore, Dimanda la cagion di quel romore. Piangendo un suo scudier li prese a dire: #_ Intrato e\ re Agricane, il maledetto, Che la citade pone a gran marti\re. $_ Cio\ odendo Sacripante esce del letto. Ciascun de' suoi ben lo volea tenire, Ma lui salto\ di fuora al lor dispetto; Ne/ altre arme porta che il sol brando e il scudo, Vestito di camisa, e il resto nudo. E riscontra le schiere spaventate: Ni%un per tema sa quel che se faccia. Lui li cridava: #_ Ah gente svergognate! Poi che un sol cavallier tutti vi caccia, Come nel fango non vi sotterrate? Come osati ad alcun mostrar la faccia? Gettati l' arme, e andati alla poltrogna, Poi non sapeti quel che sia vergogna. Vedeti come io vado disarmato E quasi nudo, per avere onore. $_ Il popol che fuggiva se e\ firmato, Di meraviglia pieno e di stupore: Ciascuno alle sue spalle e\ rivoltato, Perche/ la fama del suo gran valore Era tanto alta, e i fatti a non mentire, Che a questi spaventati dava ardire. Ecco Agricane in mezo della strata, Che mena in rotta quella gente persa, Et ha quest' altra schiera riscontrata Con Sacripante, che il passo attraversa. Nova battaglia qui se e\ cominciata, Piu\ de l' altra feroce, e piu\ diversa, Benche/ e Tartari sono poca gente; Ma da\ a lor core il suo segnor valente. Da l' altra parte tanto eran spronati Quei della terra da quel re circasso, Che se stimano al tutto svergognati, Se son cacciati adesso di quel passo. Quivi de frezze e de dardi lanciati, Di mazze e spade ve era tal fraccasso, Qual piu\ giamai stimar se puote in guerra; Altri che morti non se vede in terra. Sopra a tutti l' ardito Sacripante Di sua persona fa prova sicura. Senz' arme indosso agli altri sta davante, Che meraviglia e\ pur che ancora dura. Ma tanto e\ destro, e di gambe aiutante, Che alcuna cosa non gli fa paura; Ne/ con il scudo copre sol se stesso, Ma li altri colpi ancor ripara spesso. Ora un gran sasso mena, or getta un dardo Ora combatte con la lancia in mano, Or coperto del scudo, con riguardo, Col brando sta a' nemici prossimano; E tanto fa, che Agricane il gagliardo Ogni sua forza adoperava in vano: Ne/ vi vale il vigor, ne/ lo ardimento; Gia\ morti sono e soi piu\ de trecento. Ne/ lui se puo\ da tanti riparare, Dardi e saette adosso li piovia; Re Sacripante sol gli da\ che fare, E li altri lo tempestan tutta via. Rotto e\ il cimer, che/ penne non appare, E il scudo fraccassato in braccio avia; L' elmo di sasso al capo li risuona, De arme lanciate ha piena la persona. Qual, stretto dalla gente e dal romore, Turbato esce il leon della foresta, Che se vergogna di mostrar timore, E va di passo torcendo la testa; Batte la coda, mugia con terrore, Ad ogni crido se volge et arresta: Tale e\ Agricane, che convien fuggire, Ma ancor fuggendo mostra molto ardire. Ad ogni trenta passi indietro volta, Sempre minaccia con voce orgogliosa; Ma la gente che il segue e\ troppo molta, Che/ gia\ per la cita\ se sa la cosa, E da ogni parte e\ qui la gente {add} co\lta. {/add; colta. Z} Ecco una schiera che se era nascosa, Esce improviso, come cosa nova, Et alle spalle a quel re se ritrova. Ma cio\ non puote quel re spaventare, Che con furia e roina se e\ addricciato. Pedoni e cavallier fa a terra andare; Prende il brando a due mane il disperato. Or quivi alquanto lo voglio lasciare, Et a Ranaldo voglio esser tornato, Che da Rocca Crudele e\ gia\ partito, E sopra al mar camina a pie\ sul lito. Cio\ me sentisti ben di sopra dire, E come riscontrato ha quella dama, Che par che di dolor voglia morire. Cortesemente quel baron la chiama, E prega lei per ogni suo desire, Per quella cosa che piu\ nel mondo ama, E per lo Iddio del celo, e per Macone, Che del suo do^l li dica la cagione. Piangendo respondia la sconsolata: #_ Io faro\ tutto il tuo voler compiuto. Oh Dio! che al mondo mai non fossi nata, Dapoi che ogni mio bene ho io perduto! Tutta la terra cerco, et ho cercata, Ne/ ancor cercando spero alcuno aiuto; Pero\ che ritrovarme e\ di mestieri Un che combatta a nove cavallieri. $_ Dicea Ranaldo: #_ Io non mi vo' dar vanto, Gia\ de duo cavallier, non che di nove; Ma il tuo dolce parlare e il tuo bel pianto Tanta pietate nel petto mi move, Che, se io non son bastante a un fatto tanto, L' ardir mi basta a voler far le prove; Siche/ del caso tuo prendi conforto, Che/ certo o vinceraggio, o sero\ morto. $_ Disse la dama: #_ A Dio ti racomando! Della proferta ti ringrazio assai; Ma tu non sei colui ch' io vo cercando, Ch' io credo ben che nol trovaro\ mai. Sappi che tra quei nove e\ il conte Orlando. Forse per fama cognosciuto l' hai; E gli altri ancor son gente de valore: Di questa impresa non avresti onore. $_ Quando Ranaldo ascolta la donzella, Et ode il conte Orlando nominare, Piacevolmente ancora a se/ l' appella, Prega che Orlando li voglia insegnare. Cosi\ da lei intese la novella De il fiume che non lascia ricordare; E il tutto li conto\ de ponto in ponto, Come Orlando con gli altri li\ fo gionto. Intende che la dama che parlava, E\ quella che parti\ da Brandimarte. Ranaldo strettamente la pregava Che lo voglia condure in quella parte; E prometteva in sua fede, e giurava Che faria tanto, o per forza o per arte, O combattendo o simulando amore, Che traria quei baron tutti di errore. Vedea la dama quel barone adatto, E di persona si\ bene intagliato, Che aconcio li pareva a ogni gran fatto, Et era ancora non vilmente armato. Ma questo canto piu\ breve vi tratto, Pero\ che l' altro vi fia prolongato Nel racontar d' una lunga novella Che a narrar prese questa damigella. Io ve ho contato la battaglia oscura, Che ancor {v} tronava {/v Z 1513; mi trona S} in {v} capo {/v Z; campo 1534} quel romore De Sacripante, che e\ senza paura, E de Agricane, il franco e alto segnore; Piu\ quella cruda voce non me dura, E dolcemente contaro\ de amore: Teneti voi, segnor, nel pensier saldo Dove io lasciai parlarvi de Ranaldo. La damisella subito dismonta, E il palafreno a lui donar voli\a. Dicea Ranaldo a lei: #_ Tu mi fai onta Ad invitarme a tanta vilania. $_ Lei rispondeva con parole pronta, Che seco a piedi mai nol menaria: Al fin, per far questa novella corta, Lui monto\ in sella e quella in groppa porta. La dama andava alquanto spaventata, Per la temenza che avea del suo onore; Ma poi che tutto il giorno ha cavalcata, Ne/ mai Ranaldo ragiono\ de amore, Alquanto nel parlar rasicurata, Disse a lui: #_ Cavallier pien di valore, Or entrar nella selva si conviene, Che cento leghe di traverso tiene. Accio\ che men te incresca il caminare Per questa selva orribile e deserta, Una novella te voglio contare, Che intravenne, et e\ ben cosa certa. In Babilonia potrai arivare, Dove la istoria manifesta e\ aperta; Pero\ (quel ch' io ti narro e\ veritade) Fu fatto dentro de quella citade. Un cavallier, che Iroldo era chiamato, Ebbe una dama nomata Tisbina; Et era lui da questa tanto amato, Quanto Tristan da Isotta la regina. Esso era ancor di lei inamorato, Che sempre, dalla sera alla mattina, E dal nascente giorno a notte oscura, Sol di lei pensa, e de altro non ha cura. Vicino ad essi un barone abitava, Di Babilonia stimato il maggiore; E certamente cio\ ben meritava, Che/ e\ di cortesia pieno e di valore. Molta ricchezza, de che egli abondava, Dispendea tutta quanta in farsi onore; Piacevol nelle feste, in l' arme fiero, Leggiadro amante e franco cavalliero. Prasildo nominato era il barone. Quello invitato e\ un giorno ad un giardino, Dove Tisbina con altre persone Faceva un gioco, in atto peregrino. Era quel gioco di cotal ragione, Che alcun li tenea in grembo il capo chino; Quella alle spalle una palma voltava: Chi quella batte a caso indivinava. Stava Prasildo a riguardare il gioco: Tisbina alle percosse l' ha invitato; Et in conclusi%on prese quel loco, Perche/ fo prestamente indivinato. Standoli in grembo, sente si\ gran foco Nel cor, che non l' avrebbe mai pensato; Per non indivinar mette ogni cura, Che/ di levarse quindi avea paura. Dapoi che il gioco e\ partito e la festa, Non parte gia\ la fiamma dal suo core, Ma tutto 'l giorno integro lo molesta, La notte lo assalisce in piu\ furore. Or quella cagion trova, et ora questa Che al volto li e\ fuggito ogni colore, Che la qui%ete del dormir gli e\ tolta, Ne/ trova loco, e ben spesso si volta; Ora li par la piuma assai piu\ dura Che non suole apparere un sasso vivo. Cresce nel petto la vivace cura, Che d' ogni altro pensiero il cor l' ha privo. Sospira giorno e notte a dismisura, Con quella affezi%on ch' io non descrivo, Perche/ descriver non se puo\ lo amore A chi nol sente e a cui non l' ha nel core. E correnti cavalli, e cani arditi, De che molto piacer prender suolia, Li sono al tutto del pensier fuggiti. Or se diletta in dolce compagnia, Spesso festeggia e fa molti conviti, Versi compone e canta in melodia, Giostra sovente, et entra in torniamenti Con gran destrieri e ricchi paramenti. E benche/ pria cortese fosse assai, Ora e\ cento per un multiplicato, Che/ la virtude cresce sempre mai, Che se ritrova in l' omo inamorato: E nella vita mia gia\ non trovai Un ben che per amor sia rio tornato; Ma Prasildo, che e\ tanto d' amor preso, Sopra a quel che se stima, fo corteso. Egli ha trovato una sua messagiera, Che avea molta amicizia con Tisbina, Che la combatte e il mattino e la sera, Ne/ per una repulsa se rafina. Ma poco viene a dir, che/ quella altiera A preghi ne/ a pietade mai se inchina; Perche/ sempre interviene in veritate Che la alterezza e\ gionta con beltate. Quante volte li disse: #" O bella dama, Cognosci l' ora della tua ventura, Dapoi che un tal baron piu\ che se/ te ama, Che/ non ha il cel piu\ vaga creatura. Forse anco avrai di questo tempo brama, Che/ il felice destin sempre non dura; Prendi diletto, mentre sei su il verde, Che/ lo avuto piacer mai non se perde. Questa eta\ giovenil che e\ si\ zoiosa, Tutta in diletto consumar si deve, Perche/ quasi in un ponto ce e\ nascosa. Come dissolve il sol la bianca neve, Come in un giorno la vermiglia rosa Perde il vago colore in tempo breve, Cosi\ fugge la eta\ come un baleno, E non se puo\ tenir, che/ non ha freno. $" Spesso con queste e con altre parole Era Tisbina combattuta in vano. Ma, quale in prato le fresche vi%ole Nel tempo freddo pallide se fano, Come il splendido giaccio al vivo sole, Cotal se disfacea il baron soprano, E condotto era a si\ malvagia sorte, Che altro ristor non spera che la morte. Piu\ non festeggia, si\ come era usato: In odio ha ogni diletto, e ancor se stesso. Palido molto e macro e\ diventato, Ne/ quel che esser suolea, pareva adesso. Altro diporto non ha ritrovato, Se non che della terra usciva spesso, E suolea solo in un boschetto andare Del suo crudele amore a lamentare. Tra l' altre volte avenne una matina Che Iroldo in quel boschetto a caccia andava, Et avea seco la bella Tisbina; E cosi\ andando, ciascuno ascoltava Pianto dirotto con voce meschina. Prasildo si\ soave lamentava, E si\ dolce parole al dir gli cade, Che avria spezzato un sasso di pietade. #" Odeti, fiori, e voi, selve, $" dicia #" Poi che quella crudel piu\ non me ascolta, Dati odi%enza alla sventura mia. Tu, sol, che hai mo del cel la notte tolta, Voi, chiare stelle, e luna che vai via, Oditi il mio dolor solo una volta: Che/ in queste voce estreme aggio a finire Con cruda morte il lungo mio marti\re. Cosi\ faro\ contenta quella altiera, A cui la vita mia tanto dispiace, Poi che ha voluto il celo un' alma fiera Coprire in viso de pietose face. Essa ha diletto che un suo servo pe\ra, Et io me occidero\, poi che li piace; Ne/ de altre cose aggio io maggior diletto, Che di poter piacer nel suo cospetto. Ma sia la morte mia, per Dio, nascosa Tra queste selve, e non se sappia mai Che la mia sorte e\ tanto dolorosa, (Ne/ mai palese non me lamentai), Che/ quella dama in vista grazi%osa Potria de crudelta\ colparsi assai; Et io cosi\ crudel l' amo a gran torto, Et amarolla ancor poi che io sia morto. $" Con piu\ parole assai se lamentava Quel baron franco, con voce tapina, E dal fianco la spada denudava, Palido assai per la morte vicina; E il suo caro diletto ognior chiamava. Morir volea nel nome di Tisbina; Che/, nomandola spesso, gli era aviso Andar con quel bel nome in paradiso. Ma essa col suo amante ha bene inteso Di quel barone il suo pianto focoso. Iroldo di pietate e\ tanto acceso, Che ne avea il viso tutto lacrimoso; E con la dama ha gia\ partito preso Di riparare al caso doloroso. Essendo Iroldo nascoso rimaso, Mostra Tisbina agionger quivi a caso. Ne/ mostra avere inteso quei richiami, Ne/ che tanto crudel l' abbia nomata; Ma, vedendol giacer tra i verdi rami, Quasi smarita alquanto se e\ firmata. Poi disse a lui: #" Prasildo, se tu me ami, Come gia\ dimostrasti averme amata, A tal bisogni non me abandonare, Perche/ altramente io non posso campare. E se io non fossi a l' ultimo partito Insieme della vita e dello onore, Io non farebbi a te cotale invito, Che/ non e\ al mondo vergogna maggiore Che a richieder colui che hai deservito. Tu m' hai portato gia\ cotanto amore, Et io fui sempre a te tanto spietata; Ma ancor col tempo te sero\ ben grata. Cio\ ti prometto su la fede mia, E gia\ de l' amor mio te fo sicuro, Pur quel ch' io cheggio da te fatto sia. Or odi, e non ti para il fatto duro: Oltra alla selva della Barbaria E\ un bel giardino, et ha di ferro il muro; In esso intrar si puo\ per quattro porte, L' una la Vita tien, l' altra la Morte, Un' altra Poverta\, l' altra Ricchezza: Convien chi ve entra, alla opposita uscire. In mezo e\ un tronco a smisurata altezza, Quanto puo\ una saetta in su salire; Mirabilmente quello arbor se apprezza, Che/ sempre perle getta nel fiorire, Et e\ chiamato il Tronco del Tesoro, Che ha pomi de smeraldi e rami d' oro. Di questo un ramo mi conviene avere, Altramente son stretta a casi gravi; Ora palese ben potro\ vedere Se tanto me ami quanto demostravi. Ma se impetro da te questo apiacere, Piu\ te amaro\ che tu me non amavi; E mia persona ti daro\ per merto Di tal servigio: tientine ben certo. $" Quando Prasildo intende la speranza Esserli data di cotanto amore, De ardire e di desio se stesso avanza, Promette il tutto senza alcun timore. Cosi\ promesso avria, senza mancanza, Tutte le stelle, il celo e il suo splendore; E l' aria tutta, con la terra e il mare, Avria promesso senza dubitare. Senza altro indugio si pone a camino, Lasciando ivi colei che cotanto ama; In abito va lui de peregrino. Or sappiati che Iroldo e la sua dama Mandavano Prasildo a quel giardino, Che l' Orto di Medusa ancor se chiama, Accio\ che il molto tempo, al longo andare, Li aggia Tisbina de l' animo a trare. Oltra di cio\, quando pur gionto sia, Era quella Medusa una donzella Che al Tronco del Tesor stava a l' ombria. Chi prima vede la sua faccia bella, Scordasi la cagion de la sua via; Ma chiunche la saluta, o li favella, E chi la tocca, e chi li sede a lato, Al tutto scorda del tempo passato. Quello animoso amante via cavalca Soletto, o ver da Amore acompagnato. Il braccio de il mar Rosso in nave varca, E gia\ tutto lo Egitto avea passato, Et era gionto nei monti di Barca, Dove un palmier canuto ebbe trovato; E ragionando assai con quel vecchione, Della sua andata dice la cagione. Diceva il vecchio a lui: #" Molta ventura Or t' ha condotto meco a ragionare; Ma la tua mente pavida assicura, Ch' io te vo' far il ramo guadagnare. Tu sol de entrare a l' orto poni cura; Ma quivi dentro assai e\ piu\ che fare: Di Vita e Morte la porta non se usa, E sol per Poverta\ viense a Medusa. Di questa dama tu non sai la istoria, Che/ ragionato non me n' hai ni%ente; Ma questa e\ la donzella che se gloria Di avere in guardia quel Tronco lucente. Chiunche la vede, perde la memoria, E resta sbigotito nella mente; Ma se lei stessa vede la sua faccia, Scorda il tesoro e de il giardin se caccia. A te bisogna un specchio aver per scudo, Dove la dama veda sua beltade. Senza arme andrai, e de ogni membro nudo, Perche/ convien entrar per Povertade. Di quella porta e\ lo aspetto piu\ crudo Che altra cosa del mondo in veritade; Che/ tutto il mal se trova da quel lato, E, quel che e\ peggio, ogni om vien caleffato. Ma a l' opposita porta, ove hai a uscire, Ritrovarai sedersi la Ricchezza, Odiata assai, ma non se gli osa a dire; Lei cio\ non cura, e ciascadun disprezza. Parte del ramo qui convienci offrire, Ne/ si passa altramente quella altezza, Perche/ Avarizia apresso lei li\ siede; Benche/ abbia molto, sempre piu\ richiede. $" Prasildo ha inteso il fatto tutto aperto Di quel giardino, e ringrazio\ il palmiero. Indi se parte e, passato il deserto, In trenta giorni gionse al bel verziero; Et essendo del fatto bene esperto, Intra per Povertate de leggiero. Mai ad alcun se chiude quella porta, Anci vi e\ sempre chi de entrar conforta. Sembrava quel giardino un paradiso Alli arboscelli, ai fiori, alla verdura. De un specchio avea il baron coperto il viso, Per non veder Medusa e sua figura; E prese nello andar si\ fatto aviso, Che all' arbor d' oro agionse per ventura. La dama, che apoggiata al tronco stava, Alciando il capo nel specchio mirava. Come se vide, fu gran meraviglia, Che/ esser credette quel che gia\ non era; E la sua faccia candida e vermiglia Parve di serpe terribile e fera. Lei {add} pau%rosa {/add; paurosa Z} a fuggir se consiglia, E via per l' aria se ne va leggiera; Il baron franco, che partir la sente, Gli occhi disciolse a se/ subitamente. Quinci ando\ al tronco, poi che era fuggita Quella Medusa, falsa incantatrice, Che, de la sua figura sbigotita, Avea lasciata la ricca radice. Prasildo un' alta rama ebbe rapita, E smonto\ in fretta, e ben si tien felice; Venne alla porta che guarda Ricchezza, Che non cura virtute o gentilezza. Tutta de calamita era la entrata, Ne/ senza gran romor se puote aprire. Il piu\ del tempo si vede serrata: Fraude e Fatica a quella fa venire. Pur se ritrova aperta alcuna fiata, Ma con molta ventura convien gire. Prasildo la trovo\ quel giorno aperta, Perche/ de mezo il ramo fece offerta. De qui partito torna a caminare; Or pensa, cavallier, se egli e\ contento, Che mai non vede l' ora de arrivare In Babilonia, e parli un giorno cento. Passa per Nubia, per tempo avanzare, E varco\ il mar de Arabia con bon vento; Si\ giorno e notte con fretta camina, Che a Babilonia gionse una matina. A quella dama fece poi assapere Come a sua volontade ha bon fin messa; E, quando voglia il bel ramo vedere, Elegia il loco e il tempo per se stessa. Ben gli ricorda ancor come e\ dovere Che li sia attesa l' alta sua promessa; E quando quella volesse disdire, Sappiasi certo di farlo morire. Molto cordoglio e pena smisurata Prese di questo la bella Tisbina; Gettasi al letto quella sconsolata, E giorno e notte di pianger non fina. #" Ahi lassa me! $" dicea #" perche/ fui nata? Che/ non moritti in cuna, piccolina? A ciascadun dolor rimedio e\ morte, Se non al mio, che e\ fuor d' ogni altra sorte. Che/ se io me uccido e manca la mia fede, Non se copre per questo il mio fallire. Deh quanta e\ paccia quella alma che crede Che Amor non possa ogni cosa compire! E celo e terra tien sotto il suo piede, Lui tutto il senno dona, e lui lo ardire. Prasildo da Medusa e\ rivenuto: Or chi l' avrebbe mai prima creduto? Iroldo sventurato, or che farai, Dapoi che avrai la tua Tisbina persa? Benche/ tu la cagion data te ne hai: Tu nel mar di sventura m' hai sumersa. Ahi me dolente! perche/ mai parlai? Perche/ non fu mia lingua alor riversa Tutta in se stessa e perse le parole, Quando impromessi quel che ora mi dole? $" Aveva Iroldo il lamento ascoltato Che facea la fanciulla sopra al letto, Pero\ che egli improviso era arivato, Et avea inteso cio\ ch' ella avea detto. Senza parlare a lei si fo accostato, Tiensela in braccio e strenge petto a petto; Ne/ solo una parola potean dire, Ma cosi\ stretti se credean morire. E sembravan duo giacci posti al sole, Tanto pianto ne li occhi gli abondava; La voce veni\a meno a le parole, Ma pur Iroldo alfin cosi\ parlava: #" Sopra a ogni altro dolore al cor mi dole Che del mio dispiacer tanto ti grava, Perche/ aver non potrebi alcun dispetto Che a me gravasse, essendo a te diletto. Ma tu cognosci bene, anima mia, Che hai tanto senno e tal discrezi%one, Che, come amor se gionge a zelosia, Non e\ nel mondo maggior {t} passi%one. {/t S; passione. Z} Or cosi\ parve alla sventura ria Ch' io stesso del mio mal fossi cagione; Io sol te indussi la promessa a fare, Lascia me solo adunque lamentare. Soletto portar debbo questa pena, Che/ ti feci fallire al tuo mal grato; Ma pregoti, per tua faccia serena E per lo amor che un tempo m' hai portato, Che la promessa attendi integra e piena, E sia Prasildo ben remeritato Della fatica e del periglio grande A che se pose per le tue dimande. Ma piacciati indugiar sin ch' io sia morto, Che sera\ solamente questo giorno. Facciami quanto vo^l Fortuna torto, Ch' io non avro\ mai, vivo, questo scorno, E nello inferno andro\ con tal conforto De aver goduto solo il viso adorno; Ma quando ancor sapro\ che me sei tolta, Morro\, se morir po^ssi, un' altra volta. $" Piu\ lungo avria ancor fatto il suo lamento, Ma la voce manco\ per gran dolore; Stava smarito e senza sentimento, Come de il petto avesse tratto il core. Ne/ avea di lui Tisbina men tormento, Et avea perso in volto ogni colore; Ma, avendo esso la faccia a lei voltata, Cosi\ rispose con voce affannata: #" Adunque credi, ingrato a tante prove, Ch' io mai potessi senza te campare? Dove e\ l' amor che me portavi, e dove E\ quel che spesso solevi iurare, Che, se tu avesti un celo, o tutti nove, Non vi potresti senza me abitare? Ora te pensi de andar nello inferno E me lasciare in terra in pianto eterno? Io fui e son tua ancor, mentre son viva, E sempre sero\ tua, poi che sia morta, Se quel morir de amor l' alma non priva, Se non e\ in tutto di memoria tolta. Non vo' che mai se dica, o mai se scriva: #+ Tisbina senza Iroldo se conforta. $+ Vero e\ che de tua morte non mi doglio, Perche/ ancora io piu\ in vita star non voglio. Tanto quella convengo differire Ch' io solva di Prasildo la promessa, Quella promessa che mi fa morire; Poi me daro\ la morte per me stessa. Con te ne l' altro mondo io vo' venire, E teco in un sepolcro sero\ messa. Cosi\ ti prego ancora, e strengo forte, Che morir meco vogli de una morte. E questo fia de un piacevol veneno, Il qual sia con tale arte temperato, Che il spirto nostro a un ponto venga meno, E sia cinque ore il tempo terminato; Che/ in altro tanto fia compiuto e pieno Quel che a Prasildo fo per me giurato. Poi con morte qui%eta estinto sia Il mal che fatto n' ha nostra {add} paci\a. {/add; pacia. Z} $" Cosi\ della sua morte ordine da\nno Quei duo leali amanti e sventurati, E col viso apoggiato insieme stanno, Or piu\ che prima nel pianto afocati, Ne/ l' un da l' altro dipartir se sanno, Ma cosi\ stretti insieme et abbracciati. Per il venen mando\ prima Tisbina Ad un vecchio dottor di medicina. Il qual diede la coppa temperata, Senz' altro dimandare alla richiesta. Iroldo, poi che assai l' ebbe mirata, Disse: #" Or su, che/ altra via non c' e\ che questa A dar ristoro a l' alma adolorata. Non mi sera\ Fortuna piu\ molesta, Che/ morte sua possanza al tutto serba: Cosi\ se doma sol quella superba. $" E poi che per mitade ebbe sorbito Sicuramente il succo venenoso, A Tisbina lo porse sbigotito. Lui non e\ di sua morte pauroso Ma non ardisce a lei far quello invito; Pero\, volgendo il viso lacrimoso, Mirando a terra, la coppa gli porse, E de morire alora stette in forse, Non del tossico gia\, ma per dolore, Che il venen terminato esser dovia. Ora Tisbina con frigido core, Con man tremante la coppa prendia, E biastemando la Fortuna e Amore, Che a fin tanto crudel li conducia, Bevette il succo che ivi era rimaso, Insino al fondo del lucente vaso. Iroldo se coperse il capo e il volto, E gia\ con gli occhi non voli\a vedere Che il suo caro desio li fosse tolto. Or se comincia Tisbina a dolere, Che/ non e\ il suo cordoglio ancor dissolto; Nulla la morte li facea al parere Il convenirgli da Prasildo gire: Questa gran doglia avanza ogni marti\re. Nulla di manco, per servar sua fede, A casa del barone essa ne e\ andata, E di parlare a lui secreto chiede: Era di giorno, e lei accompagnata. Apena che Prasildo questo crede, E fattosegli incontro in su la entrata, Quanto piu\ puote, la prese a onorare, Ne/ di vergogna sa quel che si fare. Ma poi che solo in un loco secreto Se fo con lei ridotto ultimamente, Con un dolce parlare e modo queto, E quanto piu\ sapea piacevolmente, Se forza de tornarli il viso lieto, Che lacrimoso a se/ vede presente. Lui per vergogna cio\ crede avenire, Ne/ il breve tempo sa del suo morire. Essa da lui al fin fu scongiurata, Per quella cosa che piu\ al mondo amava, Che li dicesse perche/ era turbata E di tal noglia piena si mostrava, Ad essa proferendo tutta fiata Voler morir per lei, se il bisognava; Et a risposta tanto la stringia, Che odete quel che odir gia\ non volia. Perche/ Tisbina li disse: #" Lo amore Che con tanta fatica hai guadagnato, E\ in tua possanza, e sera\ ancor quattr' ore. Per mantenirte quel che te ho giurato, Perdo la vita, et ho perso l' onore; Ma, quel ch' e\ piu\, colui che tanto ho amato Perdo con seco, e lascio questo mondo; E a te, cui tanto piacqui, me nascondo. S' io fossi stata in alcun tempo mia, Avendomi tu amata, si\ come hai, Avrei commessa gran discortesia A non averte amato pur assai; Ma io non puotevo, e non se convenia: Duo non se ponno amare, e tu lo sai; Amor non ti portai giammai, barone, Ma sempre ebbi di te compassi%one. E quello aver pieta\ della tua sorte M' ha di questa miseria centa intorno; Che/ il tuo lamento mi strense si\ forte, Allora che te odiva al bosco adorno, Che provar mi convien che cosa e\ morte, Prima che a sera gionga questo giorno. $" Con piu\ parole poi raconta a pieno Si\ come Iroldo e lei preso ha il veleno. Prasildo ha di tal doglia il cor ferito, Odendo questo che la dama dice, Che sta senza parlargli sbigotito; E dove se credeva esser felice, Vedese gionto a l' ultimo partito. Quella che del suo core e\ la radice, Colei che la sua vita in viso porta, Vedesi avanti agli occhi quasi morta. #" Non e\ piaciuto a Dio, ne/ a te, Tisbina, Della mia cortesia farne la prova, $" Dice il barone #" accioche/ una roina De amor crudele il nostro tempo trova. Gionger duo amanti di morte tapina Non era al mondo prima cosa nova; Ora tre insieme, si\ come io discerno, Seran sta sera gionti nello inferno. Di poca fede, or perche/ dubitasti Di richiedermi in don la tua promessa? Tu dici che nel bosco me ascoltasti Con gran pietade. Ahi fiera! il ver confessa, Che/ gia\ nol credo; e questa prova basti, Che, per farme morir, morta hai te stessa. Or che me sol almanco avessi spento, Ch' io non sentissi ancor di te tormento! Tanto ti spiacque ch' io te volsi amare, Crudel, che per fuggirme hai morte presa? Sasselo Idio ch' io non puote' lasciare, Benche/ io provassi, di amarte l' impresa. Me nel bosco dovevi abandonare, Se de amarme cotanto al cor ti pesa; Chi te sforzava de quel proferire Che poi con meco al fin te fa morire? Io non volevo alcun tuo dispiacere, Ne/ lo volsi giamai, ne/ il voglio adesso; Che tu me amassi cercai di ottenere, Ne/ altro da te mai chiesi per espresso. E se altrimenti ti desti a vedere, Di scoprirne la prova sei apresso, Perch' io te asolvo da ogni giuramento, E stare e andar ne puoi a tuo talento. $" Tisbina, che il baron cortese odi\a, Di lui fatta pietosa, prese a dire: #" Da te son vinta in tanta cortesia, Che per te solo io non voria morire. Volse Fortuna che altrimenti sia, Ne/ posso farti un lungo proferire, Pero\ che il viver mio debbe esser poco; Ma in questo tempo andria per te nel foco. $" Prasildo di gran doglia si\ se accese, Avendo gia\ sua morte destinata, Che le dolci parole non intese, E con mente stordita e adolorata Un bacio solamente da lei prese, Poi l' ebbe a suo piacer licenzi%ata. E lui se levo\ ancor dal suo cospetto: Piangendo forte se pose su il letto. Poi che Tisbina ad Iroldo fo gionta, Ritrovandol col capo ancora involto, La cortesia di quel baron li conta, E come solo ha un bacio da lei tolto. Iroldo dal suo letto a terra smonta, E con man gionte al celo adriccia il volto; Ingenocchiato, con molta umiltate Prega Dio per mercede e per pietate, Che Lui renda a Prasildo guiderdone Di quella cortesia dismisurata. Ma, mentre che lui fa la orazi%one, Cade Tisbina, e pare adormentata; E fece il succo la operazi%one Piu\ presto ne la dama delicata; Che/ un debil cor piu\ presto sente morte Et ogni passi%on, che un duro e forte. Iroldo nel suo viso viene un gelo, Come vede la dama a terra andare, Che avea davanti a gli occhi fatto un velo: Dormir soave, e non gia\ morte appare. Crudel chiama lui Dio, crudel il celo, Che tanto l' hanno preso ad oltraggiare; Chiama dura Fortuna, e duro Amore, Che non lo occida, et ha tanto dolore. Lascia\n dolersi questo disperato: Stimar puoi, cavallier, come egli stava. Prasildo nella ciambra se e\ serrato, E cosi\ lacrimando ragionava: #" Fu mai in terra un altro inamorato Percosso da fortuna tanto prava? Che/, se io voglio la dama mia seguire, In piccol tempo mi convien morire. Cosi\ quel dispietato avria solaccio, Che e\ tant' amaro e noi chiamiamo Amore. Pre\ndeti oggi piacer del mio gran straccio, Vien, sa\ziati, crudel, del mio dolore! Ma al tuo mal grato io ne usciro\ d' impaccio Che/ aver non posso un partito peggiore, E minor pene assai son nello inferno Che nel tuo falso regno e mal governo. $" Mentre che se lamenta quel barone, Eccoti quivi un medico arivare. Dimanda di Prasildo quel vecchione, Ma non ardisce alcuno ad esso entrare. Diceva il vecchio: #" Io, stretto da cagione, Ad ogni modo li voglio parlare; Et altramente, io vi ragiono scorto, Il segnor vostro questa sera e\ morto. $" Il camarier, che intese il caso grave, Di entrar dentro alla zambra prese ardire, (Questo teneva sempre un' altra chiave, Et a sua posta puotea entrare e uscire); E da Prasildo con parlar soave Impetra che quel vecchio voglia odire. Benche/ ne fece molta resistenza, Pur lo condusse nella sua presenza. Disse il medico a lui: #" Caro segnore, Sempremai te aggio amato e reverito; Ora ho molto sospetto, anzi timore Che tu non sia crudelmente tradito; Pero\ che zelosia, sdegno et amore, E de una dama il mobile appetito, Che/ e\ raro a tutte il senno naturale, Possono indurre ad ogni estremo male. E cio\ te dico, perche/ stamatina Me fo veneno occulto dimandato Per una cameriera de Tisbina. Or poco avanti me fu racontato Che qua ne venne a te la mala spina. Io tutto il fatto ho bene indivinato; Per te lo tolse, e tu da lei ti guarda: Lasciale tutte, che il mal fuoco l' arda. Ma non sospicar gia\ per questa volta, Che/ in veritade io non gli {add} die\ {/add; die' Z} veneno: E se quella bevanda forse hai tolta, Dormirai da cinque ore, o poco meno. Cosi\ quella malvaggia sia sepolta, Con tutte l' altre de che il mondo e\ pieno! Dico le triste, che/ in questa citate Una vi e\ bona, e cento scelerate. $" Quando Prasildo intende le parole, Par che se avivi il tramortito cuore. Come dopo la pioggia le vi%ole Se abatteno, e la rosa e il bianco fiore; Poi, quando al cel sereno appare il sole, Apron le foglie, e torna il bel colore: Cosi\ Prasildo alla lieta novella Dentro se allegra e nel viso se abella. Poi che ebbe assai quel vecchio ringraziato, A casa de Tisbina se ne andava; E, ritrovando Iroldo disperato, Si\ come stava il fatto li contava. Ora pensati se costui fu grato! Colei che piu\ che la sua vita amava, Vuol che nel tutto de Prasildo sia, Per render merto a sua gran cortesia. Prasildo ne fie' molta resistenza, Ma mal se puo\ disdir quel che se vo^le; E benche/ ciascun stesse in continenza, Come tra duo cortesi usar se suole, Pur stette fermo Iroldo alla sua intenza Sino alla fine, et in poche parole Lascia a Prasildo la dama piacente; Lui de quindi se parte incontinente. Di Babilonia se volse partire, Per non tornarvi mai nella sua vita. Da poi Tisbina se ebbe a resentire, La cosa seppe, si\ come era gita; E benche/ ne sentisse gran marti\re, E fosse alcuna volta tramortita, Pur cognoscendo che quello era gito Ne/ vi e\ remedio, prese altro partito. Ciascuna dama e\ molle e tenerina Cosi\ del corpo come della mente, E simigliante della fresca brina, Che non aspetta il caldo al sol lucente. Tutte sia\n fatte come fu Tisbina, Che non volse battaglia per ni%ente, Ma al primo assalto subito se rese, E per marito il bel Prasildo prese. $_ Parlava la donzella tutta fiata, Quando davanti a lor nel bosco folto Odirno una alta voce e smisurata. La damigella sbigotita e\ in volto, Benche/ Ranaldo l' abbia confortata. Or questo canto e\ stato lungo molto; Ma a cui dispiace la sua quantitate, Lasci una parte, e legga la mitate. Io vi dissi di sopra come odito Fu quel gran crido di spavento pieno. Di nulla se e\ Ranaldo sbigotito; Smonta alla terra, e lascia il palafreno A quella dama dal viso fiorito, Che per gran tema tutta veni\a meno; Ranaldo imbraccia il scudo, e trasse avante. La cagion di quella era un gran gigante, Che stava fermo sopra ad un sentiero, Dietro a una tomba cavernosa e oscura, Orribil di persona e viso fiero, Per spaventare ogni anima sicura. Ma non smarrite gia\ quel cavalliero, Che mai non ebbe in sua vita paura, Anci contra gli va col brando in mano; Nulla si move quel gigante altano. Di ferro aveva in pugno un gran bastone, De fina maglia e\ tutto quanto armato; Da ciascun lato li stava un grifone, Alla bocca del sasso incatenato. Or, se volete saper la cagione Che tenea quivi quel dismisurato, Dico che quel gigante in guardia avia Quel bon destrier che fu de l' Argalia. Fu il caval fatto per incantamento, Perche/ di foco e di favilla pura Fu finta una cavalla a compimento, Benche/ sia cosa fuora de natura. Questa dapoi se fie' pregna di vento: Nacque il destrier veloce a dismisura, Che erba di prato ne/ biada rodea, Ma solamente de aria se pascea. Dentro a quella spelonca era tornato, Si\ come lo disciolse Ferraguto: Pero\ che in quella prima fu creato, E chiuso in essa sempre era cresciuto. Dapoi, per forza de libro incantato, L' Argalia un tempo l' avea posseduto Fin che fu vivo; e quello ultimo giorno Fece il cavallo al suo loco ritorno. E quel gigante in sua guardia si stava, Con fronte altiera, crudo e pertinace; E seco due grifoni incatenava, Ciascun piu\ ongiuto, orribile e rapace. Quella catena a modo se ordinava, Che solver li puo\ ben quando a lui piace; Ogni grifon di quelli e\ tanto fiero, Che via per l' aria porta un cavalliero. Ranaldo alla battaglia se appresenta Con grande aviso e con molto riguardo; Ne/ crediati pero\ che il se spaventa, Perche/ vada sospeso, a passo tardo. L' alto gigante nel core argumenta Che questo sia un baron molto gagliardo; Lui scorgi\a ben ciascun, se e\ vile o forte, Che/ a piu\ de mille avea data la morte; E tutto il campo intorno biancheggiava De ossi de morti dal gigante occisi. Or la battaglia dura incominciava: Preso e\ il vantaggio e li apensati avisi. Ma colpi roi%nosi se menava: Non avea alcun di lor festa ne/ risi; Anci cognoscon ben, senza fallire, Che l' uno o l' altro qui convien morire. Il primo feritor fo il bon Ranaldo, E gionse a quel gigante in su la testa. Ma egli avea uno elmo tanto forte e saldo, Che nulla quel gran colpo lo molesta. Ora esso di superbia e de ira caldo Mena il bastone in furia con tempesta; Ranaldo al colpo riparo\ col scuto: Tutto il fraccassa quel gigante arguto. Ma non li fece per questo altro male; Ranaldo colpi\ lui con gran valore De una ferita ben cruda e mortale, Che fo nel fianco, assai vicina al core. Subitamente par che metti l' ale, Rimena l' altra con piu\ gran furore, Rompe di ponta quella forte maglia, Sino alle rene passa la anguinaglia. Per questo fo il gigante sbigotito, E vede ben che li convien morire; De le due piaghe ha un dolore infinito, Ne/ quasi in piedi se puo\ sostenire; Onde turbato prese il mal partito Di far con seco Ranaldo perire: Corre alla tana, e con molto fraccasso Dislega i duo grifon dal forte sasso. Il primo tolse quel gigante in piede, E via per l' aria con esso ne andava; Tanto e\ salito, che piu\ non se vede. L' altro verso Ranaldo se aventava, Che/ di portarsi il baron forse crede; Con le penne aruffate zuffellava, L' ale ha distese et ogni branca aperta; Ranaldo mena un colpo di Fusberta. E gia\ non prese in quel ferire errore: Ambe le branche ad un tratto tagliava. Senti\ quello uccellaccio un gran dolore; Via va cridando, e mai piu\ non tornava. Ecco di verso il celo un gran romore: L' altro grifone il gigante lasciava. Non so se campara\ di quel gran salto: Piu\ de tre mila braccia era ito ad alto. Roi%nando veni\a con gran tempesta: Ranaldo il vede giu\ del cel cadere; Pargli che al dritto venghi di sua testa, E quasi in capo gia\ sel crede avere. Lui vede la sua morte manifesta, Ne/ sa come a quel caso provedere; Per tutto ove egli fugge, o sta a guardare, Sembra il gigante in quella parte andare. E gia\ vicino a terra e\ gionto al basso: Poco e\ Ranaldo da lui dilungato, Che li cade vicino a men d' un passo. Percosse al capo quel dismisurato, E mena nel cader si\ gran fraccasso, Che tremar fece intorno tutto il prato. Tal periglio a Ranaldo e\ stato un sogno; Ora aiutilo Dio, che/ egli e\ bisogno. Pero\ che quel grifone in giu\ veni\a Ad ale chiuse, con tanto romore, Che il celo e tutta l' aria ne fremia, Et oscurava il sole il suo splendore, Cosi\ grande ombra quel campo copria: Mai non fo vista una bestia maggiore. Turpin lo scrive lui per cosa certa, Che ogni ala e\ dece braccia, essendo aperta. Ranaldo fermo il grande uccello aspetta, Ma poco tempo bisogna aspettare, Perche/, quale e\ di foco una saetta, Cotal vide il grifon sopra arivare. Lui si stava ben scorto alla vedetta; Nella sua gionta un colpo ebbe a menare: Sotto la gorga, a ponto al canaletto Gionse un traverso, e fese assai nel petto. Non fu quel colpo troppo aspro e mortale, Pero\ che al suo voler non l' ebbe co\lto; Quel torna al cel battendo le grande ale, E furi%oso ancor giu\ se e\ rivolto. Gionse ne l' elmo quel fiero animale, E il cerchio con lo ungion tutto ha disciolto, Ne/ 'l rompe, ne/ lo intacca, tanto e\ fino! Lo elmo e\ fatato, e gia\ fo di Mambrino. Su vola spesso, e giu\ torna a ferire; Ranaldo non la puote indovinare, Che una sol volta lo possa colpire. Stava la donna la pugna a guardare, E di paura se credea morire, Non gia\ di se/, che non gli avia a pensare, Ne/ de esser quivi lei se ricordava: Del baron teme, e sol per lui pregava. Per la notte vicina il giorno oscura, E la battaglia ancora pur durava. Di questo sol Ranaldo avea paura, De non veder la bestia che volava; Onde per trarne fin pone ogni cura, Ogni partito in l' animo pensava; Al fin non trova quel che debba fare, Poi che per l' aria lui non puote andare. Alfin su il prato tutto se distende Giu\ riversato, come fusse morto; Quello uccellaccio subito discende, Che/ non si fu di tale inganno accorto, Et a traverso con le branche il prende. Stava Ranaldo in su lo aviso scorto; Non fu si\ presto da l' uccel gremito, Che meno\ il brando il cavalliero ardito. Proprio sopra alla spalla il colpo serra, E nervi e l' osso Fusberta fraccassa; Di netto una ala li mando\ per terra, Ma per questo la fiera gia\ nol lassa. Con ambedue le grife il petto afferra, E sbergo e maglia e piastra tutte passa E l' uno e l' altro ungion strenge si\ forte, Che pare a quel baron sentir la morte. Ma non per tanto lascia de ferire; Or nella pancia il passa or nel gallone, Di tante ponte, che il fece morire; Poi si levava in piede quel barone. Gran periglio ha portato, a non mentire; Lui Dio ringrazia con devozi%one; E gia\ la dama al palafren lo invita, Parendo a lei la cosa esser finita. Ma Ranaldo quel loco avia veduto, Dove stava il destrier meraviglioso; Se non avesse il fatto a pien saputo, Seri\a stato in sua vita doloroso. Era quel sasso orribile et arguto: Dentro vi passa il principe animoso; Da cento passi vicino alla intrata Era di marmo una porta intagliata. Di smalto era adornata quella porta, Di perle e di smiraldi, in tal lavoro Che non fu mai da uno occhio d' omo scorta Cosa de un pregio di tanto tesoro. Stava nel mezo una donzella morta, Et avea scritto sopra in lettre d' oro: ## Chi passa quivi, ara\ di morte stretta, Se non giura di far la mia vendetta; Ma se giura lo oltraggio vendicare, Che mi fu fatto con gran tradimento, Avra\ quel bon destriero a cavalcare, Che di veloce corso passa il vento. $# Or non stette Ranaldo piu\ a pensare, Ma a Dio promette, e fanne giuramento, Che quanta vita e forza l' avra\ scorto, Vendichera\ la dama occisa a torto. Poi passa dentro, e vede quel destriero, Che de catena d' oro era legato, Guarnito aponto a cio\ che fa mestiero, Di bianca seta tutto copertato. Egli come un carbone e\ tutto nero, Sopra la coda ha pel bianco meschiato; Cosi\ la fronte ha partita de bianco, La ungia di dietro ancora al pede manco. Destrier del mondo con questo si vanta Correre al paro, e non ne tro Baiardo, Del qual per tutto il mondo oggi si canta. Quello e\ piu\ forte, destro e piu\ gagliardo; Ma questo aveva leggierezza tanta, Che dietro a se/ lasciava un sasso, un dardo, Uno uccel che volasse, una saetta, O se altra cosa va con maggior fretta. Ranaldo fuor di modo se allegrava Di aver trovato tanto alta ventura; Ma la catena a un libro se chiavava, Che avea di sangue tutta la scrittura. Quel libro, a chi lo legge, dichiarava Tutta la istoria e la novella oscura Di quella dama occisa su la porta, Et in che forma, e chi l' avesse morta. Narrava il libro come Trufaldino, Re di Baldaco, falso e maledetto, Aveva un conte al suo regno vicino, Ardito e franco, e de virtu\ perfetto; Et era tanto de ogni lodo fino, Che il re malvaggio n' avea gran dispetto. Fo quel baron nominato Orrisello; Montefalcone ha nome il suo castello. Avea il conte Orrisello una sorella, Che de tutt' altre dame era l' onore, Perche/ e\ di viso e di persona bella; Di leggiadria, di grazia e di valore Se alcuna fo compita, lei fu quella. Essa portava a un cavalliero amore, Nobil di schiatta e famoso de ardire, Leggiadro e bello a piu\ non poter dire. Il sol, che tutto 'l mondo volta intorno, Non vedea un altro par de amanti in terra Si\ de beltade e de ogni lode adorno. Una voglia, uno amor questi duo serra, E cresce ogniora piu\ di giorno in giorno. Or Trufaldino a possanza di guerra Mai non puotria pigliar Montefalcone, Che/ sua fortezza e\ fuor de ogni ragione. Sopra de un sasso terribile e duro, Un miglio ad alto, per stretto sentiero, Se perveniva al smisurato muro; Ne/ a questo s' apressava di leggiero, Perche/ un profondo fosso e largo e scuro Volge il castello intorno tutto intiero; Ciascuna porta ove dentro si vane, Ha di tre torre fuora un barbacane. Con incredibil cura si guardava Questa fortezza de il franco Orrisello; Lui temea Trufaldin che lo odi%ava, E fatto ha gia\ piu\ assalti a quel castello, E con vergogna sempre ritornava. Or sapeva quel re de ogni altro fello Che la sorella del conte, Albarosa, Polindo amava sopra ogni altra cosa. Polindo il cavallier e\ nominato, Albarosa la dama delicata, Quella de che aggio sopra ragionato Che amava tanto, et era tanto amata. Ora quel cavalliero inamorato Andava alla ventura alcuna fiata, Cercando e regni per ogni confino: In corte si trovo\ di Trufaldino. Era quel re malvaggio e traditore, Ciascuna cosa sapea simulare: A Polindo faceva molto onore, Con gran proferte e cortese parlare; E prometteli aiuto e gran favore, Quando Albarosa voglia conquistare. Diversa cosa e\ lo amor veramente! Teme ciascuno, e crede ad ogni gente. Chi altri mai che Polindo avria creduto A quel malvaggio mancator di fede, Che cosi\ da ciascuno era tenuto? Il cavallier nol stima e cio\ non crede; Anci di avere il proferito aiuto Sempre procaccia, e mai l' ora non vede Che Albarosa la bella tenga in braccio; E de altra cosa non se dona impaccio. Poi che la dama fu tentata in vano Che dentro dalla rocca toglia gente, A Polindo promette e giura in mano Una notte partirse quietamente, Al pie\ del sasso scender gioso al piano, Et esserli in sua vita obedi%ente, Andar con lui, e far tutte sue voglie: Esso promette a lei tuorla per moglie. L' ordine dato se pone ad effetto. Avea gia\ Trufaldin prima donata A Polindo una rocca da diletto, Longe a Montefalcone una giornata. Qui dentro intrarno senza altro rispetto Quel cavalliero e la giovene amata. Cenando insieme con gran festa e riso, Eccoti Trufaldin quivi improviso. Vaga fortuna, mobile et incerta, Che alcun diletto non lascia durare! Sotto la terra e\ una strata coperta, Per quella nella rocca se puo\ andare. Avea il malvaggio questa cosa esperta, Percio\ li volse la rocca donare. Cosi\ cenando, e doi de amore accesi Fuor de improvviso crudelmente presi. Polindo di parlar gia\ non ardiva, Per non far seco la dama perire; Ma di grande ira e rabbia se moriva, Che/ non puo\ a Trufaldin sua voglia dire. Quel re comanda alla dama che scriva Al suo german che a lei debba venire, Fingendo che Polindo l' ha menata Dentro a una selva grande e smisurata; E quivi a forza rinchiusa la tene, Sotto la guarda di tre suoi famigli; Ma se lui quivi secreto ne viene, Vo^l che Polindo e quelli insieme pigli; Che le cagion diragli intiere e piene Di sua partita, e non se meravigli; Che poi lo chiarira\ che il suo camino Campato ha lui di man di Trufaldino. La dama dice de voler morire Piu\ presto che tradire il suo germano; Ne/ per minaccie o per piacevol dire Puo\ far che prenda pur la penna in mano. Il re fa incontinente qui venire Un tormento aspro, crudo et inumano, Che con ferro affocato e membri straccia: Quella fanciulla prende nella faccia. Nella faccia piglio\ col ferro ardente: Non se lamenta lei, ne/ getta voce; Alla richiesta risponde ni%ente. Quel focoso tormento assai piu\ coce Polindo, che vi stava di presente; E benche/ fosse de animo feroce, E de uno alto ardir pieno in veritate, Pur cade in terra per molta pietate. Narrava il libro tutte queste cose, Ma piu\ destinto, e con altre parole; Che/ vi erano atti con voci pietose, E quel dolce parlar che usar se suole Tra l' anime congionte et amorose. Eravi che Polindo assai se dole Piu\ de Albarosa che del proprio male; E lei fa del suo amante un altro tale. Legge Ranaldo quella istoria dura, E molto pianto da gli occhi li cade; Nel viso se conturba sua figura Per quell' estremo caso de pietade. Una altra fiata sopra al libro giura Di vendicar quella aspra crudeltade; E torna fuora il cavallier soprano Con quel destrier che ha nome Rabicano. Sopra di quello e\ il cavallier salito, E via cavalca con la damisella, Ma poco anda^r, e il giorno fo sparito: Ciascun di lor dismonta dalla sella. Sotto ad uno albro e\ Ranaldo adormito, Dorme vicino a lui la dama bella; Lo incanto della Fonte de Merlino Ha tolto suo costume al paladino. Ora li dorme la dama vicina: Non ne piglia il barone alcuna cura. Gia\ fo tempo che un fiume e una marina Non avrian posto al suo desio misura; A un muro, a un monte avria data roina Per star congionto a quella creatura; Or li dorme vicina e non gli cale: A lei, credo io, ne parve molto male. Gia\ l' aria se schiariva tutta intorno Abenche/ il sole ancor non se mostrava; Di alcune stelle e\ il cel sereno adorno, Ogni uccelletto agli arbori cantava; Notte non era, e non era ancor giorno. La damisella Ranaldo guardava, Pero\ che essa al mattino era svegliata; Dormia il barone a l' erba tutta fiata. Egli era bello et allor giovenetto, Nerboso e asciutto, e de una vista viva, Stretto ne' fianchi e membruto nel petto: Pur mo la barba nel viso scopriva. La damisella il guarda con diletto, Quasi, guardando, di piacer moriva; E di mirarlo tal dolcezza prende, Che altro non vede et altro non attende. Sta quella dama di sua mente tratta, Guardandosi davanti il cavalliero. Or dentro quella selva aspra e disfatta Stava un centauro terribile e fiero; Forma non fo giamai piu\ contrafatta, Pero\ che aveva forma di destriero Sino alle spalle, e dove il collo uscia E corpo e braccie e membra d' omo avia. De altro non vive che di cacciasone, Per quel deserto che e\ si\ grande e strano; Tre dardi aveva e un scudo e un gran bastone, Sempre cacciando andava per quel piano; Alora alora avea preso un leone, E cosi\ vivo sel portava in mano. Rugge il leone e fa gran dimenare; Per questo se ebbe la dama a voltare, Et altramenti sopra li giongi\a Tutto improviso il diverso animale. E forse che Ranaldo occiso avria: Molto comodo avia di farli male. La damisella un gran crido mettia: #_ Donaci aiuto, o Re celesti%ale! $_ A quel crido se desta il baron pronto, E gia\ il centauro e\ sopra di lor gionto. Ranaldo salta in piede e il scudo imbraccia, Benche/ il gigante l' avea fraccassato; E quel centauro di spietata faccia Getta il leon, che gia\ l' ha strangolato. Ranaldo adosso a lui tutto se caccia: Quel fugge un poco, e poi se e\ rivoltato, E con molta roina lancia un dardo; Stava Ranaldo con molto riguardo, Si\ che nol puote a quel colpo ferire. Or lancia l' altro con molta tempesta; L' elmo scampo\ Ranaldo dal morire, Che/ proprio il gionse a mezo della testa; L' altro ancor getta, e nol puote colpire. Ma gia\ per questo la pugna non resta, Perche/ il centauro ha preso il suo bastone, E va saltando intorno al campi%one. Tanto era destro, veloce e leggiero, Che Ranaldo se vede a mal partito; Lo esser gagliardo ben li fa mestiero. Quello animal il tien tanto assalito, Che apressar non se puote al suo destriero; Girato ha tanto, che quasi e\ stordito. A un grosso pin se accosta, che non tarda: Questo col tronco a lui le spalle guarda. Quello omo contrafatto e tanto strano Saltando va de intorno tuttavia; Ma il principe, che avia Fusberta in mano, Discosto a sua persona lo {add} tenia. {/add; teni\a. Z} Vede il centauro afaticarsi in vano, Per la diffesa che il baron faci\a; Guarda alla dama dal viso sereno, Che di paura tutta veni\a meno. Subitamente Ranaldo abandona, E leva dello arcion quella donzella; Fredda nel viso e in tutta la persona Alor divenne quella meschinella. Ma questo canto piu\ non ne ragiona; Ne l' altro contaro\ la istoria bella Di questa dama, e quel ch' io dissi avante, Tornando ad Agricane e Sacripante. Aveti inteso la battaglia dura Che fa Ranaldo, la persona accorta, E come la diversa creatura Prese la dama, e in groppa se la porta. Non domandati se ella avea paura: Tutta tremava, e in viso parea morta; Ma pur, quanto la voce li bastava, Al cavalliero aiuto dimandava. Via va correndo lo animal legiero Con quella dama in groppa scapigliata; A lei sempre ha rivolto il viso fiero, Et a se/ stretta la tiene abracciata. Or Ranaldo se accosta al suo destriero; Ben se a^gura Baiardo in quella fiata, Che/ quel centauro e\ tanto longe assai, Che averlo gionto non se crede mai. Ma poi che ha preso in man la ricca briglia Di quel destrier che al corso non ha pare, De esser portato da il vento asimiglia: A lui par proprio di dover volare. Mai non fu vista una tal meraviglia; Tanto con l' occhio non se puo\ guardare Per la pianura, per monte e per valle, Quanto il destrier se il lascia dalle spalle. E non rompeva l' erba tenerina, Tanto ne andava la bestia legiera; E sopra alla rugiada matutina Veder non puossi se passato vi era. Cosi\, correndo con quella roina, Gionse Ranaldo sopra una rivera, Et allo entrar de l' acqua, a ponto a ponto, Vede il centauro sopra al fiume gionto. Quel maledetto gia\ non l' aspettava, Ma, via fuggendo, nequitosamente La bella dama nel fiume gettava: Giu\ ne la porta il fiumicel corrente. Che di lei fosse, e dove ella arivava, Poi lo odirete nel canto presente; Ora il centauro a quel baron se volta, Poi che di groppa se ha la dama tolta; E cominciorno a l' acqua la battaglia, Con fiero assalto, dispietato e crudo; Vero e\ che il bon Ranaldo ha piastra e maglia, E quel centauro e\ tutto quanto nudo: Ma tanto e\ destro e mastro de scrimaglia, Che coperto se tien tutto col scudo; E il destrier del segnor de Montealbano Corrente e\ assai, ma mal presto alla mano. Grosso era il fiume al mezo dello arcione, De sassi pieno, oscuro e roi%noso. Mena il centauro spesso del bastone, Ma poco no^ce al baron valoroso, Che gioca di Fusberta a tal ragione Che tutto quello ha fatto sanguinoso; Tagliato ha il scudo il cavalliero ardito, E gia\ da trenta parte l' ha ferito. Esce del fiume quello insanguinato, Ranaldo insieme con Fusberta in mano, Ne/ se fu da lui molto dilungato, Che gionto l' ebbe quel destrier soprano; Quivi lo occise sopra al verde prato. Or sta pensoso il sir de Montealbano, Non sa che far, ne/ in qual parte se vada: Persa ha la dama, guida de sua strada. A se/ d' intorno la selva guardava, E sua grandezza non puotea stimare; La speranza de uscirne gli mancava, E quasi adrieto volea ritornare, Ma tanto ne la mente desi%ava Da quello incanto il conte Orlando trare, Che sua ventura destina finire, O, questa impresa seguendo, morire. Ver Tramontana prende la sua via, Dove il guidava prima la donzella; Et ecco ad una fonte li apparia Un cavalliero armato in su la sella. Or Turpin lascia questa diceria, E torna a raccontar l' alta novella Del re Agricane, quel tartaro forte, Che e\ chiuso in Albraca\ dentro alle porte. Dentro a quella citade era rinchiuso, E fa soletto quella ardita guerra: Il popol tutto quanto ha lui confuso. Sappiati che Albraca\, la forte terra, Da uno alto sasso calla al fiume giuso, E da ogni lato un mur la cinge e serra, Che se dispicca da il castello altano, Volgendo il sasso insino al monte piano. Sopra del fiume ariva la murata, Con grosse torre e belle a riguardare. Quella fiumana Drada e\ nominata, Ne/ estate o verno mai se puo\ vargare. Una parte del muro e\ qui cascata: Quei della terra non hanno a curare, Che/ il fiume e\ tanto grosso e si\ corrente, Che di battaglia non temon ni%ente. Ora io vi dissi si\ come Agricane Fa la battaglia dentro alla citate; Re Sacripante e\ con seco alle mane, Con gente della terra in quantitate. Prove se fier' dignissime e soprane Per l' uno e l' altro, e sopra l' ho narrate; E lasciai proprio che una schiera nova Dietro alle spalle de Agrican se trova. Nulla ne cura quel re valoroso, Ma con molta roina e\ rivoltato; Mena a due mane il brando sanguinoso. Questo novo trapel che ora e\ arivato, Era un forte barone et animoso, Torindo il Turco, che era ritornato Con molta di sua gente in compagnia; Per altre parte gionse a questa via. Quel tartaro ne' Turchi urta Baiardo, Getta per terra tutta quella gente; Ora ecco Sacripante, il re gagliardo, Che l' ha seguito continu%amente. Tanto non e\ legier cervo ni pardo, Quanto e\ quel re circasso veramente; Non vale ad Agrican sua forza viva, Tanta e\ la gente che adosso gli ariva. Gia\ son le bocche delle strate prese, Chiuse con travi, et ogni altra serraglia; Le schiere dalle mure son discese, E corre ciascaduno alla battaglia: Non vi rimase alcuno alle diffese. Or quei del campo, quella gran canaglia, Chi per le mure intro\, chi per le porte, Tutti cridando: #_ Alla morte! alla morte! $_ Onde fu forza a l' aspro Sacripante Et a Torindo alla rocca venire; Angelica gia\ dentro era davante, E Trufaldin, che fo il primo a fuggire. Morte son le sue gente tutte quante; La grande occisi%on non se puo\ dire: Morto e\ Varano, e prima Savarone, Re della Media, franco campi%one. Morirno questi fora delle porte, Dove la gran battaglia fo nel piano. Brunaldo ebbe sua fine in altra sorte: Radamanto lo occise de sua mano. Quel Radamanto ancor diede la morte Dentro alle mura al valoroso Ungiano; Tutta la gente di sua compagnia Fo il giorno occisa alla battaglia ria. E tutta la citate hanno gia\ presa: Mai non fu vista tal compassi%one. La bella terra da ogni parte e\ incesa, E sono occise tutte le persone; Sol la rocca di sopra se e\ diffesa Ne l' alto sasso, dentro dal zirone: Tutte le case in ciascuno altro loco Vanno a roina, e son piene di foco. La damisella non sa che si fare, Poi che e\ condotta a cosi\ fatto scorno; In quella rocca non e\ che mangiare, Apena evi vivande per un giorno. Chi l' avesse veduta lamentare E battersi con man lo viso adorno, Uno aspro cor di fiera o di dragone Seco avria pianto di compassi%one. Dentro alla rocca son tre re salvati Con la donzella, e trenta altre persone, Per la piu\ parte a morte vulnerati. La rocca e\ forte fora di ragione, Onde tra lor se son deliberati Che ciascuno occidesse il suo ronzone, E far contra de' Tartari contesa, Sin che Dio li mandasse altra diffesa. Angelica dapoi prese partito Di ricercare in questo tempo aiuto; Lo annel meraviglioso aveva in dito, Che chi l' ha in bocca, mai non e\ veduto. Il sol sotto la terra ne era gito, E il bel lume del giorno era perduto: Torindo e Trufaldino e Sacripante La damisella a se/ chiama davante. A lor promette sopra alla sua fede In vinti giorni dentro ritornare, E tutti insieme e ciascadun richiede Che sua fortezza vogliano guardare; Che forse avra\ Macon di lor mercede, Perche/ essa andava aiuto a ricercare Ad ogni re del mondo, a ogni possanza, Et ottenerlo avia molta speranza. E cosi\ detto, per la notte bruna La damisella monta al palafreno, Via camminando al lume della luna, Tutta soletta, sotto al cel sereno. Mai non fo vista da persona alcuna, Benche/ di gente fosse intorno pieno; Ma a questi la fatica e la vittoria Li avea col sonno tolto ogni memoria. Ne/ bisogno ebbe di adoprar lo annello, Che/, quando il sol lucente fo levato, Ben cinque leghe e\ longe dal castello, Che era da' suoi nemici intorni%ato. Lei sospirando riguardava quello, Che con tanto periglio avea lasciato; E cosi\ caminando tutta via, Passata ha Orcagna, e gionse in Circasia. Gionse alla ripa di quella rivera, Dove il franco Ranaldo occiso avia Lo aspro centauro, maledetta fiera. Come la dama nel prato giongia, Un vecchio assai dolente nella ciera Piangendo forte contro a lei veni\a, E con man gionte ingenocchion la chiede Che del suo gran dolore abbia mercede. Diceva quel vecchione: #_ Un giovenetto, Conforto solo a mia vita tapina, Mio unico figliolo e mio diletto, Ad una casa che e\ quindi vicina, Con febre ardente se iace nel letto, Ne/ per camparlo trovo medicina; E se da te non prende adesso aiuto, Ogni speranza e mia vita rifiuto. $_ La damigella, che e\ tanto pietosa, Comincia il vecchio molto a confortare: Che lei cognosce l' erbe et ogni cosa Qual se apertenga a febre medicare. Ahi sventurata, trista e dolorosa! Gran meraviglia la fara\ campare. La semplicetta volge il palafreno Dietro a quel vecchio, che e\ de inganni pieno. Ora sappiati che il vecchio canuto, Che in quella selva stava alla campagna, Per prender qualche dama era venuto, Come se prende lo uccelletto a ragna; Per cio\ che ogni anno dava di tributo Cento donzelle al forte re de Orgagna. Tutte le prende con inganno e scherno, E prese poi le manda a Poliferno. Pero\ che ivi lontano a cinque miglia Sopra de un ponte una torre e\ fondata: Mai non fo vista tanta meraviglia, Che/ ogni persona che e\ quivi arivata, Dentro a quella pregion se stesso piglia. Quivi n' avea il vecchio gran brigata, Che tutte l' avea prese con tale arte, Fuor quella sol che fu di Brandimarte. Pero\ che quella, come io vi contai, Fo dal centauro gettata nel fiume. Essa nel fondo non ando\ giamai, Pero\ che de natare avea costume. Quella onda, che e\ corrente pur assai, Giu\ ne la mena, come avesse piume; Al ponte la porto\, che mai non tarda, Dove la torre e\ de quel vecchio in guarda. Lui dal fiume la trasse meza morta, E fecela curar con gran ragione Da quella gente che avea seco in scorta, Che/ medici li\ aveva, e piu\ persone; Poi la condusse dentro a quella porta, Dove con l' altre stava alla pregione. De Angelica diciamo, che veni\a Con quel falso vecchione in compagnia. Come alla torre fo dentro passata, Quel vecchio fora nel ponte restava. Incontinente la porta ferrata, Senza che altri la tocchi, se serrava. Alor se avide quella sventurata Del falso inganno, e forte lamentava; Forte piangia, battendo il viso adorno: L' altre donzelle a lei son tutte intorno. Cercano tutte con dolce parole La dolorosa dama confortare; E, come in cotal caso far si so^le, Ciascuna ha sua fortuna a racontare; Ma sopra a l' altre piangendo si dole, Ne/ quasi puo\ per gran doglia parlare, De Brandimarte la saggia donzella, Che Fiordelisa per nome se appella. Lei sospirando conta la sciagura Di Brandimarte da lei tanto amato: Come, andando con essa alla ventura, Fo con Astolfo al giardino arrivato, Dove tra fiori, a la fresca verdura, L' ha Dragontina ad arte smemorato; E, in compagnia de Orlando paladino, Sta con molti altri presi nel giardino. E come essa dapoi, cercando aiuto, Se gionse con Ranaldo in compagnia; E tutto quel che gli era intravenuto, Senza mentire, a ponto lo dicia; E del gigante, e del grifone ungiuto, E de Albarosa la gran villania, E del centauro al fin, bestia diversa, Che l' avia dentro a quel fiume sumersa. Piangeva Fiordelisa a cotal dire, Membrando l' alto amor de che era priva. Eccoti odirno quella porta aprire, Che un' altra dama sopra al ponte ariva. Angelica destina di fuggire; Gia\ non la puo\ veder persona viva: Lo incanto dello annel si\ la coperse, Che fuora usci\, come il ponte se aperse. Non fo vista da alcuno in quella fiata, Tanta e\ la forza dello incantamento; E fra se stessa, andando, e\ssi apensata E fatto ha nel suo cor proponimento Di voler gire a quella acqua fatata Che tira l' omo fuor de sentimento, La\ dove Orlando et ogni altro barone Tien Dragontina alla dolce prigione. E caminando senza alcun riposo, Al bel verzier fo gionta una matina. In bocca avia lo annel meraviglioso: Per questo non la vede Dragontina. Di fora aveva il palafreno ascoso, Et essa a piede fra l' erbe camina, E caminando, a lato ad una fonte, Vede iacerse armato il franco conte. Perche/ la guarda faceva quel giorno, Stavasi armato a lato alla fontana. Il scudo a un pino avea sospeso e il corno; E Brigliadoro, la bestia soprana, Pascendo l' erbe gli girava intorno. Sotto una palma, a l' ombra prossimana, Un altro cavallier stava in arcione: Questo era il franco Oberto dal Leone. Non so, segnor, se odisti piu\ contare L' alta prodezza de quel forte Oberto; Ma fu nel vero un baron de alto affare, Ardito e saggio, e de ogni cosa esperto. Tutta la terra intorno ebbe a cercare, Come se vede nel suo libro aperto. Costui facea la guarda alora quando Gionse la dama a lato al conte Orlando. Il re Adri%ano e lo ardito Grifone Stan ne la loggia a ragionar de amore; Aquilante cantava e Chiari%one, L' un dice sopra, e l' altro di tenore; Brandimarte fa contra alla canzone. Ma il re Ballano, ch' e\ pien di valore, Stassi con Antifor de Albarosia: De arme e di guerra dicon tutta via. La damisella prende il conte a mano, Et a lui pose quello annello in dito, Lo annel che fa ogni incanto al tutto vano. Or se e\ in se stesso il conte risentito, E scorgendosi presso il viso umano Che gli ha de amor si\ forte il cor ferito, Non sa come esser possa, e apena crede Angelica esser quivi, e pur la vede. La damisella tutto il fatto intese: Si\ come nel giardino era venuto, E come Dragontina a inganno il prese, Alor che ogni ricordo avia perduto. Poi con altre parole se distese, Con umil prieghi richiedendo aiuto Contra Agricane, il qual con cruda guerra Avea spianata et arsa la sua terra. Ma Dragontina, che al palagio stava, Angelica ebbe vista giu\ nel prato. Tutti e suoi cavallier presto chiamava, Ma ciascun se ritrova disarmato. Il conte Orlando su l' arcion montava, Et ebbe Oberto ben stretto pigliato, Avengache/ da lui quel non se guarda; Lo annel li pose in dito, che non tarda. E gia\ son accordati i duo guerrieri Trar tutti gli altri de incantazi%one. Or quivi racontar non e\ mestieri Come fosse nel prato la tenzone. Prima fo^r presi i figli de Olivieri, L' uno Aquilante, e l' altro fo Grifone; Il conte avante non li cognoscia: Non dimandati se allegrezza avia. Grande allegrezza ferno i duo germani, Poi che se fo l' un l' altro cognosciuto. Or Dragontina fa lamenti insani, Che/ vede il suo giardino esser perduto. Lo annel tutti e suoi incanti facea vani: Sparve il palagio, e mai non fo veduto; Lei sparve, e il ponte, e il fiume con tempesta: Tutti e baron restarno alla foresta. Ciascun pien di stupor la mente avia, E l' uno e l' altro in viso si guardava; Chi si\, chi non, di lor se cognoscia. Primo di tutti il gran conte di Brava Fece parlare a quella compagnia, E ciascadun, pregando, confortava A dare aiuto a quella dama pura, Che li avea tratti di tanta sciagura. Raconta de Agricane il grande attedio, Che avea disfatta sua bella citade, Et intorno alla rocca avia lo assedio. Gia\ son quei cavallier mossi a pietade, E giura^r tutti di porvi rimedio, In sin che in man potran tenir le spade, E di fare Agricane indi partire, O tutti insieme in Albraca morire. Gia\ tutti insieme son posti a camino, Via cavalcando per le strate scorte. Ora torniamo al falso Trufaldino, Che dimorava a quella rocca forte. Lui fu malvagio ancor da piccolino, E sempre peggioro\ sino alla morte; Non avendo i compagni alcun suspetto, Prese e Cercassi e i Turchi tutti in letto. Non valse al bon Torindo esser ardito, Ne/ sua franchezza a l' alto Sacripante, Che/ ciascadun de loro era ferito Per la battaglia de il giorno davante, E per sangue perduto indebilito; E fur presi improvisi in quello istante. Legolli Trufaldino e piedi e braccia, E de una torre al fondo ambi li caccia. Poi manda un messagiero ad Agricane, Dicendo che a sua posta et a suo nome Avia la rocca e il forte barbacane, E che due re {add} tenia {/add; teni\a Z} legati; e come Volea donarli presi in le sue mane. Ma il Tartaro a quel dire alcio\ le chiome; Con gli occhi accesi e con superba faccia, Cosi\ parlando, a quel messo minaccia: #_ Non piaccia a Trivigante, mio segnore, Ne/ per lo mondo mai se possa dire Che allo esser mio sia mezo un traditore: Vincer voglio per forza e per ardire, Et a fronte scoperta farmi onore. Ma te con il segnor faro\ pentire, Come ribaldi, che aviti ardimento Pur far parole a me di tradimento. Bene aggio avuto avviso, e certo sollo, Che non se puo\ tenir lunga stagione; A quella rocca impender poi farollo, Per un de' piedi, fuora de un balcone, E te col laccio ataccaro\ al suo collo; E ciascadun li e\ stato compagnone A far quel tradimento tanto scuro, Sera\ de intorno impeso sopra al muro. $_ Il messagier, che lo vedea nel volto Or bianco tutto, or rosso come un foco, Ben se serebbe volentier via tolto, Che/ gionto si vedeva a strano gioco; Ma, sendosi Agricane in la\ rivolto Partisse de nascoso di quel loco. Par che il nabisso via fuggendo il mene; De altro che rose avea le brache piene. Dentro alla rocca ritorna tremando, E fece a Trufaldin quella ambasciata. Ora torniamo al valoroso Orlando, Che se ne vien con l' ardita brigata, E giorno e notte forte cavalcando, Sopra de un monte ariva una giornata: Dal monte se vedea, senza altro inciampo, La terra tutta e de' nimici il campo. Tanta era quivi la gente infinita, E tanti pavaglion, tante bandiere, Che Angelica rimase sbigotita, Poi che passar convien cotante schiere Prima che nel castel faccia salita. Ma quei baron driccia^r le mente altiere, E destinarno che la dama vada Dentro alla rocca per forza di spada. E nulla sapean lor del tradimento, Che il falso Trufaldin fatto li avia; Ma sopra al monte, con molto ardimento, Da\nno ordine in qual modo et in qual via La dama se conduca a salvamento A mal dispetto di quella zinia. Guarniti de tutte arme e suo' destrieri, Fan lo consiglio li arditi guerreri. Et ordina^r la forma e la maniera Di passar tutta quella gran canaglia. Il conte Orlando e\ il primo alla frontera Con Brandimarte a intrare alla battaglia: Poi son quattro baroni in una schiera, Che de intorno alla dama fan serraglia: Oberto et Aquilante e Chiari%one, E il re Adri%ano e\ il quarto compagnone. Quelli hanno ad ogni forza e vigoria Tenir la dama coperta e diffesa. Poi son tre, gionti insieme in compagnia, Che della drietoguarda hanno la impresa: Grifone et Antifor de Albarosia, E il re Ballano, quella anima accesa. Or questa schiera e\ si\ de ardire in cima, Che tutto il resto del mondo non stima. Calla de il monte la gente sicura, Con Angelica in mezo di sua scorta, La qual tutta tremava de paura, E la sua bella faccia pari\a morta; E gia\ son giunti sopra alla pianura, Ne/ si e\ di loro ancor la gente accorta. Ma il conte Orlando, cavalliero adorno, Alcia la vista, e pone a bocca il corno. A tutti quanti li altri era davante, E suonava il gran corno con tempesta: Quello era un dente integro di elefante. Lo ardito conte de suonar non resta; Disfida quelle gente tutte quante, Agrican, Poliferno e ogni sue gesta: E tutti insieme quei re di corona Isfida a la battaglia, e forte suona. Quando fu il corno nel campo sentito, Che in ciel feriva con tanto rumore, Non vi fu re, ne/ cavalliero ardito Che non avesse di quel suon terrore; Solo Agricane non fu sbigotito, Che fu corona e pregio di valore; Ma con gran fretta l' arme sue dimanda, E fa sue schiere armar per ogni banda. Fu in gran fretta il re Agricane armato: Di grosse piastre il sbergo se vestia, Tranchera la sua spada cense al lato, E uno elmo fatto per nigromanzia Al petto et a le spalle ebbe alacciato. Cosa piu\ forte al mondo non avia: Salomone il fie' far col suo quaderno, E fu collato al foco dello inferno. E veramente crede il campi%one Che una gran gente mo li viene adosso, Pero\ ch' inteso avia che Galafrone Esercito adunava a piu\ non posso, Perche/ era quel castel di sua ragione, E destinava di averlo riscosso. Costui stimava scontrare Agricane, Non con Orlando venire alle mane. Gia\ son spiegate tutte le bandiere, E suonan li instromenti da battaglia; Il re Agricane ha Baiardo il destriere Da le ungie al crine coperto di maglia, E vien davanti a tutte le sue schiere. Ne l' altro canto diro\ la travaglia, E de nove baroni un tale ardire, Che mai nel mondo piu\ se odette dire. Stati ad odir, segnor, se vi e\ diletto, La gran battaglia ch' io vi vo' contare. Ne l' altro canto di sopra ve ho detto De nove cavallier, che hanno a scontrare Due milli%on de popol maledetto; E come e corni se odivan suonare, Trombe, tamburi e voce senza fine, Che par che il mondo se apra e 'l cel roine. Quando nel mar tempesta con romore Da tramontana il vento furi%oso, Grandine e pioggia mena e gran terrore, L' onda se oscura dal cel nubiloso. Con tal roina e con tanto furore Levasi il crido nel cel polveroso; Prima de tutti Orlando l' asta aresta, Verso Agrican viene a testa per testa. E se incontrarno insieme e due baroni, Che avean possanza e forza smisurata, E nulla se piegarno de li arcioni, Ne/ vi fo alcun vantaggio quella fiata. Poi se voltarno a guisa de leoni; Ciascun con furia trasse for la spata, E comincia^r tra lor la acerba zuffa. Or l' altra gente gionge alla baruffa; Si\ che fu forza a quei duo cavallieri Lasciar tra lor lo assalto cominciato, Benche/ se diparti^r mal volontieri, Che/ ciascun se tenea piu\ avantaggiato. Il conte se retira ai suoi guerreri, Brandimarte li e\ sempre a lato a lato; Oberto, Chiari%one et Aquilante Sono alle spalle a quel segnor de Anglante. Et e\ con loro il franco re Adri%ano, Segue Antifor e lo ardito Grifone, Et in mezo di questi il re Ballano. Or la gran gente fora di ragione Per monte e valle, per coste e per piano, Seguendo ogni bandiera, ogni pennone, A gran roina ne vien loro adosso, E con tal crido, che contar nol posso. Dicean quei cavallier: #_ Brutta canaglia, E vostri cridi non varran ni%ente; Vostro furor sera\ foco di paglia, Tutti sereti occisi incontinente. $_ Or se incomincia la crudel battaglia Tra quei nove campioni e quella gente; Ben se puotea veder il conte Orlando Spezzar le schiere e disturbar col brando. Il re Agricane a lui solo attendia, E certamente assai li da\ che fare; Ma Brandimarte e l' altra compagnia Fan con le spade diverso tagliare, E tanto uccidon di quella zinia, Che altro che morti al campo non appare. Verso la rocca vanno tutta fiata, E gia\ presso li sono ad una arcata. Nel campo de Agricane era un gigante, Re di Comano, valoroso e franco, Et era lungo dal capo alle piante Ben vinti piedi, e non e\ un dito manco: Di lui ve ho racontato ancor davante Che prese Astolfo, e nome ha Radamanto. Costui se mosse con la lancia in mano, E riscontro\ su il campo il re Ballano. Feri\ quel re di drieto nelle spalle Il malvaggio gigante e traditore, Che del destrier il fie' cadere a valle, Ne/ valse al re Ballan suo gran valore. Allo ardito Grifon forte ne calle, E volta a Radamanto con furore; E comencia^r battaglia aspra e crudele, Con animo adirato e con mal fiele. Levato e\ il re Ballan con molto ardire, E francamente al campo si mantiene; Ma gia\ non puote al suo destrier salire, Tanto e\ la gente che adosso li viene. Esso non resta intorno de ferire, La spada sanguinosa a due man tiene; Lui nulla teme e i compagni conforta: Fatto se ha un cerchio della gente morta. Il re de Sueza, forte campi%one, Che per nome e\ chiamato Santaria, Con una lancia d' un grosso troncone Scontro\ con Antifor di Albarossia; Gia\ non lo mosse ponto dello arcione, Che/ il cavalliero ha molta vigoria, E se diffende con molta possanza; A prima giunta li taglio\ la lanza. Argante di Rossia stava da parte, Guardando la battaglia tenebrosa; Et ecco ebbe adocchiato Brandimarte, Che facea prova si\ meravigliosa, Che contar non lo puo\ libro ne/ carte. Tutta la sua persona e\ sanguinosa; Mena a due mane quel brando tagliente, Chi parte al ciglio, e chi perfino al dente. A lui se driccia il smisurato Argante Sopra a un destrier terribile e grandissimo, E feri\ il scudo a Brandimarte avante. Ma lui tanto era ardito e potentissimo, Che nulla cura de l' alto gigante, Benche/ sia nominato per fortissimo, Ma con la spada in mano a lui s' affronta; Ogni lor colpo ben Turpin raconta. Ma io lascio de dirli nel presente: Pensati che ciascun forte se adopra. Ora tornamo a dir de l' altra gente; Benche/ la terra de morti se copra, Quelle gran schiere non sceman ni%ente. Par che lo inferno li mandi di sopra, Da poi che sono occisi, un' altra volta, Tanto nel campo vien la gente folta. Fermi non stanno e nove cavallieri, Ma ver la rocca vanno a piu\ non posso; La strata fanno aprir coi brandi fieri, Ducento millia n' ha ciascuno adosso. Lasciar Ballano a forza li e\ mestieri, Che/ fo impossibil de averlo riscosso; Li altri otto ancora son tornati insieme, Tutta la gente adosso di lor preme. E detti re son con loro alle mane, Ciascun di pregio e gran condizi%one. Lurcone e Radamanto et Agricane E Santaria e Brontino e Pandragone, Argante, che fo lungo trenta spane, Uldano e Poliferno e Saritrone; Tutti {add} e\no {/add; eno Z} insieme, e con gran vigoria Atterra^r Antifor de Albarossia. La schiera de quei quattro, che io contai Che copriva la dama, in sua diffesa Facea prodezze e meraviglie assai, Ma troppo e\ disegual la lor contesa. Agrican di ferir non resta mai, Che/ vo^l la dama ad ogni modo presa, E gente ha seco di cotanto affare Che a lor convien la dama abandonare. Et essa, che se vede a tal partito, Di gran paura non sa che si fare, Scordase dello annel che aveva in dito, Col qual potea nascondersi e campare. Lei tanto ha il spirto freddo e sbigotito, Che de altra cosa non puo\ racordare; Ma solo Orlando per nome dimanda, A lui piangendo sol se racomanda. Il conte, che alla dama e\ longi poco, Ode la voce che cotanto amava; Nel core e nella faccia viene un foco, Fuor de l' elmo la vampa sfavillava; Batteva e denti e non trovava loco, E le genocchie si\ forte serrava, Che Brigliadoro, quel forte corsiero, Della gran stretta cade nel sentiero; A benche/ incontinente fo levato. Ora ascoltati fuora di misura Colpi diversi de Orlando adirato, Che pure a racontarli e\ una paura. Il scudo con roina avia gettato, Che/ tutto il mondo una paglia non cura; Scrolla la testa quella anima insana, Ad ambe man tiene alta Durindana; Spezza la gente per tutte le bande. Or fuor delli altri ha scorto Radamanto (Prima lo vide, perche/ era il piu\ grande): Tutto il taglio\ da l' uno a l' altro fianco, In duo cavezzi per terra lo spande; Ne/ di quel colpo non parve gia\ stanco, Che/ sopra a l' elmo gionse a Saritrone, E tutto il fese insino in su l' arcione. Non prende alcun riposo il paladino, Ma fulminando mena Durindana, E non risguarda grande o piccolino, Li altri re taglia e la gente mezzana. Mala ventura li\ mostro\ Brontino, Che dominava la terra Normana: Dalla spalla del scudo e {t} piastre {/t S; piastre, Z} e maglia Sino alla coscia destra tutto il taglia. Ora ecco il re de' Goti, Pandragone, Che viene a Orlando cruci%oso avante; Questo se fida nel suo compagnone, Perche/ alle spalle ha il fortissimo Argante. Orlando verso lor va di rondone, Che gia\ bene adocchiato avia il gigante; Ma perche/ a Pandragone agionse in prima, Per il traverso delle spalle il cima. A traverso del scudo il gionse a ponto, E l' una e l' altra spalla ebbe troncata. Argante era con lui tanto congionto, Che non {add} puote/ {/add; puote\ Z} schiffarsi in questa fiata, Ma proprio di quel colpo, come io conto, Li fo a traverso la panza tagliata; Pero\ ch' Argante fu di tanta altura, Che Pandragon li dava alla cintura. Quel gran gigante volta il suo ronzone E per le schiere se pone a fuggire, Portando le budelle su lo arcione. Mai non se aresto\ il conte di ferire; Non ha, come suolea, compassi%one, Tutta la gente intorno fa morire; Pieta\ non vale, o dimandar mercede: Tanto e\ turbato, che lume non vede. Non ebbe il mondo mai cosa piu\ scura Che fo a mirare il disperato conte; Contra sua spada non vale armatura; Di gente occisa ha gia\ fatto un gran monte, Et ha posto a ciascun tanta paura, Che non ardiscon di mirarlo in fronte. Par che ne l' elmo e in faccia un foco gli arda: Ciascun fugge cridando: #_ Guarda! guarda! $_ Agrican combattea con Aquilante Alor che Orlando mena tal roina; Angelica ben presso gli e\ davante, Che trema come foglia la meschina. Eccoti gionto quel conte de Anglante; Con Durindana mai non se raffina: Or taglia omini armati, ora destrieri, Urta pedoni, atterra cavallieri. Et ebbe visto il Tartaro da canto, Che facea de Aquilante un mal governo, Et ode della dama il tristo pianto: Quanta ira allora accolse, io nol discerno. Su le staffe se riccia, e dassi vanto Mandar quel re de un colpo nello inferno; Mena a traverso il brando con tempesta, E proprio il gionse a mezo della testa. Fu quel colpo feroce e smisurato, Quanto alcuno altro dispietato e fiero; E se non fosse per lo elmo incantato, Tutto quanto il tagliava de legiero. Sbalordisce Agricane, e smemorato Per la campagna il porta il suo destriero; Lui or da un canto, or dall' altro si piega, Fuor di se stesso ando\ ben meza lega. Orlando per lo campo lo seguia Con Brigliadoro a redina bandita; In questo il re Lurcone e Santaria Con gran furor la dama hanno assalita. Ciascun de' quattro ben la diffendia, Ma non vi fu rimedio alla finita: Tanto la gente adosso li abondaro, Che al mal suo grado Angelica lasciaro. Re Santaria davante in su l' arcione Dal manco braccio la dama portava, E stava a lui davanti il re Lurcone; Poliferno et Uldano il seguitava. Era a vedere una compassi%one La damigella come lacrimava; Iscapigliata crida lamentando, Ad ogni crido chiama il conte Orlando. Oberto, Clari%one et Aquilante Erano entrati nella schiera grossa, E di persona fan prodezze tante, Quante puon farsi ad aver la riscossa; Ma le lor forze non eran bastante, Tutta e\ la gente contra de lor mossa. Ora Agricane in questo se risente: Tranchera ha in mano, il suo brando tagliente. Verso de Orlando nequitoso torna Per vendicare il colpo ricevuto; Ma il conte vede quella dama adorna, Che ad alta voce li domanda aiuto. La\ se rivolta, che gia\ non soggiorna, Che/ tutto il mondo non l' avria tenuto; Piu\ de una arcata se puotea sentire L' un dente contra a l' altro screcienire. Il primo che trovo\, fo il re Lurcone, Che avanti a tutti veni\a per lo piano. Il conte il gionse in capo di piatone, Pero\ che 'l brando se rivolse in mano; Ma pur lo getto\ morto dello arcione, Tanto fo il colpo dispietato e strano. L' elmo ando\ fraccassato in sul terreno, Tutto di sangue e di cervello pieno. Or ascoltati cosa istrana e nova, Che il capo a quel re manca tutto quanto, Ne/ dentro a l' elmo o altrove se ritrova, Cosi\ l' aveva Durindana infranto. Ma Santaria, che vede quella prova, Di gran paura trema tutto quanto, Ne/ riparar se sa da il colpo crudo, Se non se fa de quella dama scudo. Pero\ che Orlando gia\ gli e\ gionto adosso, Ne/ diffender se puo\, ne/ puo\ fuggire; Temeva il conte di averlo percosso, Per non far seco Angelica perire. Essa cridava forte a piu\ non posso: #_ Se tu me ami, baron, famel sentire! Occidi me, io te prego, con tue mane; Non mi lasciar portare a questo cane. $_ Era in quel ponto Orlando si\ confuso, Che non sapeva apena che se fare. Ripone il brando il conte di guerra uso, E sopra a Santaria se lascia andare, Ne/ con altra arma che col pugno chiuso Se destina la dama conquistare; Re Santaria, che senza brando il vede, Di averlo morto o preso ben se crede. La dama sostenia da il manco lato, E nella destra mano avea la spada. Con essa un aspro colpo ebbe menato; Ma benche/ il brando sia tagliente e rada, Gia\ non se attacca a quel conte affatato. Esso non stette piu\ ni%ente a bada: Sopra a quel re ne l' elmo un pugno serra, E morto il getto\ sopra della terra. Per bocca e naso uscia fuora il cervello, Et ha la faccia di sangue vermiglia. Or se comincia un altro gran zambello, Pero\ che Orlando quella dama piglia, E via ne va con Brigliadoro isnello, Tanto veloce, che e\ gran meraviglia. Angelica e\ sicura di tal scorta, E del castello e\ gia\ gionta alla porta. Ma Trufaldino alla torre se affaccia, Ne/ gia\ dimostra di volere aprire; A tutti e cavallier crida e minaccia Di farli a doglia et onta ripartire; Con dardi e sassi a giu\ forte li caccia. La dama di dolor volea morire; Tutta tremava smorta e sbigotita, Poi che se vede, misera! tradita. La grossa schiera de' nemici ariva: Agricane e\ davante e il fiero Uldano; Quella gran gente la terra copriva Per la costa del monte e tutto il piano. Chi fia colui che Orlando ben descriva, Che tien la dama e Durindana in mano? Soffia per ira e per paura geme; Nulla di se/, ma de la dama teme. Egli avea della dama gran paura, Ma di se stesso temeva ni%ente. Trufaldin li cacciava dalle mura, Et alla rocca il stringe l' altra gente. Cresce d' ogni ora la battaglia dura, Perche/ da il campo continu%amente Tanta copia di frezze e dardi abonda, Che par che il sole e il giorno se nasconda. Adri%ano, Aquilante e Chiari%one Fanno contra Agrican molta diffesa; E Brandimarte, che ha cor di leone, Par tra' nemici una facella accesa. Il franco Oberto e l' ardito Grifone Molte prodezze ferno in quella impresa. Sotto la rocca stava il paladino, Et umilmente prega Trufaldino, Che aggia pietade di quella donzella Condotta a caso di tanta fortuna; Ma Trufaldino per dolce favella Non piega l' alma di pieta\ digiuna, Che/ un' altra non fu mai cotanto fella Ne/ traditrice sotto della luna. Il conte priega indarno: a poco a poco L' ira gli cresce, e fa gli occhi di foco. Sotto la rocca piu\ se fu appressato, E tien la dama coperta col scudo; E verso Trufaldin fu rivoltato Con volto acceso e con sembiante crudo. Ben che non fusse a minacciare usato, Ma piu\ presto a ferire, il baron drudo Or lo scridava con tanta bravura, Che, non ch' a lui, ma al cel mettea paura. Stringeva e denti e dicea: #_ Traditore! Ad ogni modo non puotrai campare, Che/ questo sasso in meno de quattro ore Voglio col brando de intorno tagliare, E pigliaro\ la rocca a gran furore, E giu\ nel piano la vo' trabuccare; E struggero\ quel campo tutto quanto, E tu serai con loro insieme afranto. $_ Cridava il conte in voce si\ orgogliosa, Che non sembrava de parlare umano. Trufaldino avia l' alma timorosa, Come ogni traditore ha per certano; E vista avia la forza valorosa, Che mostrata avea il conte sopra al piano; Che/ sette re mandati avia dispersi, Rotti e spezzati con colpi diversi. E gia\ pareva a quel falso ribaldo Veder la rocca de intorno tagliata, E {add} roi%nar {/add; roinar Z} il sasso a giu\ di saldo Adosso ad Agricane e sua brigata, Perche/ vedeva il conte de ira caldo, Con gli occhi ardenti e con vista avampata. Onde a un merlo se affaccia e dice: #_ Sire, Piacciati un poco mia ragione odire. Io non lo niego, e negar non sapria, Ch' io non abbia ad Angelica fallito; Ma testimonio il celo e Dio me sia Che mi fu forza a prender tal partito Per li duo miei compagni e sua foli\a, Benche/ ciascun da me si tien tradito; Che/ vennerno con meco a questi%one, Et io li presi, e posti li ho in pregione. E benche/ meco essi abbiano gran torto, Da loro io non avria perdon giamai; E come fosser fuora, io seri\a morto, Perche/ di me son piu\ potenti assai; Onde per questo io te ragiono scorto, Che mai qua dentro tu non intrarai, Se tua persona non promette e giura Far con sua forza mia vita sicura. E simil dico de ogni altro barone, Che voglia teco nella rocca entrare: Giurara\ prima de esser campi%one Per mia persona, e la battaglia fare Contra a ciascuno, e per ogni cagione Che alcun dimanda o possa dimandare; Poi tutti insieme giurareti a tondo Far mia diffesa contra tutto il mondo. $_ Orlando tal promessa ben li niega, Anci il minaccia con viso turbato; Ma quella dama, che egli ha in braccio, il prega, E stretto al collo lo tiene abracciato; Onde quel cor feroce al fin se piega. Come volse la dama, ebbe giurato; E similmente ogni altro cavalliero Giura quel patto a pieno e tutto intiero. Si\ come dimandar si seppe a bocca, Fu fatto Trufaldin da lor sicuro. Lui poi apre la porta e il ponte scocca, Et intro\ ciascun dentro al forte muro. Or piu\ vivande non e\ nella rocca, Fuor che mezo destrier salato e duro. Orlando, che di fame veni\a meno, Ne mangio\ un quarto, et anco non e\ pieno. Li altri mangiorno il resto tutto quanto, Si\ che bisogna de altro procacciare. Brandimarte e Adri%an se tran da canto; Chiari%one et Oberto de alto affare Col conte Orlando insieme se {add} da\n {/add; dan Z} vanto Gran vittualia alla rocca portare: Ad Aquilante e il suo fratel Grifone Resto\ la guarda de il forte girone. Perche/ alcun cavallier non se fidava Di Trufaldin, malvaggia creatura, Pero\ la guardia nova se ordinava E la diffesa intorno a l' alte mura. E gia\ l' alba serena se levava, Poi che passata fo la notte oscura, Ne/ ancora era chiarito in tutto il giorno, Che Orlando e\ armato, e forte sona il corno. Ode il gran suono la gente nel piano, Che a tutti quanti morte li minaccia. Ben se spaventa quel popol villano; Non rimase ad alcun colore in faccia. Ciascun piangendo batte mano a mano; Chi fugge, e chi nasconder se procaccia, Pero\ che il giorno avanti avian provato Il furor crudo de Orlando adirato. Per questo il campo, la parte maggiore, Per macchie e fossi ascosi se apiatava; Ma il re Agricane e ciascun gran segnore Minacciando sua gente radunava. Non fu sentito mai tanto rumore Per la gran gente che a furor se armava; Non ha bastone il re Agrican quel crudo, Ma le sue schiere fa col brando nudo; E come vede alcun che non e\ armato, O che se alonghi alquanto della schiera, Subitamente il manda morto al prato. Guarda de intorno la persona altiera, E vede il grande esercito adunato, Che tien da il monte insino alla riviera. Quattro leghe e\ quel piano in ogni verso: Tutto lo copre quel popol diverso. Gran maraviglia ha il re Agricane il fiero Che quella gente, grande oltra misura, Sia spaventata da un sol cavalliero; Perche/ ciascun tremava di paura, Et esso per se solo in sul destriero Di contrastare a tutti si assecura; Quei cavallieri e Orlando paladino Manco li stima che un sol fanciullino. E sol se avanta il campo mantenire A quanti ne uscira\ di quella rocca; Tutti li sfida e mostra molto ardire, Forte suonando col corno alla bocca. Ne l' altro canto potereti odire Come l' un l' altro col brando se tocca, Che mai piu\ non sentisti un tal ferire: Poi di Ranaldo tornarovi a dire. Tutte le cose sotto della luna, L' alta ricchezza, e' regni della terra, Son sottoposti a voglia di Fortuna: Lei la porta apre de improviso e serra, E quando piu\ par bianca, divien bruna; Ma piu\ se mostra a caso della guerra Instabile, voltante e roi%nosa, E piu\ fallace che alcuna altra cosa; Come se puote in Agrican vedere, Quale era imperator de Tartaria, Che avia nel mondo cotanto potere, E tanti regni al suo stato obedia. Per una dama al suo talento avere, Sconfitta e morta fu sua compagnia; E sette re che aveva al suo comando Perse in un giorno sol per man di Orlando. Onde esso al campo, come disperato Suonando il corno, pugna dimandava, Et avea il conte Orlando disfidato, Con ogni cavallier che il seguitava; E lui soletto, si\ come era, al prato Tutti quanti aspettarli se vantava. Ma della rocca gia\ se calla il ponte, Et esce fuora armato il franco conte. Alle sue spalle e\ Oberto da il Leone, E Brandimarte, che e\ fior di prodezza, Il re Adri%ano e il franco Chiari%one: Ciascun quella gran gente piu\ disprezza. Angelica se pose ad un balcone, Perche/ Orlando vedesse sua bellezza; E cinque cavallier con l' asta in mano Gia\ son dal monte giu\ callati al piano. Quel re feroce a traverso li guarda: Quasi contra a si\ pochi andar se sdegna; Par che tutta la faccia a foco li arda, Tanto ha l' anima altiera de ira pregna. Voltasi alquanto a sua gente codarda, In cui bontade ne/ virtu\ non regna, Ne/ a lor se digna de piegar la faccia, Ma con gran voce comanda e minaccia: #_ Non fusse alcun de voi, zentaglia ville, Che si movesse gia\ per darmi aiuto! Se ben venisser mille volte mille Quanti n' ha 'l mondo, e quanti n' ha gia\ auto, Con Ercule e Sanson, {add} Etto\r {/add; Ettor Z} e Achille, Ciascun fia da me preso et abattuto; E come occisi ho quei cinque gagliardi, Ogni om di voi da me poi ben si guardi. Che/ tutti quanti, gente maledetta, Prima che il sole a sera gionto sia, Vi tagliaro\ col brando in pezzi e in fetta, E spargerove per la prataria; Perche/ in eterno mai non se rasetta A nascer de voi stirpe in Tartaria Che faccia tal vergogna al suo paese, Come voi fate nel campo palese. $_ Quel populaccio tremando se crola Come una legier foglia al fresco vento, Ne/ se avrebbe sentito una parola, Tanto ciascuno avea de il re spavento. Trasse Agricane sua persona sola Fuor della schiera, e con molto ardimento Pone alla bocca il corno e suona forte: Ribomba il suono e carne e sangue e morte. Orlando, che ben scorge in ogni banda Del re Agricane il smisurato ardire, A Iesu\ Cristo per grazia dimanda Che lo possa a sua fede convertire. Fassi la croce e a Dio si racomanda, E poi che vede il Tartaro venire, Ver lui se mosse con molto ardimento: Il corso de il destrier par foco e vento. Se forse insieme mai scontra^r due troni, Da levante a ponente, al cel diverso, Cosi\ proprio se urtarno quei baroni; L' uno e l' altro a le croppe ando\ riverso. Poi che ebber fraccassato e lor tronconi Con tal ruina et impeto perverso, Che qualunque era d' intorno a vedere, Penso\ che il cel dovesse giu\ cadere. Del suo Dio se ricorda ogni om di loro, Ciascuno aiuto al gran bisogno chiede. Fu per cadere a terra Brigliadoro: A gran fatica il conte il tiene in piede. Ma il bon Baiardo corre a tal lavoro, Che la polver de lui sola se vede; Nel fin del corso se volto\ de un salto, Verso de Orlando, sette piedi ad alto. Era ancor gia\ rivolto il franco conte Contra al nemico, con la mente altiera; La spada ha in mano che fu del re Almonte. Cosi\ tratto Agricane avea Tranchera; E se trovarno due guerreri a fronte, E di cotali al mondo pochi ne era; E ben mostrarno il giorno, alla gran prova, Che raro in terra un par de lor se trova. Non e\ chi de essi pieghi o mai se torza, Ma colpi adoppia sempre, che non resta; E come lo arboscel se sfronde e scorza Per la grandine spessa che il tempesta, Cosi\ quei duo baron con viva forza L' arme han tagliate, fuor che della testa; Rotti hanno e scudi e spezzati i lamieri, Ne/ l' un ne/ l' altro ha in capo piu\ cimieri. Penso\ finir la guerra a un colpo Orlando, Perche/ ormai gli incresceva il lungo gioco, Et a due man su l' elmo meno\ il brando; Quel torno\ verso il cel gettando foco. Il re Agrican fra' denti ragionando, A lui diceva: ## Se me aspetti un poco, Io ti faro\ la prova manifesta Chi de noi porta megliore elmo in testa. $# Cosi\ dicendo un gran colpo disserra Ad ambe mano, et ebbe opini%one Mandare Orlando in due parte per terra, Che/ fender se 'l credea fin su lo arcione. Ma il brando a quel duro elmo non s' afferra, Che/ anco egli era opra de incantazi%one. Fiello Albrizach, il falso negromante, E diello in dono al figlio de Agolante; Questo lo perse, quando a quella fonte Lo occise Orlando in braccio a Carlo Mano. Or non piu\ zanze: ritornamo al conte, Che ricevuto ha quel colpo villano. Da le piante sudava insin la fronte, E di far sua vendetta e\ ben certano; A poco a poco l' ira piu\ se ingrossa, A due man mena con tutta sua possa. Da lato a l' elmo gionse il brando crudo, E giu\ discese della spalla stanca; Piu\ de un gran terzo li taglio\ del scudo, E l' arme e' panni, insin la carne bianca, Si\ che mostrar li fece 'l fianco nudo; Calla giu\ il colpo, e discese ne l' anca, E carne e pelle aponto li risparma, Ma taglia il sbergo, e tutto lo disarma. Quando quel colpo sente il re Agricane, Dice a se stesso: ## E' mi convien spaciare. S' io non me affretto di menar le mane, A questa sera non credo arivare; Ma sue prodezze tutte seran vane, Ch' io il voglio adesso allo inferno mandare; E non e\ maglia e piastra tanto grossa, Che a questo colpo contrastar mi possa. $# Con tal parole a la sinestra spalla Mena Tranchera, il suo brando affilato; La gran percossa al forte scudo calla, E piu\ de mezo lo getto\ su il prato. Gionse nel fianco il brando che non falla, E tutto il sbergo ha de il gallon tagliato; Manda per terra a un tratto piastre e maglia, Ma {t} carne {/t S; carne, Z} o pelle a quel ponto non taglia. Stanno a veder quei quattro cavallieri Che venner con Orlando in compagnia, E mirando la zuffa e i colpi fieri, E tutti insieme e ciascadun dicia Che il mondo non avia duo tal guerreri Di cotal forza e tanta vigoria. Gli altri pagan, che guardan la tenzone, Dicean: #_ Non ce e\ vantaggio, per Macone! $_ Ciascun le botte de' baron misura, Che/ ben iudica e colpi a cui non dole; Ma quei duo cavallier senza paura Facean de' fatti, e non dicean parole. E gia\ durata e\ la battaglia dura A l' ora sesta da il levar del sole, Ne/ alcun di loro ancor si mostra stanco, Ma ciascun di loro e\ piu\ che pria franco. Si\ come alla fucina in Mongibello Fabrica troni il demonio Vulcano, Folgore e foco batte col martello, L' un colpo segue a l' altro a mano a mano; Cotal se odiva l' infernal flagello Di quei duo brandi con romore altano, Che sempre han seco fiamme con tempesta; L' un ferir suona a l' altro, e ancor non resta. Orlando gli meno\ d' un gran riverso Ad ambe man, di sotto alla corona, E fu il colpo tanto aspro e si\ diverso, Che tutto il capo ne l' elmo gli intona. Avea Agricane ogni suo senso perso; Sopra il col di Baiardo se abandona, E sbigotito se attacco\ allo arcione: L' elmo il campo\, che fece Salamone. Via ne lo porta il destrier valoroso; Ma in poco de ora quel re se risente, E torna verso Orlando, furi%oso Per vendicarse a guisa di serpente. Mena a traverso il brando roi%noso, E gionse il colpo ne l' elmo lucente: Quanto puote ferire ad ambe braccia, Proprio il percosse a mezo della faccia. Il conte riversato adietro inchina, Che/ dileguate son tutte sue posse; Tanto fo il colpo pien di gran roina, Che su la groppa la testa percosse; Non sa se egli e\ da sera, o da matina, E benche/ alora il sole e il giorno fosse, Pur a lui parve di veder le stelle, E il mondo lucigar tutto a fiammelle. Or ben li monta lo estremo furore: Gli occhi riversa e strenge Durindana. Ma nel campo se leva un gran romore, E suona nella rocca la campana. Il crido e\ grande, e mai non fo maggiore: Gente infinita ariva in su la piana Con bandiere alte e con pennoni adorni, Suonando trombe e gran tamburi e corni. Questa e\ la gente de il re Galafrone, Che son tre schiere, ciascuna piu\ grossa. Per quella rocca, che e\ di sua ragione, Vien con gran furia ad averla riscossa; Et ha mandato in ogni regi%one, E meza la India ha ne l' arme commossa; E chi vien per tesor, chi per paura, Perche/ e\ potente e ricco oltra a misura. Dal mar de l' oro, ove l' India confina, Vengon le gente armate tutte quante. La prima schiera con molta roina Mena Archiloro il Negro, che e\ gigante; La seconda conduce una regina, Che non ha cavallier tutto il levante Che la contrasti sopra della sella, Tanto e\ gagliarda, e ancor non e\ men bella. Marfisa la donzella e\ nominata, Questa ch' io dico; e fo cotanto fiera, Che ben cinque anni sempre stette armata Da il sol nascente al tramontar di sera, Perche/ al suo dio Macon se era avotata Con sacramento, la persona altiera, Mai non spogliarse sbergo, piastre e maglia, Sin che tre re non prenda per battaglia. Et eran questi il re de Sericana, Dico Gradasso, che ha tanta possanza, Et Agricane, il sir de Tramontana, E Carlo Mano, imperator di Franza. La istoria nostra poco adietro spiana Di lei la forza estrema e la arroganza, Si\ che al presente piu\ non ne ragiono, E torno a quei che gionti al campo sono. Con romor si\ diverso e tante crida Passato han Drada, la grossa riviera, Che par che il cel profondi e se divida. Dietro alle due veni\a l' ultima schiera; Re Galifrone la governa e guida Sotto alle insegne di real bandiera, Che tutta e\ nera, e dentro ha un drago d' oro. Or lui vi lascio, e dico de Archiloro, Che fo gigante di molta grandezza, Ne/ alcuna cosa mai volse adorare, Ma biastema Macone e Dio disprezza, E a l' uno e l' altro ha sempre a minacciare. Questo Archiloro con molta fierezza Primeramente il campo ebbe assaltare; Come un demonio uscito dello inferno Fa de' nemici strazio e mal governo. Portava il Negro un gran martello in mano, (Ancude non fu mai di tanto peso), Spesso lo mena, e non percote in vano: Ad ogni colpo un Tartaro ha disteso. Contra di lui e\ mosso il franco Uldano E Poliferno, di furore acceso, Con due tal schiere, che il campo ne e\ pieno; Ciascuna e\ cento millia, o poco meno. E quei duo re, non gia\ per un camino, Che/ l' un de l' altro alora non se accorse, Ferirno al Negro nel sbergo acciarino, E quel si stette di cadere in forse, E fu per traboccar disteso e chino; Ma quel ferir contrario lo soccorse, Che/ Poliferno gia\ l' avea piegato, Quando il percosse Uldano a l' altro lato. Sopra alle lancie il Negro se suspese, Ma gia\ per questo di colpir non resta; Pero\ che il gran martello a due man prese, E feri\ il Poliferno nella testa, E tramortito per terra il distese. Poi volta l' altro colpo con tempesta, E nel guanciale agionse il forte Uldano, Si\ che de arcione il fie' cadere al piano. Quei re distesi rimasero al campo. Passa Archiloro e mostra gran prodezza; Come un drago infiammato adduce vampo, Et elmi, scudi, maglie e piastre spezza, Ne/ a lui si trova alcun riparo o scampo: Tutta la gente occide con fierezza; Fugge ciascuno e non lo puo\ soffrire. Vede Agricane sua gente fuggire, E volto a Orlando con dolce favella Disse: #_ Deh! cavalliero, in cortesia, Se mai nel mondo amasti damisella, O se alcuna forse ami tuttavia, Io te scongiuro per sua faccia {t} bella, {/t S; bella: Z} (Cosi\ la ponga amore in tua {t} bali\a!): {/t S; bali\a), Z} Nostra battaglia lascia nel presente, Perch' io doni soccorso alla mia gente. E benche/ te piu\ oltra non cognosca Se non per cavallier alto e soprano, Da or ti dono il gran regno di Mosca, Sino al mar di Rossia, che e\ l' {add} Ocea\no. {/add; Oceano. Z} Il suo re e\ nello inferno a l' aria fosca: Tu ve il mandasti iersira con tua mano; Radamanto fo quel, di tanta altura, Che col brando partisti alla cintura. Liberamente il suo regno ti dono, Ne/ credo meglio poterlo alogare, Che/ non ha il mondo cavallier si\ bono, Qual di bontate ti possa avanzare: Et io prometto e giuro in abandono Che un' altra volta me voglio provare Teco nel campo, per far certo e chiaro Qual cavalliero al mondo non ha paro. Piu\ che omo me stimava alora quando Provata non avea la tua possanza; Ne/ mi credetti aver diffesa al brando, Ne/ altro contrasto al colpo de mia lanza; Et odendo talor parlar de Orlando, Che sta in Ponente nel regno di Franza, Ogni sue forze curavo io ni%ente, Me sopra ogni altro stimando potente. Questa battaglia e lo assalto si\ fiero Che e\ tra noi stato, e l' aspere percosse Me hanno cangiato alquanto nel pensiero, E vedo ch' io sono om di carne e d' osse. Ma domatina sopra de il sentiero Farem la ultima prova a nostre posse; E tu in quel ponto o ver la mia persona Sera\ del mondo il fiore e la corona. Ma or ti prego che per questa fiata Andar me lascia, cavallier, sicuro; Se alcuna cosa hai mai nel mondo amata, Per quella sol te prego e te scongiuro. Vedi mia gente tutta sbaratata Da quel gigante smisurato e scuro, E s' io li dono, per tuo merto, aiuto, Sero\ in eterno a te sempre tenuto. $_ A benche/ il conte assai fosse adirato Pel colpo recevuto a gran marti\re, E volentier se avesse vendicato, Alla dimanda non seppe disdire, Perche/ uno omo gentil e inamorato Non puote a cortesia giamai fallire. Cosi\ lo lascio\ Orlando alla bona ora, Et aiutarlo se proferse ancora. Esso, che aiuto non cura ni%ente, Come colui che avea molta arroganza, Volta Baiardo ch' e\ tanto potente, Et a un suo cavallier tolse una lanza. Quando tornare il vide la sua gente, Ciascun riprese core e gran baldanza; Levasi il crido e risuona la riva: Tutta la gente torna, che fuggiva. Il re Agricane alla corona d' oro Ogni sua schiera di novo rasetta; Lui davanti se pone a tutti loro Sopra a Baiardo, che sembra saetta, E fori%oso vo\lto ad Archiloro; Fermo il gigante in su duo pie\ lo aspetta Col scudo in braccio e col martello in mano, Carco a cervelle e rosso a sangue umano. Il scudo di quel negro un palmo e\ grosso, Tutto di nerbo e\ di elefante ordito. Sopra di quello Agrican l' ha percosso, Et oltra il passa col ferro polito; Per questo non e\ lui de loco mosso. Per quel gran colpo non se piega un dito, E mena del martello a l' asta bassa: Giongela a mezo e tutta la fraccassa. Quel re gagliardo poco o nulla il stima, Benche/ veggia sua forza smisurata, Ne/ fo sua lancia fraccassata in prima, Che egli ebbe in mano la spada affilata, E col destrier che di bontade e\ cima, Intorno lo combatte tutta fiata; Or dalle spalle, or fronte, mai non tarda, Spesso lo assale, e ben de lui se guarda. Sopra a duo piedi sta fermo il gigante, Come una torre a cima de castello; Mai non ha mosso ove pose le piante, E solo adopra il braccio da il martello. Or gli e\ lo re di drieto, ora davante, Sopra a quel bon destrier, che assembra uccello; Mena Archiloro ogni suo colpo in fallo, Tanto e\ legiero e destro quel cavallo. Stava a vedere e l' una e l' altra gente, Dico quei de India e quei di Tartaria, Si\ come a lor non toccasse ni%ente, Ma sol fosse da duo la pugna ria. Cosi\ sta ciascadun queto e pon mente, Lodando ogniuno il suo di vigoria: Mentre che ciascun guarda e parla e cianza, Mena Archiloro un colpo di possanza. Gettato ha il scudo, e il colpo a due man mena, Ma non gionse Agrican, che/ l' avria morto; Tutto il martello ascose ne l' arena. Ora il gigante e\ ben gionto a mal porto: Callate non avea le braccie apena, Che il re, qual stava in su lo aviso scorto, Con tal roina il brando su vi mise, Che ambe le mane a quel colpo divise. Resta^r le mane al gran martello agionte, Si\ come prima a quello eran gremite; Fu po' lui morto di taglio e di ponte, Che/ ben date li fo^r mille ferite; E parve a ciascun vendicar sue onte, Perche/ egli uccise il di\ gente infinite. Agricane il lascio\, quel segnor forte, Non se dignando lui darli la morte. Si\ che fo occiso da gente villane, Come io ve ho detto, e ogniom fe/sseli adosso. Poi che l' ebbe lasciato, il re Agricane Urta Baiardo tra quel popol grosso, E pone in rotta le gente indi%ane, Con tal ruina che contar nol posso. Quel re li taglia e sprezali con scherno, E gia\ son gionti Uldano e Poliferno. Questi duo re gran pezzo sterno al prato Si\ come morti e fuor di sentimento, Che/ ciascuno il martello avea provato, Come io ve dissi, con grave tormento. Or era l' uno e l' altro ritornato, E sopra all' Indi%an, con ardimento, De il colpo ricevuto fan vendetta, E chi piu\ puo\, col brando e Nigri affetta. Non fanno essi riparo, ad altra guisa Che se diffenda da il fuoco la paglia; Agrican lor guardava con gran risa, Che/ non degna seguir quella canaglia. Or sappiati che la dama Marfisa Ben da due leghe e\ longi alla battaglia; Alla ripa del fiume sopra a l' erba Dormia ne l' ombra la dama superba. Tanto il core arrogante ha quell' altiera, Che non volse adoprar la sua persona Contra ad alcuno, per nulla mainera, Se quel non porta in capo la corona; E per questo ne e\ gita alla rivera, E sotto un pin dormendo se abandona; Ma prima, nel smontar che fie' di sella, Queste parole disse a una donzella, (Era questa di lei sua cameriera): Disse Marfisa: #_ Intendi il mio sermone: Quando vedrai fuggir la nostra schiera, E morto o preso lo re Galafrone, E che atterrata fia la sua bandiera, Alor me desta e mename il ronzone; Nanzi a quel ponto non mi far parola, Che/ a vincer basta mia persona sola. $_ Dopo questo parlare il viso bello Colcasi al prato, e indosso ha l' armatura; E come fosse dentro ad un castello, Cosi\ dormiva alla ripa sicura. Ora torniamo a dire il gran zambello De li Indi%ani, che di alta paura Vanno a roina, senza alcun riguardo, Sino alla schiera de il real stendardo. Re Galafrone ha la schiuma alla bocca, Poi che sua gente si\ vede fuggire; Ben come disperato il caval tocca, E vo^l quel giorno vincere, o perire. La figlia sua, che stava nella rocca, Lo vide a quel gran rischio di morire, E temendo de cio\, come e\ dovuto, Al conte Orlando manda per aiuto. Manda a pregarlo che senza tardanza Gli piaccia aiuto al suo patre donare; E se mai de lui debbe aver speranza, Voglia quel giorno sua virtu\ mostrare; E che debbia tenire in ricordanza Che dalla rocca lo puotria guardare; Si\ che se adopri, se de amore ha brama, Poiche/ al iudicio sta della sua dama. Lo inamorato conte non si posa, E trasse Durindana con furore, E fie' battaglia dura e tenebrosa, Come io vi contero\ tutto il tenore. Ma al presente io lascio qui la cosa, Per tornare a Ranaldo di valore, Qual, come io dissi, dentro un bel verziero Vide giacersi al fonte un cavalliero. Piangea quel cavallier si\ duramente, Che avria fatto un dragon di se/ pietoso; Ne/ di Ranaldo si accorgea ni%ente, Perche/ avea basso il viso lacrimoso. Stava il principe quieto, e ponea mente Cio\ che facesse il baron doloroso; E ben che intenda che colui se dole, Scorger non puote sue basse parole. Unde esso dismontava dello arcione, E con parlar cortese il salutava; E poi li adimandava la cagione Perche/ cosi\ piangendo lamentava. Alcio\ la faccia il misero barone: Tacendo, un pezzo Ranaldo guardava, Poi disse: #_ Cavallier, mia trista sorte Me induce a prender voluntaria morte. Ma per Dio vero e per mia {add} fe/ {/add; fe\ Z} ti giuro, Che non e\ cio\ quel che mi fa dolere; Anzi alla morte ne vado sicuro, Come io gissi a pigliare un gran piacere; Ma solo {add} e\ne {/add; ene Z} al mio cor doglioso e duro Quel che morendo mi convien vedere; Pero\ che un cavallier prodo e cortese Morira\ meco, e non vi avra\ diffese. $_ Dicea Ranaldo: #_ Io te prego, per Dio, Che me raconti il fatto come e\ andato, Poi de saperlo m' hai posto in disio, Veggendo il tuo languir si\ sterminato. $_ Alcio\ la fronte con sembiante pio Quel cavallier che giacea sopra il prato, E poi rispose con doglioso pianto, Come io vi contero\ ne l' altro canto. Io vi promisi contar la risposta, Ne l' altro canto, di quel cavalliero Che avea l' alma a sospirar disposta, Quando Ranaldo lo trovo\ al verziero, Presso alla fonte di fronde nascosta; Ora ascoltati il fatto bene intiero. Quel cavallier in voce lacrimose Con tal parole a Ranaldo rispose: #_ Vinte giornate de quindi vicina Sta una gran terra de alta nobiltade, Che gia\ de l' Ori%ente fo regina; Babilonia se appella la citade. Avia una dama nomata Tisbina, Che in lo universo, in tutte le contrade, Quanto il sol scalda e quanto cinge il mare, Cosa piu\ bella non se puo\ mirare. Nel dolce tempo di mia eta\ fiorita Fu' io di quella dama possessore, E fu la voglia mia si\ seco unita, Che nel suo petto ascoso era il mio core. Ad altri la concessi alla finita: Pensa se a questo fare ebbi dolore! Lasciar tal cosa e\ do^l maggiore assai Che desi%arla e non averla mai. Come una parte de l' anima mia Da il cor mi fosse per forza divisa, Fuor di me stesso vivendo moria, Pensa tu con qual modo et a qual guisa! Due volte torno\ il sole alla sua via Per vinte e quattro lune, alla recisa, Et io, sempre piangendo, andai mischino Cercando il mondo come peregrino. Il lungo tempo e le fatiche assai Ch' io sosteneva al diverso paese, Pur me alentarno gli amorosi guai De che ebbi l' osse e le medolle accese; E poi Prasildo, a cui quella lasciai, Fo un cavallier si\ prodo e si\ cortese, Che ancor me giova avermi per lui privo, E sempre giovara\, se sempre vivo. Or, seguendo la istoria, io me ne andava Cercando il mondo, come disperato, E, come volse la fortuna prava, Nel paese de Orgagna io fu' arivato. Una dama quel regno governava, Che/ il suo re Poliferno era asembrato Con Agricane insieme, a far tenzone Per una figlia de il re Galafrone. La dama che quel regno aveva in mano, Sapea de inganni e frode ogni mistiero; Con falsa vista e con parlare umano Dava recetto ad ogni forastiero. Poi che era gionto, se adoprava in vano Indi partirse, e non vi era pensiero Che mai bastasse di poter fuggire, Ma crudelmente convenia morire. Pero\ che la malvaggia Falerina (Che/ cotal nome ha quella incantatrice Che ora de Orgagna se appella regina) Avea un giardino nobile e felice; Fossa nol cinge, ne/ sepe di spina, Ma un sasso vivo intorno fa pendice, E si\ lo chiude de una centa sola, Che entro passar non puote chi non vola. Aperto e\ il sasso verso il sol nascente, Dove e\ una porta troppo alta e soprana; Sopra alla soglia sta sempre un serpente, Che di sangue se pasce e carne umana. A questo date son tutte le gente Che sono prese in quella terra strana: Quanti ne gionge, prende ciascuna ora, E la\ li manda; e il drago li divora. Or, come io dissi, in quella regi%one Fui preso a inganno, e posto a la catena; Ben quattro mesi stetti in la pregione, Che era de cavallieri e dame piena. Io non ti dico la compassi%one Che era a vederci tutti in tanta pena; Duo ne eran dati al drago in ogni giorno, Come la sorte se voltava intorno. Il nome de ciascuno era signato Insieme de una dama e cavalliero; E cosi\ ne era a divorar mandato Quel par che alla pregione era primiero. Or, stando in questa forma impregionato, Ne/ avendo de campare alcun pensiero, La ria fortuna che me avia battuto, Per farmi peggio ancor, mi porse aiuto. Perche/ Prasildo, quel baron cortese Per cui dolente abandonai Tisbina E Babilonia, il mio dolce paese, Ebbe a sentir de mia sorte meschina. Io non sapria gia\ dir come lo intese; Ma giorno e notte lui sempre camina, E, con molto tesoro, iscognosciuto Fu ne' confini de Orgagna venuto. Ivi se pose quel baron soprano Per il mio scampo molto a praticare, E proferse grande oro al guardi%ano, Se di nascosto me lasciava andare; Ma poi che egli ebbe cio\ tentato in vano, Ne/ a prieghi o prezo lo pote piegare, Ottenne per danari o per bel dire Che, per camparmi, lui possa morire. Cosi\ fui tratto della pregion forte, E lui fo incatenato al loco mio. Per darmi vita, lui vo^l prender morte: Vedi quanto e\ il baron cortese e pio! Et oggi e\ il giorno della trista sorte, Che lui sera\ condotto al loco rio Dove il serpente e miseri divora; Et io quivi lo aspetto ad ora ad ora. E bench' io sappia e cognosca per certo Che bastante non sono a darli aiuto, Voglio mostrare a tutto il mondo aperto Quanto a quel cor gentile io sia tenuto A render guidardon di cotal merto; Pero\ che, come quivi fia venuto, Con quei che il menan prendero\ battaglia, Benche/ sian mille e piu\ quella canaglia. E quando io sia da quella gente occiso, {add} Serami {/add; Sera\mi Z} quel morir tanto iocondo Ch' io ne andaro\ di volo in paradiso, Per starmi con Prasildo a l' altro mondo. Ma quando io penso che sera\ diviso Lui da quel drago, tutto mi confondo, Poi ch' io non posso, ancor col mio morire, Tuorli la pena di tanto marti\re. $_ Cosi\ dicendo, il viso lacrimoso Quel cavalliero alla terra abassava. Ranaldo, odendo il fatto si\ pietoso, Con lui teneramente lacrimava, E con parlar cortese et animoso, Proferendo se stesso, il confortava, Dicendo a lui: #_ Baron, non dubitare, Che il tuo compagno ancor puotra\ campare. Se dua cotanta fosse la sbiraglia Che qua lo conduranno, io non ne curo; Manco gli stimo che un fascio di paglia, E per la {add} fe/ {/add; fe\ Z} di cavallier te giuro Ch' io te li scotero\ con tal travaglia, Che alcun di lor non si terra\ securo De aver fuggita da mia man la morte, Sin che sia gionto de Orgagna alle porte. $_ Guardando il cavalliero e sospirando, Disse: #_ Deh vanne a la tua via, barone! Che/ qua non se ritrova il conte Orlando, Ne/ il suo cognato, che e\ figlio de Amone. Noi altri facciamo assai alora quando Tenemo campo ad un sol campi%one; Ni%uno e\ piu\ de uno omo, e sia chi il vuole: Lascia pur dir, che/ tutte son parole. Pa\rtite in cortesia, che/ gia\ non voglio Che tu per mia cagion sia quivi gionto; Parte non hai di quel grave cordoglio Che me induce a morir, come io t' ho conto; Et io non posso mo, si\ come io soglio, Renderti grazia, a questo estremo ponto, Del tuo bon core e de la tua proferta: Dio te la renda, et a chiunque il merta. $_ Disse Ranaldo: #_ Orlando non son io, Ma pure io faro\ quel che aggio proferto; Ne/ per gloria lo faccio o per desio D' aver da te ne/ guidardon ne/ merto; Ma sol perche/ io cognosco, al parer mio, Che un par de amici al mondo tanto certo Ne/ ora se trova, ne/ mai se e\ trovato: S' io fossi il terzo, io me terria beato. Tu concedesti a lui la donna amata, E sei del tuo diletto al tutto privo; Egli ha per te sua vita impregionata, Or tu sei senza lui di viver schivo. Vostra amistate non fia mai lasciata, Ma sempre sero\ vosco, e morto e vivo; E se pur oggi aveti ambo a morire, Voglio esser morto per vosco venire. $_ Mentre che ragionarno in tal maniera, Una gran gente viddero apparire, Che portano davanti una bandiera, E due persone menano a morire. Chi senza usbergo, chi senza gambiera, Chi senza maglia si vedea venire, Tutti ribaldi e gente da taverna; E peggio in ponto e\ quel che li governa. Era colui chiamato Rubicone, Che avia ogni gamba piu\ d' un trave grossa; Seicento libre pesa quel poltrone, Superbo, besti%ale e di gran possa; Nera la barba avea come un carbone Et a traverso al naso una percossa; Gli occhi avia rossi, e vedea sol con uno: Mai sol nascente nol trovo\ digiuno. Costui menava una donzella avante, Incatenata sopra un palafreno, E un cavallier cortese nel sembiante, Legato come lei, ne/ piu\ ne/ meno. Guarda Ranaldo al palafreno amblante, E ben cognobbe quel baron sereno Che la meschina e\ quella damisella Che gli conto\ de Iroldo la novella; Poi li fo tolta ne la selva ombrosa Da quel centauro contrafatto e strano. Lui piu\ non guarda, e senza alcuna posa De un salto si getto\ su Rabicano. Diciamo della gente dolorosa, Che erano piu\ de mille in su quel piano: Come Ranaldo viddero apparire, Per la piu\ parte se derno al fuggire. Gia\ l' altro cavalliero era in arcione, Et avia tratta la spada forbita; Ma il principe se driccia a Rubicone, Che/ tutta l' altra gente era smarita E lui faceva sol deffensi%one. Questa battaglia fo presto finita, Perche/ Ranaldo de un colpo diverso Tutto il taglio\ per mezo del traverso. E da\ tra li altri con molta tempesta, Benche/ de occider la gente non cura, E spesso spesso de ferir se arresta, Et ha diletto de la lor paura; Ma pur a quattro getto\ via la testa, Duo ne partite insino alla cintura; Lui ridendo e da scherzo combattia, Tagliando gambe e braccie tuttavia. Cosi\ restarno al campo e due pregioni, Ciascun legato sopra il suo destriero, Poi che fuggiti fo^rno quei bricconi, Che de condurli a morte avian pensiero. Su il prato, tra bandiere e gonfaloni E targhe e lancie, e\ Rubicone altiero, Feso per mezo e tagliato le braccia: Ranaldo gli altri tutta fiata caccia. Ma Iroldo, il cavallier ch' io vi contai Che stava alla fontana a lamentare, Poi che anco egli ebbe de lor morti assai, Corse quei duo pregioni a dislegare. Piu\ non fu lieto alla sua vita mai; Prasildo abraccia, e non puotea parlare, Ma, come in gran letizia far si suole, Lacrime dava in cambio di parole. Il principe era longe da due miglia, Sempre cacciando il popol spaventato, Quando quei duo baron con meraviglia Guardano a Rubicon, che era tagliato Per il traverso, alla terra vermiglia. Essi mirando il colpo smisurato, Dicean che non era omo, anzi era Dio, Che si\ gran busto col brando partio. Callava gia\ Ranaldo giu\ del monte, Avendo fatta gran destruzi%one; Ciascun de' due baron con le man gionte Come idio l' adorarno ingenocchione, E a lui devotamente, in voce pronte, Diceano: #_ O re del celo, o Dio Macone, Che per pietate in terra sei venuto In tanta nostra pena a darci aiuto! Per cagion nostra giu\ del cel lucente Or sei disceso a mostrarci la faccia; Tu sei lo aiuto de l' umana gente Ne/ mai salvarli il tuo volto si saccia; Fa ciascadun di noi recognoscente, Dapoi che ce hai donata cotal graccia, Si\ che per merto al fin se troviam degni Di star con teco nelli eterni regni. $_ Ranaldo se turbo\ nel primo aspetto, Veggendosi adorare in veritate; Ma, ascoltandoli poi, prese diletto Del paccio aviso e gran simplicitate De questi, che il chiamavan Macometto, E a lor rispose con umilitate: #_ Questa falsa credenza via togliete, Ch' io son di terra, si\ come voi sete. Tutto e\ di fango il corpo e questa scorza: L' anima non, che fo da Cristo espressa; Ne/ ve maravigliati di mia forza, Che/ esso per sua pieta\ me l' ha concessa. Lui la virtute accende, e lui la smorza, E quella fede, che il mio cor confessa, Quando si crede drittamente e pura, De ogni spavento l' animo assicura. $_ Con piu\ parole poi li racontava Si\ come egli era il sir de Montealbano; E tutta nostra fede predicava, E perche/ Cristo prese corpo umano; Et in conclusi%on tanto operava, Che l' uno e l' altro se fie' cristi%ano, Dico Iroldo e Prasildo, per suo amore, Macon lasciando et ogni falso errore. Poi tutti tre parlarno alla donzella, A lei mostrando diverse ragione Che pigliar debba la fede novella, La falsita\ mostrando di Macone. Essa era saggia si\ come era bella, Pero\, contrita e con devozi%one, Coi cavallieri insieme, a la fontana Fo per Ranaldo fatta cristi%ana. Esso da poi con bel parlare espose Che egli intendeva de andare al giardino, Qual fatto ha tante gente dolorose, E con lor se consiglia del camino. Ma la donzella subito rispose: #_ Da tal pensier te guarda Dio divino! Non potresti acquistare altro che morte, Tanto e\ lo incanto a meraviglia forte. Io aggio un libro, dove sta depinto Tutto il giardino a ponto, con misura; Ma nel presente solo avro\ distinto Della sua entrata la strana ventura; Pero\ che quello e\ de ogni parte cinto De un' alta pietra, tanto forte e dura, Che mille mastri a botta de picone Non ne puotrian spezzar quanto un bottone. Dove il sol nasce, a mezo un torri%one Evi una porta de marmo polito; Sopra alla soglia sta sempre il dragone, Qual, da che nacque, mai non ha dormito, Ma fa la guarda per ogni stagione; E quando fosse alcun d' entrare ardito, Convien con esso prima battagliare: Ma poi che e\ vinto, assai li e\ piu\ che fare; Che/ incontinente la porta se serra, Ne/ mai per quella si puo\ far ritorno, E cominciar conviensi un' altra guerra, Perche/ una porta se apre a mezo giorno; Ad essa in guardia n' esce della terra Un bove ardito, et ha di ferro un corno, L' altro di foco: e ciascun tanto acuto, Che non vi giova sbergo, piastre o scuto. Quando pur fosse questa fiera morta, Che seri\a gran ventura veramente, Come la prima, e\ chiusa quella porta, E l' altra se apre verso lo occidente, Et ha diffesa niente a la sua scorta: Uno asinel, che ha la coda tagliente Come una spada, e poi l' orecchie piega Come li piace, e ciascuno omo lega. E la sua pelle e\ di piastre coperta, E sembra d' oro, e non si puo\ tagliare; Sin che egli e\ vivo, sta sua porta aperta: Come egli e\ morto, mai piu\ non appare. Ma poi la quarta, come il libro acerta, Subito s' apre, e la\ conviensi andare; Questa risponde proprio a tramontana, Dove non giova ardire o forza umana. Che/ sopra a quella sta un gigante fiero, Qual la difende con la spada in mano; E se egli e\ occiso de alcun cavalliero, Della sua morte duo ne nasce al piano. Duo ne nasce alla morte del primiero, Ma quattro del secondo a mano a mano, Otto del terzo, e sedici del quarto Nascono armati del lor sangue sparto. E cosi\ crescerebbe in infinito Il numero di lor, senza menzogna; Si\ che lascia, per Dio! questo partito, Che e\ pien d' oltraggio, danno e di vergogna. Il fatto proprio sta come hai sentito, Si\ che farli pensier non ti bisogna. Molti altri cavallier li\ sono andati: Tutti son morti, e mai non son tornati. Se pur hai voglia di mostrare ardire, E di provare un' altra novitate, Assai fia meglio con meco venire A fare una opra di molta pietate, Come altra fiata io t' ebbi ancora a dire; E tu mi promettesti in veritate Venir con meco, et esser mio campione, Per trare Orlando e li altri di pregione. $_ Stette Ranaldo un gran pezzo pensoso, E nulla alla donzella respondia, Perche/ entrare al giardin meraviglioso Sopra ogni cosa del mondo desia, E non e\ fatto il baron pau%roso Del gran periglio che sentito avia; Ma la difficulta\ quanto e\ maggiore, Piu\ li par grata e piu\ degna d' onore. Da l' altra parte, la promessa fede Alla donzella, che la ricordava, Forte lo strenge; e quella ora non vede Ch' el trovi Orlando, che cotanto amava. Oltra di questo, ben certo si crede Un' altra volta, come desi%ava, A quel giardino soletto venire, Et entrar dentro, e conquistarlo, e uscire. Si\ che nel fin pur se pose a camino Con la donzella e con quei cavallieri. Sempre ne vanno, da sira al matino, Per piano e monte e per strani sentieri; E della selva gia\ sono al confino, Dove suolea vedersi il bel verzieri Di Dragontina, sopra alla fiumana, Che ora e\ disfatto, e tutto e\ terra piana. Come io vi dissi, il giardin fu disfatto, E il bel palagio, e il ponte, e la riviera, Quando fo Orlando con quelli altri tratto; Ma Fiordelisa a quel tempo non vi era, E pero\ non sapea di questo fatto, E trovar Brandimarte ella se spera, E con lo aiuto del figliuol de Amone Trarlo con li altri fuor della pregione. E cavalcando per la selva scura, Essendo mezo il giorno gia\ passato, Viddon venir correndo alla pianura Sopra un cavallo uno omo tutt' armato, Che mostrava alla vista gran paura; Et era il suo caval molto affannato, Forte battendo l' uno e l' altro fianco; Ma l' omo trema, et e\ nel viso bianco. Ciascadun di novelle il dimandava, Ma lui non respondeva alcuna cosa, E pure adietro spesso risguardava. Dopo, alla fine, in voce pau%rosa, Perche/ la lingua col cor li tremava, Disse: #_ Male aggia la voglia amorosa Del re Agricane, che/ per quello amore Cotanta gente e\ morta a gran dolore! Io fui, segnor, con molti altri attendato Intorno ad Albraca\ con Agricane; Fo Sacripante de il campo cacciato, Et avemmo la terra nelle mane; Solo il girone ad alto fo servato. Et ecco ritornare una dimane La dama, che la rocca diffendia, Con nove cavallieri in compagnia: Tra i quali io vi conobbi il re Ballano E Brandimarte e Oberto da il Leone; Ma non cognosco un cavallier soprano, Che non ha di prodezza parangone. Tutti soletto ce caccio\ del piano; Occise Radamanto e Saritrone Con altri cinque re, che in quella guerra Tutti in duo pezi fece andar per terra. Io vidi (e ancor mi par ch' io l' aggia in faccia) Giongere a Pandragone in sul traverso; Tagliolli il petto e nette ambe le braccia. Da poi ch' io vidi quel colpo diverso, Dugento miglia son fuggito in caccia, E volentier me avria nel mar sumerso, Perche/ averlo alle spalle ognior mi pare. A Dio si%a\ti; io non voglio aspettare, Ch' io non mi credo mai esser sicuro, Sin ch' io non sono a Roccabruna ascoso; Levaro\ il ponte, e staro\ sopra al muro. $_ Queste parole disse il pau%roso, E fuggendo nel bosco folto e scuro Usci\ de vista nel camino umbroso. La damisella e ciascun cavalliero Rimase del suo dire in gran pensiero. E l' un con l' altro insieme ragionando Compreser che e baroni eran campati, E che quel cavalliero e\ il conte Orlando, Che facea colpi si\ disterminati; Ma non sanno stimare o come o quando, E con qual modo e' siano liberati; Ma tutti insieme sono de un volere: Indi partirsi et {add} anda^rli {/add; andarli Z} a vedere. Fuor del deserto, per la dritta strada, Sopra il mar del Bacu\ van tuttavia. Essendo gionti al gran fiume di Drada, Videro un cavallier, che in dosso avia Tutte arme a ponto, et al fianco la spada: Una donzella il suo destrier {add} tenia; {/add; teni\a; Z} Pero\ che alor montava in arci%one, Quella teniva il freno al suo ronzone. Ai compagni se volse Fiordelisa Dicendo: #_ S' io non fallo al mio pensiero, E se io ramento ben questa divisa, Quel che vedeti, non e\ un cavalliero, Anci una dama, nomata Marfisa, Che in ogni parte, per ogni sentiero, Quanto la terra puo\ cercarsi a tondo, Cosa piu\ fera non si trova al mondo. Unde a voi tutti so ben racordare Che non entrati di giostra al periglio: Spaccia\nci pur de adrieto ritornare. Credeti a me, che bene io vi consiglio: Se non ci ha visto, potremo campare, Ma se adosso vi pone il fiero artiglio, Morir conviensi con dolore amaro, Che/ non si trova a sua possa riparo. $_ Ride Ranaldo di quelle parole, E del consiglio la dama ringraccia, Ma veder quella prova al tutto vo^le; Prende la lancia, il forte scudo imbraccia. Era salito a mezo il celo il sole, Quando quei duo fo^r gionti a faccia a faccia, Ciascun tanto animoso e si\ potente Che non stimava l' un l' altro ni%ente. Marfisa riguardava il fio de Amone, Che li sembrava ardito cavalliero; Gia\ tien per guadagnato il suo ronzone, Ma sudar prima li fara\ mestiero. Fermosse l' uno e l' altro in su lo arcione Per trovarse assettato al scontro fiero; E gia\ ciascuno il suo destrier voltava, Quando un messaggio in su il fiume arivava. Era quel messagiero vecchio antico, E seco avea da vinti omini armati. Gionto a Marfisa, disse: #_ Il tuo nemico Ce ha tutti al campo rotti e dissipati. Morto e\ Archiloro, e non vi valse un fico Il suo martello e i colpi smisurati; E fo Agricane che occise il gigante: Tutta la gente a lui fugge davante. Re Galafrone a te se racomanda, Et in te sola ha posta sua speranza, L' ultimo aiuto a te sola dimanda. Fa che il tuo ardire e la tua gran possanza In questo giorno per nome si spanda; E il re Agricane, che ha tanta arroganza Che crede contrastare a tutto il mondo, Sia per te preso, o morto, o messo al fondo. $_ Disse Marfisa: #_ Un poco ivi rimane, Ch' io vengo al campo senza far dimora; Ora che questi tre mi sono in mane, Darotegli prigioni in poco de ora; Poi prenderaggio presto il re Agricane, Che bene aggia Macone e chi lo adora! Vivo lo prendero\, non dubitare, Et alla rocca lo faro\ filare. $_ E piu\ non disse la persona altiera, Ma verso il cavallier se ebbe a voltare; E poi con voce minacciante e fiera Tutti tre insieme li ebbe a disfidare. Fo la battaglia sopra alla rivera Terribile e crudele a riguardare, Che/ ciascun oltra modo era possente, Come odirete nel canto seguente. Nel canto qua di sopra aveti odito Quando Marfisa, quella dama acerba, Tre cavallier in su il prato fiorito Avea sfidati con voce superba. Prasildo era omo presto e molto ardito, Subitamente se mise per l' erba: Benche/ Ranaldo fosse il piu\ onorato, Lui prima mosse, senza altro combiato. Quello scontrar che fie' con la donzella Roppe sua lancia, e lei gia\ non ha mossa; Ma lui de netto usci\ fuor della sella, E cadde al prato con grave percossa. Alor parlava quella dama bella: #_ Su, presto, a li altri! che partir me possa. Vedete qua il messaggio che me affretta, Che/ il re Agricane a battaglia me aspetta. $_ Iroldo, come vide il compagnone Al crudo scontro in su la terra andare, E tra li armati menarlo pregione, Corse alla giostra senza dimorare; E cosi\ cadde anco esso dello arcione. Ora nel terzo piu\ sera\ che fare; Se vi piace, segnor, state ad odire La fiera mossa e l' aspero colpire. Una grossa asta portava Marfisa De osso e de nerbo, troppo smisurata; Nel scudo azuro aveva per divisa Una corona in tre parte spezzata; La cotta d' arme pure a quella guisa, E la coperta tutta lavorata; E per cimer ne l' elmo, al sommo loco, Un drago verde, che gettava foco. Era il foco ordinato in tal maniera Che ardeva con romore e con gran vento; Quando essa entrava alla battaglia fiera, Piu\ gran furor menava e piu\ spavento; Ogni malia che ha in dosso e ogni lamiera Tutti eran fatti per incantamento; Da capo a piedi per questa armatura Era diffesa la dama e sicura. Fu il suo ronzone il piu\ dismisurato Che giamai producesse la natura: Era tutto rosigno e saginato, Con testa e coda et ogni gamba scura; Benche/ non fosse per arte affatato, Fu di gran possa e fiero oltra a misura. Sopra di questo la forte regina Con impeto se mosse e gran roina. Da l' altra parte il franco fio de Amone Con una lancia a meraviglia grossa Vien furi%oso, quel cor di leone, E proprio nella vista l' ha percossa; Ma, come avesse gionto a un torri%one, Non ha piegata Marfisa, ne/ mossa. A tronchi ne ando\ l' asta con romore, Ne/ resto\ pezzo de un palmo maggiore. Gionse Ranaldo la dama diversa In fronte a l' elmo, con molta tempesta; Sopra alle groppe adietro lo riversa, Tutta ne l' elmo gli intona la testa. Ora ha Marfisa pur sua lancia persa, Perche/ se fraccasso\ sino alla resta; In cento e sei battaglie era lei stata Con quella lancia, e sempre era durata. Ora se roppe al scontro furi%oso: Ben se ne meraviglia la donzella, Ma piu\ la ponge il crucio disdegnoso, Perche/ Ranaldo ancora e\ in su la sella. Chiama iniquo Macone e doloroso, Cornuto e becco Trivigante appella: #_ Ribaldi, $_ a lor dicea #_ per qual cagione Tenete il cavalliero in su lo arcione? Venga un di voi, e lasciasi vedere, E pigli a suo piacer questa diffesa, Ch' io faro\ sua persona rimanere Qua giu\ riversa e nel prato distesa. Voi non voliti mia forza temere, Perche/ la\ su non posso esser ascesa; Ma, se io prendo il camino, io ve ne aviso, Tutti vi occido, et ardo il paradiso. $_ Mentre che la orgogliosa si\ minaccia, E vuol disfare il celo e il suo Macone, Ranaldo ad essa rivolta la faccia, Che era stato buon pezzo in stordigione, E de gire a trovarla se procaccia; Ma lei, che non stimava quel barone, Quando contra di se/ tornare il vide, Altieramente disdignando ride. #_ Ora che/ non fuggivi, sciagurato, Mentre che ad altro il mio pensiero attese? Forse hai diletto indi esser pigliato, Perche/ altrimente non trovi le spese? Ma, per mia fede! sei male incapato, Et al presente te dico palese, Come io te avro\ tutt' arme dispogliate, Via cacciarotte a suon di bastonate. $_ Cotal parole usava quella altera; Il pro' Ranaldo risponde ni%ente. Esso zanzar non vo^l con quella fera, Ma fa risposta col brando tagliente; E, come fu con seco alla frontera, Non pose indugia al suo ferir ni%ente, Ma sopra a l' elmo de Fusberta mena: Marfisa non senti\ quel colpo apena. Lei per quel colpo ni%ente se muta, Ma un tal ne dette al cavalliero ardito, Che batter li fie' il mento alla barbuta: Calla nel scudo, e tutto l' ha partito. Maglia, ne/ piastra, ne/ sbergo lo aiuta, Ma crudelmente al fianco lo ha ferito. Quando Ranaldo sente il sangue ch' esce, L' ira, l' orgoglio e l' animo gli cresce. Mai non fo gionto a cosi\ fatto caso, Come or se trova, il sir de Montealbano. Getta via il scudo che li era rimaso, E furi%oso mena ad ambe mano: Benche/ il partito vide aspro e malvaso, Non ha paura quel baron soprano; Ma con tal furia un colpo a due man serra, Che tutto il scudo li getto\ per terra, E sopra al braccio manco la percosse, Si\ che li fece abandonar la briglia. Molto de cio\ la dama se commosse, E prese del gran colpo meraviglia; Sopra alle staffe presto redricciosse Tutta nel viso per furor vermiglia, Et un gran colpo a quel tempo menava, Quando Ranaldo l' altro radoppiava. Perche/ ancora esso gia\ non stava a bada, Anci li rispondeva di bon gioco; Ora se incontra l' una a l' altra spada, E quelle, gionte, se avamparno a foco. Tagliente e\ ben ciascuna, e par che rada, Ma fie' l' ultima prova questo loco; Fusberta come un legno l' altra afferra, Piu\ de un gran palmo ne getto\ per terra. Quando Marfisa vide che troncata Era la ponta di sua spada fina, Che prima fu da lei tanto stimata, Rimena colpi de molta ruina Sopra Ranaldo, come disperata; Ma lui, che del scrimire ha la dottrina, Con l' occhio aperto al suo ferire attende, E ben se guarda e da lei se diffende. Meno\ Marfisa un colpo con tempesta, Credendo averlo co\lto alla scoperta; Se lo giongeva la botta rubesta, Era sua vita nel tutto deserta. Lui, che ha la vista a meraviglia presta, Da basso se ricolse con Fusberta, E gionse il colpo nella destra mano, Si\ che cader li fece il brando al piano. Quando essa vide la sua spada in terra, Non fu ruina al mondo mai cotale; Il suo destrier con ambi sproni afferra, Urta Ranaldo a furia di cingiale, E col viso avampato un pugno serra: Dal lato manco il gionse nel guanziale, E lo percosse con tanta possanza, Che assai minor fu il scontro de la lanza. Io di tal botta assai me maraviglio, Ma come io dico, lo scrive Turpino; Fuor delle orecchie uscia il sangue vermiglio, Per naso e bocca a quel baron tapino. Campar lo fece dal mortal periglio Lo elmo afatato che fo de Mambrino; Che/ se un altro elmo in testa se trovava, Longe dal busto il capo li gettava. Perse ogni sentimento il cavalliero, Benche/ restasse fermo in su la sella. Or lo porto\ correndo il suo destriero, Ne/ mai gionger lo puote la donzella, Che/ quel ne andava via tanto legiero, Che per li fiori e per l' erba novella Nulla ne rompe il delicato pede; Non che si senta, ma apena si vede. Marfisa de stupore alcio\ le ciglia, Quando vide il destrier si\ presto gire; Ritorna adrieto e il suo brando repiglia, E poi di novo se il pose a seguire; Ma gia\ longe e\ Ranaldo a meraviglia, E come prima venne a resentire, Verso Marfisa volta con gran fretta, Voluntaroso a far la sua vendetta. E' se sentia di sangue pien la faccia, Et a se stesso se lo improperava, Dicendo: ## Ove vorrai che mai se saccia La tua codarda prova, anima prava? Ecco una feminella che te caccia! Or che direbbe il gran conte di Brava, Se me vedesse qua nel campo stare Contro una dama e non poter durare? $# Cosi\ dicendo il principe animoso Stringe Fusberta, il suo tagliente brando, E vien contra a Marfisa fori%oso. Ora voglio tornar al conte Orlando, Qual, come io dissi, si\ come amoroso De Angelica, se mosse al suo comando Per dare al prodo Galafrone aiuto, Che alla battaglia avea il campo perduto. Chi lo vedesse entrare alla baruffa, Ben lo iudicarebbe quel che egli era; Lui questo abatte e quell' altro ribuffa, Atterra ogni pennone, ogni bandiera. Or se incomincia la terribil zuffa; Fuggia degl' Indi%an rotta la schiera, E va per la campagna in abandono: Sempre alle spalle i Tartari li sono. Rotta e sconfitta la brutta canaglia A tutta briglia fuggendo ne andava; E Galafrone per quella prataglia Via piu\ che li altri e sproni adoperava. Ora cangiosse tutta la battaglia, E fugge ciascadun che mo cacciava, Che/ Orlando e\ gionto, e seco in compagnia Il re Adri%ano, fior de vigoria, E Brandimarte e il forte Chiari%one, Ciascun di guerra piu\ voluntaroso, E seco in frotta Oberto da il Leone. Ferno assalto crudel e furi%oso, E de' nemici tanta occisi%one, Che torno\ il verde prato sanguinoso: Gia\ prima Poliferno e poscia Uldano Da Brandimarte fur gettati al piano. Orlando et Agricane un' altra fiata Ripreso insiem avean crudel battaglia; La piu\ terribil mai non fo mirata: L' arme l' un l' altro a pezo a pezo taglia. Vede Agrican sua gente sbaratata, Ne/ li po^ dare aiuto che li vaglia, Pero\ che Orlando tanto stretto il tene, Che star con seco a fronte li conviene. Nel suo secreto fie' questo pensiero: Trar fuor di schiera quel conte gagliardo, E poi che occiso l' abbia in su il sentiero Tornar alla battaglia senza tardo; Pero\ che a lui par facile e legiero Cacciar soletto quel popol codardo; Che/ tutti insieme, e il suo re Galafrone, Non li stimava quanto un vil bottone. Con tal proposto se pone a fuggire, Forte correndo sopra alla pianura; Il conte nulla pensa a quel fallire, Anci crede che il faccia per paura; Senza altro dubbio se il pone a seguire. E gia\ son gionti ad una selva oscura; Aponto in mezo a quella selva piana Era un bel prato intorno a una fontana. Fermosse ivi Agricane a quella fonte, E smonto\ dello arcion per riposare, Ma non se tolse l' elmo della fronte, Ne/ piastra o scudo se volse levare; E poco dimoro\ che gionse il conte, E come il vide alla fonte aspettare, Dissegli: #_ Cavallier, tu sei fuggito, E si\ forte mostravi e tanto ardito! Come tanta vergogna po^i soffrire A dar le spalle ad un sol cavalliero? Forse credesti la morte fuggire: Or vedi che fallito hai il pensiero. Chi morir puo\ onorato, die' morire; Che/ spesse volte aviene e de legiero Che, per durare in questa vita trista, Morte e vergogna ad un tratto s' acquista. $_ Agrican prima rimonto\ in arcione, Poi con voce suave rispondia: #_ Tu sei per certo il piu\ franco barone Ch' io mai trovassi nella vita mia; E pero\ del tuo scampo fia cagione La tua prodezza e quella cortesia Che oggi si\ grande al campo usato m' hai, Quando soccorso a mia gente donai. Pero\ te voglio la vita lasciare, Ma non tornasti piu\ per darmi inciampo! Questo la fuga mi fe' simulare, Ne/ vi ebbi altro partito a darti scampo. Se pur te piace meco battagliare, Morto ne rimarrai su questo campo; Ma siami testimonio il celo e il sole Che darti morte me dispiace e duole. $_ Il conte li rispose molto umano, Perche/ avea preso gia\ de lui pietate: #_ Quanto sei $_ disse #_ piu\ franco e soprano, Piu\ di te me rincresce in veritate, Che serai morto, e non sei cristi%ano, Et andarai tra l' anime dannate; Ma se vo^i il corpo e l' anima salvare, Piglia {add} baptismo, {/add; battesimo, Z; battesmo, S} e lasciarotte andare. $_ Disse Agricane, e riguardollo in viso: #_ Se tu sei cristi%ano, Orlando sei. Chi me facesse re del paradiso, Con tal ventura non lo cangiarei; Ma sino or te ricordo e do\tti aviso Che non me parli de' fatti de' Dei, Perche/ potresti predicare in vano: Diffenda il suo ciascun col brando in mano. $_ Ne/ piu\ parole: ma trasse Tranchera, E verso Orlando con ardir se affronta. Or se comincia la battaglia fiera, Con aspri colpi di taglio e di ponta; Ciascuno e\ di prodezza una lumera, E sterno insieme, come il libro conta, Da mezo giorno insino a notte scura, Sempre piu\ franchi alla battaglia dura. Ma poi che il sole avea passato il monte, E cominciosse a fare il cel stellato, Prima verso il re parlava il conte: #_ Che farem, $_ disse #_ che il giorno ne e\ andato? $_ Disse Agricane con parole pronte: #_ Ambo se poseremo in questo prato; E domatina, come il giorno pare, Ritornaremo insieme a battagliare. $_ Cosi\ de acordo il partito se prese. Lega il destrier ciascun come li piace, Poi sopra a l' erba verde se distese; Come fosse tra loro antica pace, L' uno a l' altro vicino era e palese. Orlando presso al fonte isteso giace, Et Agricane al bosco piu\ vicino Stassi colcato, a l' ombra de un gran pino. E ragionando insieme tuttavia Di cose degne e condecente a loro, Guardava il conte il celo e poi dicia: #_ Questo che or vediamo, e\ un bel lavoro, Che fece la divina monarchia; E la luna de argento, e stelle d' oro, E la luce del giorno, e il sol lucente, Dio tutto ha fatto per la umana gente. $_ Disse Agricane: #_ Io comprendo per certo Che tu vo^i de la fede ragionare; Io de nulla sci%enzia sono esperto, Ne/ mai, sendo fanciul, volsi imparare, E roppi il capo al mastro mio per merto; Poi non si {add} puote/ {/add; puote\ Z S} un altro ritrovare Che mi mostrasse libro ne/ scrittura, Tanto ciascun avea di me paura. E cosi\ spesi la mia fanciulezza In caccie, in giochi de arme e in cavalcare; Ne/ mi par che convenga a gentilezza Star tutto il giorno ne' libri a pensare; Ma la forza del corpo e la destrezza Conviense al cavalliero esercitare. Dottrina al prete et al dottor sta bene: Io tanto saccio quanto mi conviene. $_ Rispose Orlando: #_ Io tiro teco a un segno, Che l' arme son de l' omo il primo onore; Ma non gia\ che il saper faccia men degno, Anci lo adorna come un prato il fiore; Et e\ simile a un bove, a un sasso, a un legno, Chi non pensa allo eterno Creatore; Ne/ ben se puo\ pensar senza dottrina La summa maiestate alta e divina. $_ Disse Agricane: #_ Egli e\ gran scortesia A voler contrastar con avantaggio. Io te ho scoperto la natura mia, E te cognosco che sei dotto e saggio. Se piu\ parlassi, io non risponderia; Piacendoti dormir, do\rmite ad aggio, E se meco parlare hai pur diletto, De arme, o de amore a ragionar t' aspetto. Ora te prego che a quel ch' io dimando Rispondi il vero, a {add} fe/ {/add; fe\ Z} de omo pregiato: Se tu sei veramente quello Orlando Che vien tanto nel mondo nominato; E perche/ qua sei gionto, e come, e quando, E se mai fosti ancora inamorato; Perche/ ogni cavallier che e\ senza amore, Se in vista e\ vivo, vivo e\ senza core. $_ Rispose il conte: #_ Quello Orlando sono Che occise Almonte e il suo fratel Troiano; Amor m' ha posto tutto in abandono, E venir fammi in questo loco strano. E perche/ teco piu\ largo ragiono, Voglio che sappi che 'l mio core e\ in mano De la figliola del re Galafrone Che ad Albraca dimora nel girone. Tu fai col patre guerra a gran furore Per prender suo paese e sua castella, Et io qua son condotto per amore E per piacere a quella damisella. Molte fiate son stato per onore E per la fede mia sopra alla sella; Or sol per acquistar la bella dama Faccio battaglia, et altro non ho brama. $_ Quando Agricane ha nel parlare accolto Che questo e\ Orlando, et Angelica amava, Fuor di misura se turbo\ nel volto, Ma per la notte non lo dimostrava; Piangeva sospirando come un stolto, L' anima, il petto e il spirto li avampava; E tanta zelosia gli batte il core, Che non e\ vivo, e di doglia non muore. Poi disse a Orlando: #_ Tu debbi pensare Che, come il giorno sera\ dimostrato, Debbiamo insieme la battaglia fare, E l' uno o l' altro rimarra\ sul prato. Or de una cosa te voglio pregare, Che, prima che veniamo a cotal piato, Quella donzella che il tuo cor disia, Tu la abandoni, e lascila per mia. Io non puotria patire, essendo vivo, Che altri con meco amasse il viso adorno; O l' uno o l' altro al tutto sera\ privo Del spirto e della dama al novo giorno. Altri mai non sapra\, che questo rivo E questo bosco che e\ quivi d' intorno, Che l' abbi riffiutata in cotal loco E in cotal tempo, che sera\ si\ poco. $_ Diceva Orlando al re: #_ Le mie promesse Tutte ho servate, quante mai ne fei; Ma se quel che or me chiedi io promettesse, E se io il giurassi, io non lo attenderei; Cosi\ potria spiccar mie membra istesse, E levarmi di fronte gli occhi miei, E viver senza spirto e senza core, Come lasciar de Angelica lo amore. $_ Il re Agrican, che ardea oltra misura, Non puote tal risposta comportare; Benche/ sia al mezo della notte scura, Prese Baiardo, e su vi ebbe a montare; Et orgoglioso, con vista sicura, Iscrida al conte et ebbelo a sfidare, Dicendo: #_ Cavallier, la dama gaglia Lasciar convienti, o far meco battaglia. $_ Era gia\ il conte in su l' arcion salito, Perche/, come se mosse il re possente, Temendo dal pagano esser tradito, Salto\ sopra al destrier subitamente; Unde rispose con l' animo ardito: #_ Lasciar colei non posso per ni%ente, E, se io potessi ancora, io non vorria; Avertila convien per altra via. $_ Si\ come il mar tempesta a gran fortuna, Cominciarno lo assalto i cavallieri; Nel verde prato, per la notte bruna, Con sproni urtarno adosso e buon destrieri; E se scorgiano a lume della luna Dandosi colpi dispietati e fieri, Ch' era ciascun di lor forte et ardito. Ma piu\ non dico: il canto e\ qui finito. Segnori e cavallieri inamorati, Cortese damiselle e grazi%ose, Venitene davanti et ascoltati L' alte venture e le guerre amorose Che fer' li antiqui cavallier pregiati, E fo^rno al mondo degne e glori%ose; Ma sopra tutti Orlando et Agricane Fier' opre, per amore, alte e soprane. Si\ come io dissi nel canto di sopra, Con fiero assalto dispietato e duro Per una dama ciascadun se adopra; E benche/ sia la notte e il celo oscuro, Gia\ non vi fa mestier che alcun si scopra, Ma conviensi guardare e star sicuro, E ben diffeso di sopra e de intorno, Come il sol fosse in celo al mezo giorno. Agrican combattea con piu\ furore, Il conte con piu\ senno si servava; Gia\ contrastato avean piu\ de cinque ore, E l' alba in ori%ente se schiarava: Or se incomincia la zuffa maggiore. Il superbo Agrican se disperava Che tanto contra esso Orlando dura, E mena un colpo fiero oltra a misura. Giunse a traverso il colpo disperato, E il scudo come un latte al mezzo taglia; Piagar non puote Orlando, che e\ affatato, Ma fraccassa ad un ponto e piastre e maglia. Non puotea il franco conte avere il fiato, Benche/ Tranchera sua carne non taglia; Fu con tanta ruina la percossa, Che avea fiaccati i nervi e peste l' ossa. Ma non fo gia\ per questo sbigotito, Anci colpisce con maggior fierezza. Gionse nel scudo, e tutto l' ha partito, Ogni piastra del sbergo e maglia spezza, E nel sinistro fianco l' ha ferito; E fo quel colpo di cotanta asprezza, Che il scudo mezo al prato ando\ di netto, E ben tre coste li taglio\ nel petto. Come rugge il leon per la foresta, Allor che l' ha ferito il cacciatore, Cosi\ il fiero Agrican con piu\ tempesta Rimena un colpo di troppo furore. Gionse ne l' elmo, al mezo della testa; Non ebbe il conte mai botta maggiore, E tanto uscito e\ fuor di cognoscenza Che non sa se egli ha il capo, o se egli e\ senza. Non vedea lume per gli occhi ni%ente, E l' una e l' altra orecchia tintinava; Si\ spaventato e\ il suo destrier corrente, Che intorno al prato fuggendo il portava; E serebbe caduto veramente, Se in quella stordigion ponto durava; Ma, sendo nel cader, per tal cagione Tornolli il spirto, e tennese allo arcione. E venne di se stesso vergognoso, Poi che cotanto se vede avanzato. ## Come andarai $# diceva doloroso ## Ad Angelica mai vituperato? Non te ricordi quel viso amoroso, Che a far questa battaglia t' ha mandato? Ma chi e\ richiesto, e indugia il suo servire, Servendo poi, fa il guidardon perire. Presso a duo giorni ho gia\ fatto dimora Per il conquisto de un sol cavalliero, E seco a fronte me ritrovo ancora, Ne/ gli ho vantaggio piu\ che il di\ primiero. Ma se piu\ indugio la battaglia un' ora, L' arme abandono et entro al monastero: Frate mi faccio, e chiamomi dannato, Se mai piu\ brando mi fia visto al lato. $# Il fin del suo parlar gia\ non e\ inteso, Che/ batte e denti e le parole incocca; Foco rasembra di furore acceso Il fiato che esce fuor di naso e bocca. Verso Agricane se ne va disteso, Con Durindana ad ambe mano il tocca Sopra alla spalla destra de riverso; Tutto la taglia quel colpo diverso. Il crudel brando nel petto dichina, E rompe il sbergo e taglia il pancirone; Benche/ sia grosso e de una maglia fina, Tutto lo fende in fin sotto il gallone: Non fo veduta mai tanta roina. Scende la spada e gionse nello arcione: De osso era questo et intorno ferrato, Ma Durindana lo mando\ su il prato. Da il destro lato a l' anguinaglia stanca Era tagliato il re cotanto forte; Perse la vista et ha la faccia bianca, Come colui ch' e\ gia\ gionto alla morte; E benche/ il spirto e l' anima li manca, Chiamava Orlando, e con parole scorte Sospirando diceva in bassa voce: #_ Io credo nel tuo Dio, che mori\ in croce. Batteggiame, barone, alla fontana Prima ch' io perda in tutto la favella; E se mia vita e\ stata iniqua e strana, Non sia la morte almen de Dio ribella. Lui, che venne a salvar la gente umana, L' anima mia ricoglia tapinella! Ben me confesso che molto peccai, Ma sua misericordia e\ grande assai. $_ Piangea quel re, che fo cotanto fiero, E {add} tenia {/add; teni\a Z} il viso al cel sempre voltato; Poi ad Orlando disse: #_ Cavalliero, In questo giorno de oggi hai guadagnato, Al mio parere, il piu\ franco destriero Che mai fosse nel mondo cavalcato; Questo fo tolto ad un forte barone, Che del mio campo dimora pregione. Io non me posso ormai piu\ sostenire: Levame tu de arcion, baron accorto. Deh non lasciar questa anima perire! Batteggiami oramai, che/ gia\ son morto. Se tu me lasci a tal guisa morire, Ancor n' avrai gran pena e disconforto. $_ Questo diceva e molte altre parole: Oh quanto al conte ne rincresce e dole! Egli avea pien de lacrime la faccia, E fo smontato in su la terra piana; Ricolse il re ferito nelle braccia, E sopra al marmo il pose alla fontana; E de pianger con seco non si saccia, Chiedendoli perdon con voce umana. Poi battizollo a l' acqua della fonte, Pregando Dio per lui con le man gionte. Poco poi stette che l' ebbe trovato Freddo nel viso e tutta la persona, Onde se avide che egli era passato. Sopra al marmo alla fonte lo abandona, Cosi\ come era tutto quanto armato, Col brando in mano e con la sua corona; E poi verso il destrier fece riguardo, E pargli di veder che sia Baiardo. Ma creder non puo\ mai per cosa certa Che qua sia capitato quel ronzone; Et anco nascondeva la coperta, Che tutto lo guarnia sino al talone. ## Io vo' saper la cosa in tutto aperta, $# Disse a se stesso il figliol di Milone ## Se questo e\ pur Baiardo, o se il somiglia; Ma se egli e\ desso, io n' ho gran meraviglia. $# Per saper tutto il fatto il conte e\ caldo, E verso del caval se pone a gire; Ma lui, che Orlando cognobbe di saldo, Gli viene incontra e comincia a nitrire. #_ Deh dimme, bon destriero, ove e\ Ranaldo? Ove {add} e\ne {/add; ene Z} il tuo signor? Non mi mentire! $_ Cosi\ diceva Orlando, ma il ronzone Non puotea dar risposta al suo sermone. Non avea quel destrier parlare umano, Benche/ fosse per arte fabricato. Sopra vi monta il senator romano, Che gia\ l' avea piu\ fiate cavalcato. Poi che ebbe preso Brigliadoro a mano, Subitamente usci\ fuora del prato, Et entro\ dentro de la selva folta; Ma cosi\ andando un gran romore ascolta. Senza dimora atacca Brigliadoro A un tronco de una quercia ivi vicina. Ma voglio che sappiate che coloro Che entro a quel bosco fan tanta roina, Son tre giganti; et han molto tesoro, E sopra de un gambelo una fantina Tolta per forza a l' Isole Lontane: Un cavallier con loro era alle mane. Quel cavalliero e\ di soperchia lena, E per scoder la dama se travaglia. Un de' giganti la donzella mena, E li altri duo con esso fan battaglia. Poi vi diro\ la cosa integra e piena, Ma di saperla adesso non ve incaglia; Presto ritornaro\ dove io ve lasso: Or vo' contar del campo il gran fraccasso. Del campo, dico, che, come io contai, Andava a schiere in mille pezzi sparte; Piu\ scura cosa non se vidde mai: Occisa e\ la gran gente in ogni parte, Con piu\ roina ch' io non conto assai. Il re Adri%an li segue e Brandimarte; Risuona il celo e del fiume la foce Di cridi, de lamenti e de alte voce. La gente de Agrican, senza governo, Poi che perduto e\ il suo forte segnore, Che mai nol vederanno in sempiterno, Fugge dal campo rotta con romore. Tutti son morti e callano allo inferno; Il vecchio Galafron, pien de furore, Di quella gente gia\ non ha pietade, Anci li pone al taglio delle spade. Non vo^l che campi alcun di quella gente; Tutti li occide il superbo vecchione. E gia\ son gionti ove primeramente Stava il re Agricane al paviglione. Gettato fo per terra incontinente, Dove trovarno Astolfo, che e\ prigione, E il re Ballano, pien de vigoria; Con seco e\ Antifor de Albarossia. Tutti tre insieme, come eran legati, Fo^rno condutti ad Angelica avanti; Ma la donzella li ha molto onorati, Che/ ben li cognosceva tutti quanti. E poi che fo^r disciolti e scatenati, Con bel parlare e con dolci sembianti, Mostrandoli carezze e bella faccia, Di cio\ che han per lei fatto li ringraccia. Diceva Astolfo: #_ Star quivi non posso, Ch' io me vo' vendicar con ardimento De quella gente, che mi venne addosso E mi gettarno in terra a tradimento. Io non seri\a per tutto il mondo mosso, E piu\ de un milli%on n' avrebbi spento, Ma fui tradito da il falso Agricane: Oggi l' occidero\ con le mie mane. Fa che aggia l' arme e prestami un destriero, Che/ incontinente giu\ voglio callare; E ben ti giuro che al colpo primiero Quindeci pezzi de uno uomo vo' fare. Prendero\ vivo l' altro cavalliero, Intorno al capo me il voglio aggirare, Poi verso il cel tanto alto il lascio gire, Che penara\ tre giorni a giu\ venire. $_ Ballano et Antifor, che eran presenti Quando in tal modo Astolfo braveggiava, Nol cognoscendo per fama altrimenti Ciascun fuor de intelletto il iudicava. Ambi eran poderosi, ambi valenti, E percio\ ciascun l' arme adimandava. Nel castello era molta guarnigione; Presto se armorno e montarno in arcione. Astolfo prima gionse alla pianura, Sempre suonando con tempesta il corno; Ben mostra cavallier senza paura, Si\ zoioso veniva e tanto adorno. Ora ascoltati che bella ventura Li mando\ avanti Dio del cel quel giorno, Che/ proprio nella strata se incontrava In un che l' arme e sua lancia portava. Quelle arme che valeano un gran tesoro Un Tartaro le tiene in sua bali\a, E il suo bel scudo, e quella lancia d' oro Che primamente fu dello Argalia. Il duca Astolfo, senza altro dimoro, Per terra a gran furor quello abattia, Fuor delle spalle sei palmi passato; Smonto\ alla terra et ebbel disarmato. Esso fu armato et ha sua lancia presa, E fatta prova grande oltra misura, Benche/ e nemici non faccian diffesa, Che/ de aspettarlo alcun non se assicura. Tutti ne vanno in rotta alla distesa Quella gente del campo con paura; Ma presso al fiume e\ guerra de altra guisa Tra il pro' Ranaldo e la forte Marfisa. Gia\ combattuto avian tutto quel giorno, Ne/ l' un, ne/ l' altro n' ha ponto avanzato. Non ha Ranaldo pezzo de arme intorno, Che non sia rotto e in piu\ parte fiaccato. Mor di vergogna e pargli aver gran scorno, E se/ del tutto tien vituperato, Poi che una dama lo conduce a danza, E piu\ li perde assai che non avanza. Da l' altra parte e\ Marfisa turbata Assai piu\ de Ranaldo nella vista, E non vorrebbe al mondo esser mai nata, Poi che in tant' ore il baron non acquista. Spezzato ha il scudo e la spata troncata, Tutta ha dolente la persona e pista, Benche/ le membre non abbia tagliate; Non gettan sangue per l' arme affatate. Mentre che l' uno e l' altro combattia, Ne/ tra lor se cognosce alcun vantaggio, La dolorosa gente che fuggia, Gionge sopra di loro in quel rivaggio. Re Galafron, che sempre li seguia Con animo adirato e cor malvaggio, Fermosse riguardando il crudo fatto: Marfisa ben cognobbe al primo tratto. Ma non cognosce il sir de Montealbano, Che seco combattea con arroganza; Iudica ben che egli e\ un omo soprano, Di summo ardire e di molta possanza. Guardando iscorse il destrier Rabicano, Che fu del suo figliolo occiso in Franza; Feraguto lo occise con gran pena, Come sapeti, alla selva de Ardena. Il vecchio patre assai si lamentava, Come ebbe Rabicano il destrier scorto. Per nome l' Argalia forte chiamava: #_ O stella de virtute, o ziglio de orto, Che piu\ che la mia vita assai te amava: E\ questo il traditor che ti m' ha morto? Questo e\ ben quel malvaggio, a naso il sento, Che ti tolse la vita a tradimento. Ma sia squartata e sia pasto di cane La mia persona, e sia polver di saldo, Se de tua morte per le terre istrane Vantando se andara\ questo ribaldo! $_ Cosi\ dicendo col brando a due mane Va furi%oso adosso di Ranaldo, E lo ferisce con tanta ruina, Che sopra al collo a quel destrier l' inchina. Quando Marfisa vede quel vecchione Che sua battaglia viene a disturbare, Forte se adira, e pargli che a ragione Se debba de tal onta vendicare; Vanne turbata verso a Galafrone. Or Brandimarte quivi ebbe arivare, E con esso Antifor de Albarossia; Ni%un di lor la dama cognoscia. Stima^r che quella fosse un cavalliero Del campo de Agrican, senza contesa, E veggendo lo assalto tanto fiero, Del vecchio re se posero in diffesa, Che/ gia\ l' avea battuto de il destriero Quella superba di furore accesa; E se sua spada se trovava ponta, Morto era Galafrone a prima gionta. Morto era Galafron, come io vi naro, Che gia\ fuor de lo arcione era caduto; Ma Brandimarte vi pose riparo Et Antifor, che gionse a darli aiuto, Benche/ costasse a l' uno e a l' altro caro. Gionse Antifor in prima, e fo abattuto; Marfisa d' un tal colpo l' ha ferito, Che il fece andare a terra tramortito. Assai fu piu\ che far con Brandimarte, Che/ non era tra lor gran differenza; Ben meglio ha il cavallier di guerra l' arte, Ma questa dama ha grande soa potenza. Ranaldo alora se trava da parte, Pensando che la eterna Providenza Voglia che l' uno e l' altro insieme mora, Che/ son pagani e di sua legge fuora. E la battaglia fiera riguardava, E chi meglio de il brando se martella; E l' uno e l' altro prodo iudicava, Ma piu\ forte stimava la donzella. Ecco Antifor de terra se levava E saliva ben presto in su la sella, E seco e\ Galafron col brando in mano: Verso Marfisa ratti se ne vano. Ecco venire Oberto da il Leone E il forte re Ballan, che alora e\ gionto, E il re Adri%ano e il franco Chiari%one, Che tutti quanti arivano ad un ponto: Ciascadun segue lo re Galafrone. Tre re, tre cavallier, come io vi conto, Ne vanno adosso alla dama pregiata, Che gia\ con Brandimarte era attaccata. Essa, come un cingial tra can mastini, Che intorno se ragira furi%oso, E nel fronte superbo adriccia e crini, E fa la schiuma al dente sanguinoso; Sembrano un foco gli occhi piccolini, Alcia le sete e senza alcun riposo La fiera testa fulminando mena; Chi piu\ se gli avicina, ha magior pena: Non altramente quella dama altiera De dritti e de riversi oltra misura Facea battaglia si\ crudele e fiera, Che a piu\ de un par de lor pose paura. Gia\ piu\ de trenta sono in una schiera, Lei contra a tutti combattendo dura; Crescono ogniora e gia\ son piu\ de cento: Contra a questi altri va con ardimento. Al pro' Ranaldo, che stava a guardare, Par che la dama riceva gran torto, Et a lei disse: #_ Io te voglio aiutare, Se ben dovessi teco esserne morto. $_ Quando Marfisa lo sente arivare, Ne prese alta baldanza e gran conforto, Et a lui disse: #_ Cavallier iocondo, Poi che sei meco, piu\ non stimo il mondo. $_ Cosi\ dicendo la crudel donzella Da\ tra coloro e tocca il franco Oberto, E tutto l' elmo in capo li flagella; Gionse nel scudo, e in tal modo l' ha aperto, Che da due bande il fe' cader di sella. Non valse al re Ballano essere esperto: Marfisa con la man l' elmo gli afferra, Leval di arcione e tral contra alla terra. Fie' maggior prova ancora il fio de Amone, Ma non se ponno in tal modo contare, Che/ con lui se afrontarno altre persone, Che Turpin non le seppe nominare. Cinque ne fese insin sopra al gallone, Et a sette la testa ebbe a tagliare; Dodeci colpi fe' fuor di misura, Onde ciascun di lui prese paura. Ma cresci\a ognora piu\ la gente nova, E sopra de lor duo sempre abondava, Che/ quei di drieto non sapean la prova Qual sopra a' primi Ranaldo mostrava. #_ Voi non potreti far che indi mi mova! $_ Ad alta voce Marfisa cridava #_ Il mio tesoro e il mio regno vi lasso, Se me forzati a ritornare un passo. $_ Or vien distesa sopra alla riviera Una gran gente con molta roina, Che han la corona rotta alla bandiera, Com' e\ la insegna di quella regina; Et era di Marfisa questa schiera, Che vien correndo e mai non se raffina, E voglion sua madama aver diffesa, Temendo di trovarla o morta o presa. Qui cominciosse la fiera battaglia, Ne/ stata vi era piu\ crudel quel giorno. Intro\ Marfisa tra questa canaglia, E furi%osa se voltava intorno; Spezza la gente in ogni banda e taglia; Ne/ men Ranaldo, il cavalliero adorno, Braccie con teste e gambe a terra manda; Ciascun che 'l vede, a Dio se racomanda. Iroldo con Prasildo e Fiordelisa Stavan discosti, con quella donzella Qual era cameriera de Marfisa, Longe due miglie alla battaglia fella. La cameriera alli altri tre divisa Quanto sua dama e\ forte in su la sella; E quanti cavallieri ha messo al fondo Et in qual modo, gli raconta a tondo. Per questo Fiordelisa fu smarita, Temendo che non tocca a Brandimarte Provar la forza de Marfisa ardita. Subitamente da gli altri se parte; Dove e\ la gran battaglia se ne e\ gita; Vede le schiere dissipate e sparte, Che ver la rocca in sconfitta ne vano; Dentro li caccia il sir de Montealbano. Ma lei sol Brandimarte va cercando, Che/ gia\ de tutti gli altri non ha cura; E mentre che va intorno remirando, Vedel soletto sopra alla pianura. Tratto se era da parte alora quando Fu cominciata la battaglia dura; Che/ a lui parria vergogna e cosa fella Cotanta gente offender la donzella. Pero\ stava da largo a riguardare, E di vergogna avea rossa la faccia. De' compagni se aveva a vergognare, Non gia\ di se/, che di nulla se impaccia; Ma come Fiordelisa ebbe a mirare, Corsegli incontra e ben stretta l' abbraccia; Gia\ molto tempo non l' avea veduta: Credia nel tutto di averla perduta. Egli ha si\ grande e subita allegrezza, Che ogni altra cosa alor dimenticava; Ne/ piu\ Marfisa, ne/ Ranaldo aprezza. Ne/ di lor guerra piu\ si racordava. Il scudo e l' elmo via getto\ con frezza, E mille volte la dama baciava; Stretta l' abbraccia in su quella campagna: De cio\ la dama se lamenta e lagna. Molto era Fiordelisa vergognosa, Et esser vista in tal modo gli duole. Impetra adunque questa grazi%osa Da Brandimarte, con dolce parole, De gir con esso ad una selva ombrosa, Dove eran l' erbe fresche e le vi%ole: Staran con zoia insieme e con diletto, Senza aver tema, o di guerra sospetto. Prese ben presto il cavallier lo invito, E, forte caminando, fo^rno agionti Dentro a un boschetto, a un bel prato fiorito, Che d' ogni lato e\ chiuso da duo monti, De fior diversi pinto e colorito, Fresco de ombre vicine e de bei fonti. Lo ardito cavalliero e la donzella Presto smontarno in su l' erba novella. E la donzella con dolce sembiante Comincia il cavalliero a disarmare. Lui mille volte la bacio\, davante Che se potesse un pezzo d' arme trare; Ne/ tratte ancor se gli ebbe tutte quante, Che quella abraccia, e non puote aspettare; Ma ancor di maglia e de le gambe armato Con essa in braccio si colco\ su il prato. Stavan si\ stretti quei duo amanti insieme, Che l' aria non potrebbe tra lor gire; E l' uno e l' altro si\ forte se preme, Che non vi seri\a forza a dipartire. Come ciascun sospira e ciascun geme De alta dolcezza, non saprebbi io dire; Lor lo dican per me, poi che a lor tocca, Che ciascaduno avea due lingue in bocca. Parve ni%ente a lor il primo gioco, Tanto per la gran fretta era passato; E, nel secondo assalto, intrarno al loco Che al primo ascontro apena fu toccato. Sospirando de amore, a poco a poco Se fu ciascun di loro abandonato, Con la faccia suave insieme stretta, Tanto il fiato de l' un l' altro diletta. Sei volte ritornarno a quel danzare, Prima che il lor desir ben fosse spento; Poi cominciarno dolce ragionare De' loro affanni e passato tormento; Il fresco loco gli invita a posare, Perche/ in quel prato sospirava un vento, Che sibillava tra le verde fronde Del bel boschetto che li amanti asconde, E un ruscelletto di fontana viva Mormorando passava per quel prato. Brandimarte, che stava in quella riva, Per molto affanno in quel giorno durato, Nel bel pensar de amor qui se adormiva; E Fiordelisa che gli era da lato, Che di guardarlo uno attimo non perde, Se dormento\ con lui su l' erba verde. Sopra de l' un de' monti ch' io contai Che al verde praticello eran d' intorno, Stava un palmier, che Dio gli doni guai! Che dette a Brandimarte un grave scorno. Ma questo canto e\ stato lungo assai, Et io vi contaro\ questo altro giorno, Se tornati ad odir, la bella istoria: Tutti vi guardi il re de l' alta gloria. Credo, segnor, che ben vi racordati Che a l' altro canto io dissi del diletto Ch' ebbero insieme quegli inamorati, E come al prato, senza altro sospetto, Presso alla fonte giacquero abracciati. Stava a lor sopra un vecchio maledetto, Ad una tana nel monte nascoso, Che scopria tutto quel boschetto ombroso. Era quel vecchio di mala semenza, Incantatore e di malizia pieno; Per Macometto facea penitenza, Credendo gir con lui nel ciel sereno. Sapea de tutte l' erbe la potenza, Qual pietra ha piu\ virtute e qual n' ha meno; Per arte move un monte de legiero E ferma un fiume quel falso palmiero. Standosi questo ad adorar Macone Vide li amanti solacciar nel piano, E prese a quel mirar tentazi%one, Tal che li cadde il libracciol di mano; E seco pensa il modo e la ragione Di tuor la dama al cavallier soprano. Poi che fatto ha il pensier, questo infelice Smonta la costa e porta una radice: Una radice de natura cruda, Che fa l' omo per forza adormentare; Ma conviensi toccar la carne nuda, Quella che al sol scoperta non appare, Chi vo^l che la persona gli occhi chiuda: Ne/ si puote altramente adoperare, Perche/ toccando il collo, o testa, o mano, Adoprarebbe sua virtute in vano. Poi che fu al prato quel vecchio canuto, E vide Brandimarte nella faccia, Ch' era un cavallier grande e ben membruto, Tirossi adietro quel vecchio tre braccia, E gia\ se pente de esser giu\ venuto, Ne/ per gran tema sa quel che si faccia; Pur prese ardire, e vanne alla donzella, E pianamente gli alcia la gonella. Ne/ si attentava de spirare il fiato, Perche/ non aggia il cavallier sentito. Parea la dama avorio lavorato In ogni membro, o bel marmo polito, Quando scoperta d' intorno e da lato Fu da quel vecchio, come aveti odito. Lui se chinava piano a terra, e poscia Con la radice li tocca una coscia. Cosi\ legata al sonno per una ora Fu la donzella da quel rio vecchiaccio; E, per non fare al suo desio dimora, Subitamente se la prese in braccio. Salisce al bosco, e guarda ad ora ad ora Se il cavallier se leva a darli impaccio; Con la radice non l' avea tocco esso, Ne/ pur li basta il cor de girli apresso. Ora il vecchio la dama ne portava, Et era entrato in un bosco maggiore. Tanto ando\, che la dama se svegliava, E per gran novita\ tremava il core. Poi vi diro\ la cosa come andava, E come tratta fu de tanto errore, Ch' io vo' tornare a Brandimarte ardito, Che un gran romor dormendo ebbe sentito. A quel romore e\ il cavallier svegliato, E pauroso se ebbe a risentire; Come la dama non se vide a lato, Della gran doglia credette morire. Piglia il destriero e fu subito armato, E verso quel romor ne prese a gire, Che/ proprio odir la voce gli assembrava De una donzella che se lamentava. Come fo gionto, vide tre giganti Che avean molti gambeli in su la strata: Duo venian drietro, et un giva davanti, Menando una donzella scapigliata; E parve a Brandimarte ne' sembianti Che Fiordelisa sia la sciagurata, Che sopra a quel gambel cridava forte Chiedendo in grazia a Dio sempre la morte. Piu\ Brandimarte sua vita non cura, Poi che crede la dama aver perduta; Di scoterla o morire a Macon giura, Ma certo e\ morto, se altri non lo aiuta. Ciascun gigante e\ grande oltra misura Et ha la faccia orribile e barbuta; Duo di lor se voltarno al cavalliero Con aspra voce e con parlare altiero. #_ Dove ne vai, $_ dicean #_ dove, briccone? Getta la spada, che/ sei morto o preso. $_ Nulla risponde quel franco barone, Ma vagli adosso di furore acceso. Un de' giganti alciava un gran bastone, Che era ferrato e de incredibil peso; Mena a due mani adosso a Brandimarte, Ma lui ben del scrimir sa il tempo e l' arte. Da canto se getto\ come uno uccello, Si\ che gionger nol puote per quel tratto; L' altro gigante, con maggior flagello, Crede al suo colpo de averlo disfatto. Ma il cavallier, che tien l' occhio al pennello, Fanne al secondo come al primo ha fatto, Salta da questo e da quell' altro canto: Se l' ale avesse, non farebbe tanto. Ma lui feri\ di spada quel gigante, Che li avea data la prima percossa, Che li spezzo\ le piastre tutte quante, E feceli gran piaga entro una cossa. Questo superbo avea nome Oridante, Terribile e crudel e di gran possa; L' altro compagno avea nome Ranchiera: Del primo avea piu\ forza e peggior ciera. Questo Ranchiera col bastone in mano Meno\ un traverso a Brandimarte al basso Con gran ruina, e gionse al campo piano, Che/ il cavallier salto\ davante un passo. Oridante il crudel non meno\ in vano, Anci gionse il destriero, e con fraccasso Dietro alla sella su le groppe il prese, Si\ che sfilato in terra lo distese. Subito e\ in piede lo ardito guerrero, Ne/ de esser vinto per questo se crede. A terra morto rimase il destriero, Lui con la spada se diffende a piede, Ma ad ogni modo e\ occiso il cavalliero, Se Dio de darli aiuto non provede, Perche/ i giganti l' hanno in mezo tolto: E\ morto al primo colpo che egli e\ co\lto. Ma gionse Orlando al ponto bisognoso, Come io contai (non so se il ricordati), Quando tornava dal bosco frondoso, Dove Agricane e lui se eran sfidati. Or quivi gionse quel conte animoso, E vide e duo giganti inanimati Intorno a Brandimarte a darli morte, E del suo affanno gli rencrebbe forte; Che/ incontinente l' ebbe cognosciuto A l' arme et alla insegna che avea indosso, Onde destina de donarli aiuto: Sopra a Baiardo subito fu mosso. Ranchiera vide Orlando che e\ venuto, Venneli incontra quel gigante grosso; Con Brandimarte Oridante se aresta: Or cresce la battaglia, e piu\ tempesta. La battaglia comincia piu\ orgogliosa Che non fu prima, e de un' altra maniera. Oridante ha la coscia sanguinosa, E di far la vendetta al tutto spera; Orlando de altra parte non se posa, Ma presa ha una gran zuffa con Ranchera; Par che l' aria se accende e il celo introna, De si\ gran colpi quel bosco risuona. L' altro gigante se fermo\ da parte, Et alla dama attende et al tesoro, Che tolto avean per forza e con grand' arte De le Isole Lontane a un barbasoro. Ora ascoltati come Brandimarte Con Oridante fa crudel lavoro: Piu\ non li appreza un dinarel minuto, Poi che de Orlando se vede lo aiuto. Meno\ un gran colpo quel cavallier franco E gionse ad Oridante in su il gallone, E taglio\ tutto il sbergo al lato manco E le piastre de acciaro e il pancirone, E gran ferita gli fece nel fianco. Il gigante gridando alcio\ il bastone, E mena ad ambe mani a Brandimarte; Ma lui di salto se getto\ da parte. Cosi\ li va de intorno tutta via, E sempre la battaglia prolungava; Ad Oridante, che il sangue perdia, A poco a poco la lena mancava. Lui furi%oso non se ne avedia, E sempre maggior colpi radoppiava; Il cavallier, di lui molto piu\ esperto, Li andava intorno e {add} tenia {/add; teni\a Z} l' occhio aperto. Da l' altra parte e\ la pugna maggiore Tra il feroce Ranchera e il conte Orlando. Quel mena del bastone a gran furore, E questo li risponde ben col brando. Gia\ combattuto avean piu\ de quattro ore, L' un sempre e l' altro gran colpi menando, Quando Ranchera getto\ il scudo in terra E ad ambe mano il gran bastone afferra. E meno\ un colpo si\ dismisurato Che, se dritto giongeva quel gigante, Non si seri\a giamai raffigurato Per omo vivo quel segnor de Anglante; Gionse ad uno arbor, che era ivi da lato, E tutto lo spezzo\ sino alle piante, Le rame e il tronco, dalla cima al basso; Odito non fu mai tanto fraccasso. Vide la forza quel conte gagliardo Che avea il gigante fuor d' ogni misura; Subitamente smonto\ di Baiardo, Che/ sol di quel destriero avea paura. Quando Ranchera li fece riguardo, Veggendolo pedone alla verdura: #_ Ben aggia Trivigante! $_ prese a dire #_ Che/ oramai questo non puotra\ fuggire. Prima che rimontar possi in arcione, Te augurerai sei leghe esser lontano. Or chi t' ha consigliato, vil stirpone, Smontar a piede e combatter al piano? E non mi giongi col capo al gallone, Stroppiato bozzarello e tristo nano! Che se io te giongo un calcio ne la faccia, De la\ del mondo andrai ducento braccia. $_ Cosi\ parlava quel superbo al conte: Lui non rispose a quella bestia vana; Meno\ del brando, e quante arme ebbe gionte, Mando\ tagliate in su la terra piana. Or se strengono insieme a fronte a fronte: Questo mena il baston, quel Durindana; Sta l' uno e l' altro insieme tanto stretto, Che colpir non se puon piu\ con effetto. Tanto e\ il gigante de Orlando maggiore, Che non li gionge al petto con la faccia; Ma il conte avea piu\ ardire e piu\ gran core, Che/ gagliardezza non se vende a braccia. Piglia^rsi insieme con molto furore, Ciascun de atterrar l' altro se procaccia; Stretto ne l' anche Orlando l' ebbe preso, Leval da terra, e in braccio il tien sospeso. Sopra del petto il tien sempre levato, E si\ forte il stringea dove lo prese, Che il sbergo in molte parte fu crepato. Sembravan gli occhi al conte bragie accese; E poi che intorno assai fu regirato, Quel gran gigante alla terra distese, Con piu\ ruina assai ch' io non descrivo; Non sa Ranchera se egli e\ morto o vivo. Avea il gigante in capo un gran capello, Ma nol diffese dal colpir del conte, Che col pomo del brando a gran flagello Roppe il capello e l' osso de la fronte; Per naso e bocca uscir fece il cervello. Due anime a l' inferno anda^r congionte, Perche/ Oridante allor, ne/ piu\ ne/ meno, Pel sangue perso cadde nel terreno. E Brandimarte li taglio\ la testa, Lasciando in terra il smisurato busto; Poi corse al conte e fecegli gran festa E grande onor, come e\ dovuto e iusto. L' altro gigante e\ mosso con tempesta, Piu\ fier de' primi, et ha nome Marfusto: Brandimarte dal conte ottenne graccia Far con costui battaglia a faccia a faccia. Crida Marfusto: #_ Se proprio Macone Te con quello altro volesse campare, Non vi varrebbe il suo aiuto un bottone; Quel de mia mano voglio scorticare, E te squartaro\ a guisa de castrone. Rendi la spada senza dimorare, Perche/ se te diffendi, io te avro\ preso, E vivo arrostirotti al foco acceso. $_ Brandimarte non fece altra risposta Alle parole del gigante arguto, Ma con molto ardimento a lui se accosta Col brando in mano, e coperto del scuto. Marfusto un colpo solamente aposta, E gionsel proprio dove avria voluto; Col bastone a due man il colse in testa, E spezzo\ il scudo e l' elmo con tempesta. Esso tremando alla terra cascava, Usciva il sangue fuor de l' elmo aperto. Piangeva il conte forte, che/ pensava Che Brandimarte sia morto di certo. A quel gigante crudo minacciava: #_ Ladron, $_ diceva #_ io ti daro\, per merto De l' onta che m' hai fatto in questo loco, Morte nel mondo e nello inferno il foco. $_ Cosi\ cridando salta alla pianura, Tra' Durindana e il forte scudo imbraccia. Quando il gigante vide sua figura, Che parea vampa viva ne la faccia, Prese a mirarlo con tanta paura, Che le spalle volto\ fuggendo in caccia; Ma in poco spazio lo ebbe giunto Orlando: Ambe le coscie li taglio\ col brando. Poi morite il gigante in poco d' ora, Il sangue e il spirto a un tratto li e\ mancato. Lasciamo lui, che in sul prato adolora: Diciam del conte, che avia ritrovato Che il franco Brandimarte e\ vivo ancora. Molto fu lieto et ebbel rilevato; Dando acqua fresca al viso sbigotito, Torna il colore e il spirto che e\ fuggito. Poi vi diro\ come quella donzella Medico\ Brandimarte, e con qual guisa; Come lui di dolor la morte appella, Credendo aver perduta Fiordelisa: Ma nel presente io torno alla novella Che davanti lasciai, quando Marfisa Col pro' Ranaldo insieme e con sua schiera Mena fraccasso per quella rivera. Correva grossa e tutta sanguinosa La rivera de Drada per quel giorno, E piena e\ della gente dolorosa, Cavalli e cavallier, con tanto scorno, Che fuggian da Marfisa furi%osa. Lei con la spada fulminava intorno; Come il foco la stoppia secca spazza, Cosi\ col brando se fa far lei piazza. Da l' altra parte il franco fio de Amone Avea smariti si\ quei sciagurati, Che, come storni a vista de falcone, Fuggiano, or stretti insieme, or sbaragliati. Davanti a tutti fuggia Galafrone E il re Adri%ano; e tra li spaventati Antifor et Oberto se ne vano; A spron battuti fugge il re Ballano. Io non vi sapria dir per qual sciagura Perdesse ogni omo quel giorno lo ardire; Che/ Astolfo, che non suole aver paura, Fu a questo tratto de' primi a fuggire. Chiari%on scapinava oltra misura, E molti altri baron che non so dire; Ciascuno a tutta briglia il destrier tocca, Sin che son gionti al ponte della rocca. Intro\ ciascun barone e gran signore, Levando il ponte con molto sconforto; Ma chi non ebbe destrier corridore, Fu sopra al fosso da Marfisa morto; La quale era montata in gran furore, Perche/ essa aveva chiaramente scorto Che il falso Galafrone era campato Dentro alla rocca, e il ponte era levato. Onde essa andava intorno, minacciando Con calci quella rocca dissipare, Che/ avea vergogna di adoprarvi il brando. L' altro bravare io non puotria contare, Che eran assai maggior di questo; e quando Piu\ gente viva intorno non appare, Che/ ogni om per tema fugge dalle mura, Sdegna de intrarvi, e torna alla pianura. E giu\ tornando, a Ranaldo parlava Dicendo: #_ Cavalliero, in quel girone Stavvi una meretrice iniqua e prava, Piena di frode e de incantazi%one; Ma quel che e\ peggio et ancor piu\ m' agrava, Un re vi sta, che non ha paragone De tradimenti, inganni e di mal fele: Trufaldino e\ nomato quel crudele. E quella dama Angelica se appella, Che ha ben contrario il nome a sua natura, Perche/ e\ di fede e di pieta\ ribella. Onde io destino mettere ogni cura Che non campi ne/ 'l re ne/ la donzella, Che pur son chiusi dentro a quelle mura; Poi che disfatto avro\ la rocca a tondo, Vo' pigliar guerra contra a tutto il mondo. Primo Gradasso voglio disertare, Che e\ re del gran paese Siricano; Poi Agricane vado a ritrovare, Che tutta Tartaria porta per mano. Sin in Ponente mi conviene andare, E disfaro\ la Franza e Carlo Mano; Nanti a quel tempo levarmi di dosso Maglia ne/ usbergo ne/ piastra non posso. Che/ fatto ho sacramento a Trivigante Non dispogliarme mai di questo arnese Insin che le provincie tutte quante, E castelle e citade non ho prese; Si\ che, barone, tuoteme davante, O prometti esser meco a queste offese, Che/ chiaramente e palese te dico: Chi non e\ meco, quello e\ mio nemico. $_ Per tal parole intese il fio de Amone Che Angelica e\ la dentro e Trufaldino; E in vero al mondo non ha due persone Che/ piu\ presto volesse a suo domi\no. Al re ben portava odio per ragione, Alla dama non gia\, per Dio divino! Perche/ essa amava lui piu\ che 'l suo core; Ma incanto era cagion di tanto errore. Voi la maniera sapeti e la guisa, Pero\ qua non la voglio replicare. Ora rispose il principe a Marfisa: #_ Con teco son contento dimorare E star sotto tua insegna e tua divisa, Sin che abbi Trufaldino a conquistare; Ma gia\ piu\ oltra il partito non piglio, Che/ il loco e il tempo mi dara\ consiglio. $_ Cosi\ acordati, se accamparno intorno L' alta Marfisa e tutta la sua gente. Senza far guerra via passo\ quel giorno, Ma come a l' altro uscitte il sol lucente, Ranaldo armosse e pose a bocca il corno, Chiamando Trufaldino il fraudolente; Crida nel suono, e con molto rumore Renegato lo appella e traditore. Quando il malvaggio da la rocca intese Che giu\ nel campo a battaglia e\ appellato, De l' alte mura subito discese Pallido in viso e tutto tramutato, Chiamando e' cavallieri in sue diffese, Racordando a ciascun quel che ha giurato, Di combatter per lui sino alla morte, Alor che prima intrarno a quelle porte. Angelica la dama in questo istante Era in consiglio col re Galafrone, Tratando di trar fuora Sacripante E Torindo il gran Turco di pregione; Fur le ragione audite tutte quante, E ciascun disse la sua opini%one; De trarli di pregione a tutti piace, Purche/ al re Trufaldin faccian la pace. E cosi\ fu concluso e statuito: La dama fu mezana al praticare. Sacripante de amore era ferito, Quel che piace ad Angelica vo^l fare. Ma il re Torindo non volse il partito, Pur parve a tutti di lasciarlo andare, Con questo: che egli uscisse fuor del muro, Perche/ ciascun la\ dentro sia securo; E che tra lor non nasca piu\ rumore, E solo a quei di for guerra si faccia. Usci\ Torindo adunque a gran furore, Et aspramente a Trufaldin minaccia, Chiamandolo per nome traditore. Presto del poggio scender se procaccia; Et a Macon giura, mordendo il dito, Che punira\ colui che l' ha tradito. Venne nel campo, e disse la cagione Che l' avea fatto de la\ su partire; E giura a Trivigante et a Macone Che ne farebbe Angelica pentire; Perche/ a sua posta fu messo in pregione, Et era stato al rischio de morire; Ora tal guidardon glie n' avia reso, Che {add} tenia {/add; teni\a Z} il traditor la\ su diffeso. Queste parole a Marfisa dicia, Perche/ al suo pavaglion fu apresentato. Ranaldo suona il corno tuttavia, Chiamando Trufaldin can renegato. Or se apresenta la battaglia ria, Tal che Ranaldo, il sire aprezi%ato, Non ebbe in altra mai piu\ affanno tanto; Ma questo narraro\ ne l' altro canto. Cantando qui di sopra, io vi lasciai Come Ranaldo e\ sopra allo afferrante, E con vergogna e vituperio assai Disfida Trufaldino a se/ davante; E nella fin del canto io vi contai Come fu spregionato Sacripante, E fece pace col re Trufaldino; Ma il re Torindo tenne altro camino. Ora pone Ranaldo il corno a bocca, E tal parole al tintinar risuona: #_ O campioni, che seti nella rocca In compagnia della mala persona, Oditi quel che a tutti quanti tocca, Sia cavalliero, o sia re de corona: Chi non punisce oltraggio e tradigione, Potendo farlo, lui ne e\ la cagione. Ciascun che puote e non diveta il male, In parte del deffetto par che sia; Et ogni gentilomo naturale Viene obligato per cavalleria Di esser nemico ad ogni disleale E far vendetta de ogni villania; Ma ciascuno de voi questo dispreza, Che/ pieta\ non aveti o gentileza. Anci teneti vosco uno assassino, Quel falso cane de Dio maledetto, Dico il re di Baldaca, Trufaldino, Malvaggio, traditor, pien de diffetto. Ora me intenda il grande e il piccolino: Tutti ve isfido e nel campo vi aspetto; E vo' provarvi, con la spada in mano, Che ognom de voi e\ perfido e villano. $_ Con tal parole e con altre minaccia Tutti quei cavallieri il fio de Amone; Lor se guardavan l' uno e l' altro in faccia, Che/ chiaro aveano inteso quel sermone; De loro alcun non e\ che ben non saccia Che a torto prendera\ la questi%one; Che/ Trufaldin da tutti era stimato Iniquo, traditore e scelerato. Ma la promessa fede e il giuramento Li fece uscire armati de le porte; E benche/ avessen tutti alto ardimento, E non stimassen, per onor, la morte, Andarno alla battaglia con spavento; E non vi fu baron cotanto forte Che, vedendo Ranaldo a se/ davante, Non se stordisse insin sotto le piante. Sei cavallieri usci^r di quel girone, E calarno de il sasso alla pianura: Primo Aquilante e il suo fratel Grifone, Che hanno e destrier fatati e l' armatura, Oberto e il re Adri%ano e Chiari%one; In mezo e\ Trufaldin con gran paura. Come nel campo fo^r gionti di saldo, Grifon cognobbe in vista il bon Ranaldo. Verso Aquilante disse: #_ Odi, germano: Se io vedo drittamente, ora mi pare Che questo sia il segnor di Montealbano; E ben serebbe de girlo a trovare, E con carezze e con parlare umano Veder se pace se puote trattare; Pero\ che, a dirti il vero, io me sconforto Per la battaglia che prendiamo a torto. $_ Disse Aquilante: #_ A me pare ancora esso, E piu\ proprio me par quanto piu\ guardo; Ma non ardisco a dirlo per espresso, Che/ non ha sotto il suo destrier Baiardo. Or cavalchiam pur, che/ gionti da presso Ben lo cognosceremo senza tardo: E parla poi con lui, come te piace, De accordo o di battaglia, o guerra o pace. $_ Cosi\ van verso lui, sempre parlando, E gia\ l' un l' altro se recognoscia; Unde andarno da parte, e ragionando La sua sorte avenire, ogni om dicia Perche/ qua fosse gionto, e come, e quando; Ma ciascadun de' tre gran pena avia, Poi che trovar non san ragion che vaglia, Che tra lor cessi la mortal battaglia. Di Chiaramonte sono e di Mongrana, Gentile ischiatte e de un sangue discese; Or per altrui e per cagione istrana Vengono insieme alle mortale offese. Dicea il franco Grifon con voce umana Verso Ranaldo: #_ Deh baron cortese! Mal aggia la fortuna e trista sorte Che per altrui te adduce a prender morte. Perche/ sette baroni hanno giurato Diffender Trufaldin da tutto il mondo, Ciascuno d' alto pregio e nominato. Caro fratello, io non te me nascondo: Morto ti veggio e disteso nel prato, Che/ dopo il primo venira\ il secondo, E il terzo e il quarto senza dimorare: Contra de tanti non puotrai durare. $_ Disse Ranaldo: #_ A fede di leanza, Aver guerra con voi molto me pesa; E cio\ non dico gia\ per dubitanza, Che/ tutti andreti in terra alla distesa; Et e\ la vostra si\ grande arroganza, Poi contra a tutto il mondo aveti impresa, Che non doveti gia\ meravigliare Se io solo a sette voglio contrastare. Ma noi facciamo ormai troppo parole, Et io non voglio star tutto oggi armato; Qualunche Trufaldin diffender vo^le, Prenda del campo, che/ io l' ho desfidato. Certo non passara\ quel monte il sole, Che ad uno ad un vi stendero\ sul prato, E mostrarovi chiaro il parangone Che ve moveti contra alla ragione. $_ Poi che ebbe cosi\ detto, il cavalliero Piu\ non aspetta e volta Rabicano: E dilungato con sembiante altiero Fermossi al campo con la lancia in mano. Or vedon li altri al tutto esser mestiero De insanguinar le spade in su quel piano, Perche/ Ranaldo ha qui fermato il chiodo; Alla battaglia da\nno ordine e modo. E, vergognando {add} anda^rli {/add; andarli Z} tutti adosso, Ordinorno che Oberto dal Leone Fosse contra de lui soletto mosso; E quando avesse il peggio alla tenzone, Il re Adri%ano l' avesse riscosso; E, bisognando, movesse Grifone, Al qual donasse aiuto il suo germano; E Chiari%one a lui, de mano in mano. Aveva Oberto una estrema possanza, E fu de' digni cavallier del mondo; Sprona il destriero et impugna la lanza. Non fu mai corso tanto foribondo Quanto hanno e duo baron pien de arroganza Credendo metter l' uno l' altro al fondo; Poco vantaggio fu nel gionger saldo, Me se ge ne fu alcun, fu de Ranaldo. E ritornarno con brandi taglienti Alla terribil zuffa, inanimati Per darsi morte, a guisa de serpenti, Sempre menando colpi disperati. Avean tagliati tutti e guarnimenti, E rotti e scudi e li usberghi spezzati; Ma Ranaldo con lui de maestria E ancor di forza vantaggio avia. Menando le botte aspere e diverse, Ranaldo, che aspettava, il tempo ha co\lto; Pero\ che, come Oberto se scoperse, Gionse Fusberta, e l' elmo ebbe disciolto. La barbuta e il guancial tutto li aperse, E crudelmente lo feri\ nel volto; E fu il colpo si\ fiero e smisurato, Che come morto lo distese al prato. Questo veggendo il franco re Adri%ano, Che stava apparecchiato alla riscossa, Mosse a gran furia, correndo nel piano Con una lanza smisurata e grossa. Era senza asta il sir de Montealbano, Che/ l' avea rotta alla prima percossa, Ma correndo ne vien col brando nudo; Il re Adri%ano il gionse a mezo il scudo. La lancia ne ando\ al ciel, rotta a tronconi, Ne/ se mosse Ranaldo piu\ che un sasso. Or ben vi sazo dir che e due ronzoni Non venian di galoppo ne/ di passo, Anci se urtarno insieme come troni, Petto per petto, con molto fraccasso; Ma quel del re Adri%ano ando\ per terra: Grifone incontinente il brando afferra. Non volse lancia il cavallier pregiato, E quasi ancor de andar se vergognava, Parendoli Ranaldo affaticato. Or, come io dissi, la spada pigliava; L' arme avea tutte e il destriero affatato, Ne/ d' altra cosa lui se dubitava, Salvo de non potersi indi partire Che non facesse Ranaldo morire. E dolcemente lo volea pregare Che li piacesse de lasciar la impresa. Disse Ranaldo a lui: #_ Non predicare; Fuggi in mal' ora, o prendi tua diffesa. $_ Quando Grifone intese quel parlare, La faccia li vampo\ di foco accesa, Et a lui disse: #_ Io non soglio fuggire, Ma tua superbia ti fara\ morire. $_ Compi\to non avea queste parole, Che il principe il feri\ con tal roina, Che veder non sapea se e\ luna o sole, Ne/ se gli era da sera o da matina. Ranaldo a lui diceva: #_ Altro ce vo^le Che il destrier bianco e l' armatura fina A voler esser bon combattitore! Lena bisogna et animoso core. $_ Quando Grifone intese con oltraggio Dal sir de Montealbano esser schernito, Turbato oltra misura nel coraggio Ferilli ad ambe man l' elmo forbito; E benche/ a quel non facesse dannaggio, Che/ era incantato, come avete odito, Fu il colpo di tal furia e tal tempesta Che tutta quanta gli stordi\ la testa. Non pone indugia, che un altro li mena, Con piu\ roina assai de quel primiero; Non senti\ mai Ranaldo maggior pena, E tutto fraccassato avea il cimiero. #_ Io ti faro\ sentir se ho core e lena, E se altro vo^lsi che un bianco destriero, Vil ribaldo, di strata rio ladrone! $_ Queste parole diceva Grifone. E meno\ il terzo colpo assai maggiore, Cosi\ come era tutto invelenito, E tanta fretta mena e tal furore, Che Ranaldo non puo\ prender partito. Ma come piacque a l' alto Creatore, Sempre ne l' elmo l' aveva ferito, Che/, se l' avesse gionto in altro loco, Seri\a durata la battaglia poco; Pero\ che avria spezzata ogni armatura: Ma l' elmo stette alle percosse saldo. Turbato era Grifone oltra misura, Ne/ mai fu de grande ira tanto caldo; Ma d' altra parte a voi lascio la cura Di pensar come stesse il pro' Ranaldo; Che/ Mongibel non arde ne/ Vulcano, Piu\ che facesse il sir de Montealbano. Sembrava gli occhi suoi faville accese, E parea nel soffiar tempesta e vento; Cridando ad ambe man Fusberta prese, E ferisce a Grifon con ardimento. Sette armature non serian diffese, Se non vi fosse stato incantamento; Ma quella fatasone era si\ forte Che campo\ il giovanetto dalla morte. Abenche/ se stordi\ della percossa, Et alle crine del destrier s' inchina; E non avendo ancor l' alma riscossa, Ranaldo lo feri\ con gran ruina. Ma il giovanetto, che avea tanta possa, Et e\ guarnito di armatura fina, Come risente, di nulla si cura, E mena colpi grandi oltra misura. E si\ crudel battaglia han cominciata, Che un' altra non fu mai cotanto dura; Ne/ mai chiesen ripossa alcuna fiata, Ne/ di doglia o de affanno alcun si cura. La faccia avea ciascun tanto infiammata, Che solo a riguardarli era paura; E, chi mirava da lontano un poco, Parea che fuor de l' elmi uscisse foco. Ne/ si scorgi\a vantaggio di ni%ente, Benche/ meglio Grifone fosse armato. Cresce d' ognor lo assalto piu\ fervente, Qual gia\ presso a cinque ore avea durato. Dicea Ranaldo: #_ O Cristo onnipotente, Se bene in altra cosa aggio peccato, Non ne volere in questo far amendo, Che/ adesso il dritto e la ragion diffendo! Tu sai, Segnor, se iusta e\ la mia impresa, Che/ a te menzogna se direbbe in vano; Grifon de un Saracino ha la diffesa Contra di me, che pur son cristi%ano. Per un can Saracin lui fa contesa, Crudele, iniquo, perfido e inumano: Fa, re del ciel, che chiaro ora comprenda Che la iustizia per te se diffenda. $_ Cosi\ parlava; et ancora Grifone, Tuttavia combattendo a gran ruina, Mirava al celo con devozi%one. #_ Vergine, $_ dicea lui #_ del cel regina, Abbi del mio fallir compassi%one, Ne/ abandonar questa anima tapina! Che, benche/ in altre cose aggia peccato, In questo e\ pur il dritto dal mio lato. Sempre parlai con Ranaldo de pace, E lui me oltraggia con tal villania, Che adoprar mi convien quel che me spiace E far battaglia contra a voglia mia. Suo tanto orgoglio e suo parlar mordace Me hanno condutto a questa pugna ria; E il tuo soccorso aspetto, che e\ dovuto, Che/ sempre a' bisognosi doni aiuto. $_ In tal forma pregavan con pietate, Tuttavia combattendo, quei guerreri; Ne/ mai se vedean ferme le sue spate, Ma colpi sopra colpi ognor piu\ fieri; Ne/ se temean l' un l' altro in veritate, Tanto eran prodi e de virtute altieri, Che a brando, a lancia, a piedi e su l' arcione, Potean con ciascun stare al paragone. Ma nel presente io voglio differire Il fin di questa pugna si\ rubesta; De Orlando e Brandimarte vi vo' dire, Che son con quella dama alla foresta, Quale han campata da crudel marti\re, E tre giganti occisi con tempesta, Come doveti aver nella memoria; Or de quel fatto io vo' seguir la istoria. Brandimarte giacea sopra a quel prato, Come io vi dissi, tutto sanguinoso, Con l' elmo rotto e scudo fraccassato Pel colpo di Marfusto furi%oso. Orlando in braccio se l' avea recato, E piangea forte quel conte pietoso. Ma quella damisella a mano a mano Giu\ del gambelo discese nel piano, Et ando\ prestamente ivi alla fonte, Ch' era nel mezo del prato fiorito, E gettando acqua a Brandimarte in fronte Ritornar fece il spirto sbigotito: E dolcemente ragionando al conte Dicea voler pigliare altro partito, Che/ poco longe una erba avea veduta, Qual racquista la vita ancor perduta. Dentro alla selva che girava intorno La damisella se pone a cercare, Ne/ stette molto, che fece ritorno Con l' erba che a virtute non ha pare. Ad o^r simiglia quando e\ chiaro il giorno, La notte poi se vede lampeggiare; Il fior vermiglio ha la pianta felice, E come argento e\ bianca sua radice. Avea il baron la testa dissipata Per il gran colpo, come aveti odito; Posevi dentro quella erba fatata La damisella, e chiusela col dito. Fu incontinente la piaga saldata, Ne/ pur se vede dove era ferito; Ma, come il spirto li fu ritornato, Di Fiordelisa il conte ha dimandato. #_ Eccola quivi! $_ a lui rispose Orlando #_ Lei sola ti campo\ veracemente. $_ Cosi\ rispose il conte al suo dimando, Perche/ de l' altra non sapea ni%ente. Brandimarte miro\ la dama, e quando Vide che non e\ quella, un dolor sente Si\ smisurato e si\ nocivo al core, Che quel del trapassar seri\a minore. Volgendo al cel le luce lacrimose: #_ Chi mi campo\, $_ dicea #_ da mortal sorte Per darmi pene tanto dolorose? Or non me era assai meglio aver la morte? Spirti dolenti et anime piatose Che stati del morir sopra le porte, Pieta\ vi prenda della pena mia, Ch' io vo' venir con vosco in compagnia! Non voglio viver, non, senza colei, Che sola {add} e\ne {/add; ene Z} il mio bene e 'l mio conforto; Vivendo, mille volte io morirei. Ahi, Fortuna crudel, come a gran torto Presa hai la guerra contro a' fatti miei! Or che te giovara\ poi che sia morto? Che farai poi, crudel, senza li%anza? Che/ morte finira\ la tua possanza. Tolto m' hai del paese ove fui nato, Che/ ancor me odiasti essendo fanciullino; Di mia casa reale io fui robato, E venduto per schiavo piccolino; Il nome de mio patre aggio scordato E il mio paese, misero! tapino! Ma solo il nome de mia matre ancora Fermo nella memoria mi dimora. Fortuna dispietata, iniqua e strana, Tu me facesti servo ad un barone, Quale era conte di Rocca Silvana; E poi, per darmi piu\ destruzi%one, Con falso viso ti mostrasti umana: E il conte, che mi desti per padrone, Franco mi fece; e, non avendo erede, Ogni sua robba e il suo castel mi dede. E per fingerti a me piu\ grata e sciolta, Dama me desti de tanta beltate: Quella me desti che adesso m' hai tolta, Per farmi ora morir con crudeltate. Odi, fallace, e il mio parlare ascolta: Nocer non posso alla tua vanitate, Ma sempre biasmarotti et in eterno Di te me andro\ dolendo nello inferno. $_ Cosi\ parlando si\ forte piangia, Che avria spezzato un sasso di pietate. Il conte Orlando gran dolor n' avia, E quella dama con umanitate Dolcemente parlando gli dicia: #_ Molto me incresce di tua aversitate, E debbo avere assai compassi%one, Perche/ a dolermi teco aggio cagione. E vo' che intendi se le cose istrane Son date ad altri ancor dalla Fortuna. Mio padre e\ re delle Isole Lontane, Dove il tesor del mondo se raduna; E tanto argento et oro ha in le sue mane, Che altro tanto non e\ sotto la luna, Ne/ ricchezza maggior al sol si vede; Et io restavo a tanto bene erede. Ma non se puote indivinar giammai Quel che sia meglio a desi%are al mondo. Di re figliola e bella mi trovai, Ricca de avere e de stato iocondo; E cio\ mi fu cagion de molti guai, Come te contaraggio il tutto a tondo, Perche/ cognosci a quel che e\mmi incontrato, Che anzi alla morte alcun non e\ beato. Era la fama gia\ sparta de intorno Della ricchezza del mio patre antico; E nominanza del mio viso adorno, O vera o falsa, pur come io te dico, Meno\ duo amanti a chiedermi in un giorno, Ordauro il biondo e il vecchio Folderico; Bello era il primo dal zuffo alla pianta, L' altro de li anni avea piu\ de sessanta. Ricco ciascuno e de schiatta gentile; Ma Folderico sagio era tenuto E de uno antiveder tanto sotile, Che come a Dio del cel gli era creduto. Ordauro era di forza piu\ virile, E grande di persona e ben membruto; Io, che a quel tempo non chiedea consiglio, Il vecchio lascio, e il giovine me piglio. Non era tutta mia la libertate, Pero\ che il patre mio vi tenea parte; Vergogna rafreno\ la voluntate, Che presto in nave avria tratto le sarte. Et anco mi stimava in veritate Poter mandar mia voglia al fin con arte, Et ottenire Ordauro di leggiero; Ma fallito me ando\ questo pensiero. Nelli antichi proverbii dir se suole Che malizia non e\ che donna avanze; Salamon disse gia\ queste parole, Ma al nostro tempo se ritrovan cianze. Provato l' ho a mio costo, e ben mi dole, Ch' aggio perduto l' ultime speranze, Per confidarme alla malizia mia; Perso ho quel ch' io volevo e quel ch' io avia. Perche/, fingendo la faccia vermiglia E gli occhi quanto io pote' vergognosi, Con quel parlar che a pianto se assomiglia, Nanti al mio patre ingenocchion mi posi, E dissi a lui: #" Segnor, s' io son tua figlia, Se sempre il tuo volere al mio preposi, Come fatto ho di certo in abandono, Non mi negare a l' ultimo un sol dono. Questo sera\ che non me dia marito Che prima meco al corso non contenda; E sia per legge fermo e stabilito Che il vincitor per sua moglie mi prenda; Ma fa che 'l vinto sappia che il partito Sia di lasciar la vita per amenda, E sia palese per tutte le bande: Chi non e\ corridor, non me domande. $" Questa richiesta fu crudele e dura, Ma non la seppe il mio patre negare, E fecela per voce e per scrittura Quasi per l' universo divulgare. Ora me tenni lieta e ben secura Poter marito a mia voglia pigliare, Perche/ io son tanto nel corso legiera, Che apena e\ piu\ veloce alcuna fiera. E mi ricordo che nel prato piano Che e\ presso alla citta\ di Damosire, Presi una cerva, correndo, con mano, Et altre cose assai che non vo' dire. Or, come io dissi, Ordauro, quel soprano, Con Folderico insieme ebbe a venire. L' uno e\ canuto e di molti anni pieno, L' altro nel viso angelico e sereno. Pensa tu, cavalliero, a qual s' accosta Lo amoroso voler de una fanciulla. Io tutta al giovanetto ero disposta, E di quel vecchio mi curavo nulla. Piu\ non se dette al fatto indugia o sosta; Venne il vecchiardo sopra ad una mulla, E de alto carco se mostrava stanco; Una gran tasca avea dal lato manco. Il giovanetto viene con gran festa Sopra un corsier, che de oro era guarnito; Salta su il campo et al corso s' apresta. Ciascun mostrava Folderico al dito, Dicendo: #" Il saggio perdera\ la testa, Che/ qua non giovera\ esser scaltrito; Di tanta astuzia al mondo era tenuto, Or per amore egli ha il senno perduto. $" Fuor della terra smontamo ad un prato Per far di nostro corso ultima prova: Folderico la tasca avea da lato. E prima che dal segno alcun se mova, Fu il patto nostro ancora ricontato, E la condizi%on qui se rinova; La turba sta d' intorno alla vedetta, E sol la mossa al terzo suono aspetta. Ciascun di noi dal segno fo partito. Folderico davanti via passava: Io il comportai, per averlo schernito. Come lui vide che a passarlo andava, Un pomo d' oro lucido e polito Fuor della tasca subito cavava; Io, che invaghita fui di quel lavoro, Lasciai la corsa e venni al pomo d' oro. Che/ quel metallo in vista e\ si\ iocondo, Che la piu\ parte del mondo disvia; Et era si\ volubile e ritondo, Che de pigliarlo gran fatica avia. Io presi il primo, e lui getto\ il secondo, Fuggendomi davanti tuttavia, Dove ebbi assai fatica, e ad un ponto Questo pigliai et ebbilo ancor gionto. Io l' ebbi gionto, et eravamo al fine Della affannata corsa e faticosa; E gia\ le tende bianche eran vicine, Dove, compi\to il corso, se riposa. Fra me dicea: ## Convien che io me destine A dietro non tornar per altra cosa; Non tornaria per tutto il mondo un dito, Che/ un vecchio non voglio io per mio marito. Passar me lassaraggio al giovanetto, E lui davante vo' lasciare andare; E questo brutto vecchio e maledetto, Che e\ si\ canuto e vo^lsi maritare, La forma lasciara\ del bacinetto; E gia\ questa ora mille anni a me pare Che Ordauro meco nel corso contenda, Et io lo baci e per vinta mi renda. $# Cosi\ parlava meco nel mio core, Alegra, gia\ vicina alla speranza, Quando il vecchio malvaggio e traditore Il terzo pomo della tasca lanza; E tanto me abaglio\ col suo splendore, Che, benche/ tempo al corso non me avanza, Pur venni adietro e quel pomo pigliai, Ne/ Folderico piu\ gionsi giamai. Lui forte ansando alle tende arivava; E soi gli sono intorno con letizia. Tutta la gente di fuora cridava: #" Adoprata ha il volpone alta malizia. $" Or tu po^i mo pensar se io biastemava, Ch' io piansi il sangue vivo per gran stizia; E nel mio cor dicea: ## Se egli e\ volpone, Farollo essere un becco, per Macone. Che/ mai non intro\ a giostra cavalliero, Ne/ a torniamento per farsi vedere, Che avesse in capo tanto alto il cimiero, Come io faro\ di corne al mio potere. Ponga a guardarme tutto il suo pensiero, Che non gli giovara\ lo antivedere; E s' egli avesse uno occhio in ciascun dito, Ad ogni modo rimarra\ schernito. $# Feci il pensiero e missilo ad effetto. Ma voi aveti forse altro che fare, Perche/ io vedo entrambi nello aspetto Esser sospesi e de intorno guardare; Si\ che io verro\ con voi, e con diletto La mia novella voglio seguitare, Qual or vi piace. Prendite la via, Ch' io sero\ presta a farvi compagnia. $_ Rispose Brandimarte: #_ Il danno mio M' ha tratto della mente al tutto fuore, E de mia dama tanto mi sa rio, Come perduto avessi proprio il core; Si\ che a cercarla e\ tutto il mio desio, E sento per la indugia tal dolore E tanta pena e tanta angoscia e guai, Ch' io non ho inteso cio\ che detto m' hai. $_ E cosi\ tutti tre fo^rno accordati Di cercar Fiordelisa in quel deserto, E non posar giamai son destinati, Sin che di lei non sanno al tutto il certo; E cavalcando se fo^rno invi%ati Nel bosco ombroso e di rame coperto. Ma il lor camino e i fatti e il ragionare Dirovi a ponto in questo altro cantare. Erano entrati alla gran selva folta Quei tre, come di sopra io vi contai: Ciascun, dintorno remirando, ascolta Se Fiordelisa sentisse giamai, Che fo dal rio palmier dormendo tolta; E di lei ragionando io ve lasciai, Che essendo in braccio a quel palmier villano Cridava aiuto adimandando in vano. Brandimarte il suo drudo allor non vi era, Che gli potesse soccorso donare; Anci era travagliato in tal maniera, Che per se stesso avea troppo che fare; Perche/ in quel tempo alla battaglia fera Con quei giganti prese a contrastare, Con Ranchera e Marfusto et Oridante, Come io ve dissi nel cantar davante. Senza soccorso, adunque, la meschina Empi\a de pianti la selva dintorno, Ne/ mai de aiuto chieder se rafina, Battendosi con mano il viso adorno. Via la portava il vecchio a gran ruina Sempre temendo averne onta e gran scorno, Ne/ mai sua mente al tutto ebbe sicura Sin che fu gionto ad una tomba scura. Nel sasso entrava quel falso vecchione, Cridando la donzella ad alta voce. Lui ha ben ferma e certa opini%one Di sfocar quel disio che il cor gli coce; Ma ne la tomba alor stava un leone Ismisurato, orribile e feroce; Il quale, odendo il crido e gran rumore, Usci\ fremendo con molto furore. Come lo vide il vecchio fuora uscire, Non domandati se egli ebbe paura; Pallido in faccia se pose a fuggire, Lasciando quella bella creatura, Che di spavento credette morire; Ma, come volse sua bona ventura, Lasciolla quel leone, e via passava, Seguendo il vecchio che fuggendo andava. Lui gionse il vecchio, che al bosco fuggiva, E tutto quanto l' ebbe a dissipare. La dama non resto\ morta ne/ viva, Ne/ di paura sa quel che si fare; Pur cosi\ quatta per la verde riva Nascosamente prese a caminare, E gia\ callato avendo il monte al piano Ritrovo\ uno omo contrafatto e strano. Questo era grande e quasi era gigante, Con lunga barba e gran capigliatura, Tutto peloso dal capo alle piante: Non fu mai visto piu\ sozza figura. Per scudo una gran scorza avia davante, E una mazza ponderosa e dura; Non avea voce de omo ne/ intelletto: Salvatico era tutto il maladetto. Come la dama riscontro\ nel prato, Presela in braccio; e, caminando forte, Ad una quercia che era li\ da lato, La lego\ stretta con rame ritorte. Poi la\ vicino a l' erba fu colcato, Mirando lei, che ognior chiedea la morte; Lei chiedendo morir sempre piangea, Ma questo omo bestial non la intendea. Lasciamo il dir di quella sventurata, Che de l' un male in l' altro era caduta; Ella di stroppe alla quercia e\ legata, E sol piangendo il suo dolore aiuta. Ora ascoltati de l' altra brigata, Che per cercarla al bosco era venuta: Orlando e Brandimarte e la donzella Per lor campata da fortuna fella. In croppa la portava il conte Orlando, E dolcemente la prese a pregare Che gli contasse, cosi\ caminando, Quel che promesso avea di ragionare. Lei, prima leggermente sospirando, Disse: #_ D' ognor che senti racontare De alcun vecchio marito beffa nova, Tientela certa, e non chieder piu\ prova. Perche/ tante ne son fatte nel mondo, Strane e diverse, come aggio sentito, Che per vergogna gia\ non me nascondo Se anch' io ne feci un' altra al mio marito; Anci mi torna l' animo iocondo D' ognor ch' io mi ramento a qual partito Fo da me scorto quel vecchio canuto, Che si\ scaltrito al mondo era tenuto. Si\ come alla fontana io te contai, Quel vecchio di me fece il male acquisto; Il celo e la fortuna biastemai, Ma ad esso assai toccava esser piu\ tristo, Che/ ne dovea sentire eterni guai, Ne/ fu dal suo gran senno assai provvisto A prender me fanciulla, essendo veglio; Che tuorla antica o star senza era meglio. Lui me condusse con solenne cura, Con pompa e con {add} tri%omfo {/add; triomfo Z} glori%oso, Ad una rocca che ha nome Altamura, Dove il suo gran tesor stava nascoso. Di quel che gli intravenne ebbe paura, Ne/ ancor vista m' avea, che era zeloso; Pero\ me pose dentro a quel girone, Intro una ciambra, peggio che pregione. La\ mi stavo io, de ogni diletto priva, E campi e la marina a riguardare, Perche/ la torre e\ posta in su la riva D' una spiaggia deserta, a lato al mare: Non vi puotria salir persona viva Che non avesse l' ale da volare, E sol da un lato a quel castello altiero Salir se puote per stretto sentiero. Ha sette cinte e sempre nova intrata Per sette torri%oni e sette porte, Ciascuna piccoletta e ben ferrata. Dentro a questo giron cotanto forte Fo' io piacevolmente impregionata, Sempre chiamando, e notte e giorno, morte; Ne/ altro speravo che desse mai fine Al mio dolore e a mie pene meschine. Di zoie e de oro e de ogni altro diletto Ero io fornita troppo a dismisura, Fuor de il piacer che si prende nel letto, Del quale avea piu\ brama e maggior cura; E il vecchio, che avea ben de cio\ sospetto, Sempre tenea le chiave alla cintura, Et era si\ zeloso divenuto, Che avendol visto non seri\a creduto. Percio\ che sempre che alla torre entrava, Le pulice scotea del vestimento, E tutte fuor de l' uscio le cacciava; Ne/ stava per quel di\ piu\ mai contento, Se una mosca con meco ritrovava; Anzi diceva con molto tormento: E\ femina, over maschio questa mosca? Non la tenire, o fa ch' io la cognosca. Mentre ch' io stavo da tanto sospetto Sempre guardata e non sperando aiuto, Ordauro, quel legiadro giovanetto, Piu\ volte a quella rocca era venuto, E fatto ogni arte e prova; et in effetto Altro mai che il castel non ha veduto; Ma Amor, che mai non e\ senza speranza, Con novo antiveder li die' baldanza. Egli era ricco di molto tesoro, Che/ senza quel non val senno un lupino; Onde con molto argento e con molto oro Fe' comprare un palagio in quel confino Dove me {add} tenia {/add; teni\a Z} chiusa il barbasoro, E manco de due miglia era vicino. Non dimandati mo se al mio marito Crebbe sospetto, e se fu sbigotito. Esso temea del vento che soffiava, E del sol che lucea da quella parte, Dove Ordauro al presente dimorava; E con gran cura, diligenzia et arte Ogni picciol pertugio vi serrava, Ne/ mai d' intorno dal giron se parte; E se un occello o nebbia nel ciel vede, Che quel sia Ordauro fermamente crede. Ogni volta salia con molto affanno Sopra alla torre, e trovandomi sola Diceva: #" Io temo che me facci inganno, Che/ non so che qua su de intorno vola. Io ben comprendo la vergogna e il danno, E non ardisco a dirne una parola: Che/ oggi ciascun che ha riguardo al suo fatto, Nome ha zeloso, et e\ stimato un matto. $" Cosi\ diceva; e poi che era partito, Rodendo andava intorno a quel rivaggio; E per spiare ancor tal volta e\ gito Dove abitava Ordauro al bel palaggio; E a lui diceva: #" Quel riman schernito, Che piu\ stima sapere et esser saggio. Se una vien co\lta, non te ne fidare, Che/ l' ultima per tutte puo\ pagare. $" Queste parole e molte altre dicia Sempre fra denti, con voce orgogliosa. Ordauro al suo parlar non attendia, Ma con mente scaltrita et amorosa Sotto la terra avea fatto una via, A ciascuno altro incognita e nascosa. Per una tomba chiusa intorno e scura Gionse una notte dentro ad Altamura. E benche/ egli arivasse d' improviso, Ch' io non stimavo quella cosa mai, Io il ricevetti ben con meglior viso Ch' io non facevo Folderico assai. Ancora esser mi par nel paradiso, Quando ramento come io lo baciai, E come lui baciomme nella bocca; Quella dolcezza ancor nel cor mi tocca. Questo ti giuro e dico per certanza, Ch' io ero ancora vergine e polzella; Che/ Folderico non avea possanza, Et essendo io fanciulla e tenerella, Me avea gabata con menzogna e zanza, Dandomi intender con festa novella, Che sol baciando e sol toccando il petto De amor si dava l' ultimo diletto. Alora il suo parlar vidi esser vano, Con quel piacer che ancor nel cor mi serbo. Noi cominciammo il gioco a mano a mano; Ordauro era frezzoso e di gran nerbo, Si\ che al principio pur mi parve strano, Come io avessi morduto un pomo acerbo; Ma nella fin tal dolce ebbi a sentire, Ch' io me disfeci e credetti morire. Io credetti morir per gran dolcezza, Ne/ altra cosa da poi stimai nel mondo. Altri acquisti possanza o ver ricchezza, Altri esser nominato per il mondo. Ciascun che e\ saggio, il suo piacere aprezza E il viver dilettoso e star iocondo; Chi vo^le onore o robba con affanno, Me non ascolti, et abbiasene il danno. Piu\ fiate poi tornammo a questo gioco, E ciascun giorno piu\ cresci\a il diletto; Ma pur il star rinchiusa in questo loco Mi dava estrema noia e gran dispetto; E il tempo del piacer sempre era poco, Pero\ che quel zeloso maladetto Me ritornava si\ ratto a vedere, Che spesso me sturbo\ di gran piacere. Unde facemmo l' ultimo pensiero Ad ogni modo de quindi fuggire; Ma cio\ non puotea farsi de legiero, Che/ avea quel vecchio si\ spesso a salire La\ dove io stava nel castello altiero, Che non ci dava tempo di partire. Al fin consiglio ce dono\ lo amore, Che dona ingegno e sotigliezza al core. Ordauro Folderico ebbe invitato Al suo palagio assai piacevolmente, Mostrandoli che se era maritato, Per trarli ogni sospeto della mente. Lui, da poi che ebbe il castel ben serrato, Ch' io non potessi uscirne per ni%ente, Ne/ sapendo di che, pur sbigotito, Ne ando\ dove era fatto il gran convito. Io gia\ prima de lui ne era venuta Per quella tomba sotterra nascosa, E d' altri panni ornata e proveduta Si\ come io fossi la novella sposa; Ma come il vecchio m' ebbe qui veduta, Morir credette in pena dolorosa; E vo\lto a Ordauro disse: #" Ahime\ tapino! Che/ ben cio\ mi stimai, per Dio divino! Io non occisi gia\ il tuo patre antico, Ne/ abruciai la tua terra con roina, Che esser dovessi a me crudel nemico E far la vita mia tanto meschina. Ahi tristo e sventurato Folderico, Che sei gabato al fin da una fantina! Ora a mio costo vadase a impiccare Vecchio che ha moglie, e credela guardare. $" Mentre che lui dicea queste parole De ira e de sdegno tutto quanto acceso, Ordauro assai de cio\ con lui se dole, Mostrando in vista non averlo inteso; E giura per la luna e il sole, Che egli e\ contra ragion da lui ripreso; E che per il passato e tutta via Gli ha fatto e falli onore e cortesia. Cridava il vecchio ognior piu\ disperato: #" Questa e\ la cortesia! questo e\ l' onore! Tu m' hai mia moglie, mio tesor robbato, E poi, per darmi tormento maggiore, M' hai ad inganno in tua casa menato, Ladro, ribaldo, falso, traditore, Perch' io veda il mio danno a compimento E la mia onta, e mora di tormento. $" Ordauro se mostrava stupefatto, Dicendo: #" O Dio, che reggi il cel sereno, Come hai costui de l' intelletto tratto, Che fu de tal prudenza e senno pieno? Or de ogni sentimento e\ si\ disfatto, Come occhi non avesse, piu\ ne/ meno. Odi (diceva), Folderico, e vedi: Questa e\ mia moglie, e che sia tua credi. Essa e\ figliola del re Manodante, Che signoreggia le Isole Lontane; Forse che in vista te inganna il sembiante, Perche/ aggio inteso che fo^r due germane Tanto di faccia e membre simigliante, Che, veggendole 'l patre la dimane E la sua matre, che fatte le avia, L' una da l' altra non ricognoscia. Si\ che ben guarda e iudica con teco, Prima che a torto cotanto ti doglie, Perche/ contra al dover turbato e\i meco. $" Diceva il vecchio: #" Non mi vender foglie, Ch' io vedo pur di certo, e non son ceco, Che questa e\ veramente la mia moglie: Ma pur, per non parer paccio ostinato, Vado alla torre, e mo sero\ tornato. E se non la riveggio in quel girone, Non te stimar di aver meco mai pace: In ogni terra, in ogni regi%one Te perseguitaro\, per Dio verace; Ma se io la ritrovo, per Macone De averti detto oltraggio mi dispiace; Ma fa che questa quindi non si mova Insin ch' io torni e vedane la prova. $" Cosi\ dicendo, con molta tempesta, Trottando forte, alla torre tornava; Ma io, che era de lui assai piu\ presta, Gia\ dentro dalla rocca lo aspettava; E sopra il braccio tenendo la testa, Malanconosa in vista me mostrava. Come fu dentro et ebbemi veduta, Meravigliosse e disse: #" Iddio me aiuta! Chi avria creduto mai tal meraviglia, Ne/ che tanto potesse la natura, Che una germana si\ l' altra somiglia De viso, de fazione e di statura? Pur nel cor gran sospetto ancor mi piglia, Et ho, senza cagione, alta paura, Pero\ che io credo, e certo giurarei, Che quella che e\ la\ giu\, fosse costei. $" Poi verso me diceva: #" Io te scongiuro, Se mai speri aver ben che te conforte: Fosti oggi ancor di for da questo muro? Chi te condusse, e chi aperse le porte? Dimmi la verita\, ch' io te assicuro Che danno non avrai, pena, ne/ morte; Ma stu mentisci, et io lo sappia mai, Da me non aspettare altro che guai. $" Ora non dimandar come io giurava Il celo e' soi pianeti tutti quanti: Quel che si fa per ben, Dio non aggrava, Anci ride il spergiuro degli amanti. Cosi\ te dico ch' io non dubitava Giurare e l' Alcorano e' libri santi, Che dapoi ch' era intrata in quel girone Non era uscita per nulla stagione. Lui, che piu\ non sapea quel che se dire, Torna di fora, e le porte serrava. Io d' altra parte non stavo a dormire, Ma per la tomba ascosa me ne andava, E a nova guisa m' ebbi a rivestire. Quando esso gionse, e quivi mi trovava: #" Il cel $" diceva #" e Dio non faria mai Che questa e\ quella che la\ su lasciai. $" Cosi\ piu\ volte in diversa maniera Al modo sopradetto foi mostrata, E si\ for di sospetto il zeloso era, Che spesso me appellava per cognata. Fo dapoi cosa facile e legiera Indi partirsi; perche/ una giornata Ordauro a Folderico disse in breve Che quella aria marina e\ troppo greve; E che non era stato una ora sano, Dapoi che venne quivi ad abitare; Si\ che al giorno sequente e prossimano Nel suo paese volea ritornare, Ch' era da tre giornate indi lontano. Or Folderico non se fie' pregare, Ma per se stesso se fo proferito A farce compagnia for de quel sito. E con noi venne forse da sei miglia, E poi con fretta adietro ritornava. Ora io non so s' egli ebbe meraviglia, Quando alla rocca non me ritrovava. La lunga barba e le canute ciglia, Maledicendo il cel, tutte pelava; E destinato de averme o morire, Nostro camino se pose a seguire. E non avendo possa, ne/ ardimento Di levarme per forza al giovanetto, Veniaci dietro con gran sentimento, Del qual troppo era pieno il maledetto. Ora ciascun di noi era contento, Io, dico, e Ordauro, quel gentil valletto, Che senza altro pensier ne andamo via; Forse da trenta eramo in compagnia. Scudieri e damiselle eran costoro, Tutti senza arme caminando adaggio; Emo la vittualia e argento et oro Posto sopra gambeli al carri%aggio; Perche/ tutta la robba e il gran tesoro Che possedeva quel vecchio malvaggio, Avevamo noi tolta alla sicura, La\ dove io venni per la tomba oscura. Gia\ la prima giornata caminando Avea\n passata senza impedimento; Ordauro meco ne veni\a cantando, Et avea indosso tutto il guarnimento Di piastre e maglia, e cento al fianco il brando; Ma la sua lancia e il bel scudo d' argento E l' elmo adorno di ricco cimero Gli eran portati apresso da un scudero: Quando davanti, in mezo del camino, Scontramo un damigello in su l' arcione. Quel veniva cridando: #" Ahime\ tapino! Aiuto! aiuto! per lo Dio Macone $"; Et era alle sue spalle uno assassino (Cosi\ sembrava in vista quel fellone); Correndo a tutta briglia per il piano Seguiva il primo con la lancia in mano. Per il traverso di quel bosco ombroso Passarno e duo, correndo a gran flagello. Ordauro de natura era pietoso, Onde gli increbbe di quel damigello, E posesi a seguir senza riposo; Ma ciascun di color parea uno uccello, Ch' eran senza arme e scarchi e lor destrieri, Pero\ veloci andavano e legieri. Ordauro il suo ronzone avea coperto Di piastra e maglia, onde ebbe molto affanno: E per esser lui di malizia experto, Ebbe oltra alla fatica ancor gran danno; Perche/, come io conobbi poi di certo, Sol Folderico avea fatto ad inganno Quel giovanetto e quel ladron venire, Accio\ che Ordauro gli avesse a seguire. E come fu da noi si\ dilungato, Che di gran lunga piu\ non si vedia, Il falso vecchio se fu dimostrato, Con circa a vinti armati in compagnia. Ciascun de' nostri se fu spaventato, Chi qua chi la\ per lo bosco fuggia, Ne/ fu chi se ponesse alle diffese, Onde il vecchiardo subito me prese. Se io ero in quel ponto dolorosa, Tu lo puoi, cavallier, fra te pensare. Per una strata de bronchi spinosa, Dove altri non suolea mai caminare, Me conducea quel vecchio alla nascosa, E cento macchie ce fe' traversare, Perche/ de Ordauro avea molta paura; Or noi giongemo ad una valle oscura. Stata ero io presa duo giorni davanti, Quando giongemmo a l' ombroso vallone; Io non avea giamai lasciato e pianti, Benche/ me confortasse quel vechione. Eccote uscir del bosco tre giganti, Ciascuno armato e con grosso bastone; Un d' essi venne avanti e crido\ forte: #" Getti giu\ l' arme chi non vo^l la morte. $" $_ Stava la dama in questo ragionare Col conte Orlando, et ancora seguia, Pero\ che li voleva racontare, Come e giganti l' ebbero in bali\a, E come il vecchio la volse aiutare; E lui fu morto e la sua compagnia, E sua ventura poi de parte in parte, Sin che soccorsa fu da Brandimarte; Ma nova cosa che ebbe ad apparire, Qual sturbo\ il ragionar della donzella; Che/ un cervo al verde prato vedean gire Pascendo intorno per l' erba novella. Come era vago non potrebbi io dire, Che/ fiera non fu mai cotanto bella; Quel cervo e\ della Fata del Tesoro, Ambe le corne ha grande e de fino oro. Lui come neve e\ bianco tutto quanto, Sei volte il giorno di corno se muta; Ma de pigliarlo alcun non se da\ vanto, Se forse quella fata non lo aiuta; Et essa e\ bella et e\ ricca cotanto, Che omo non ama e ciascadun riffiuta; Che/ beltate e ricchezza a ogni maniera Per se/ ciascuna fa la donna altiera. Or questo cervo pascendo ne andava, Quando fo visto dai duo cavallieri E dalla dama, che ancor ragionava. Brandimarte a pigliarlo ebbe in pensieri, Ma non gia\ il conte, perche/ egli estimava Quelle ricchezze per cose legieri; E pero\ apena li fece riguardo, Abenche/ avesse il bon destrier Baiardo. Ma sopra a Brigliadoro e\ Brandimarte, Qual, come il cervo vide, in su quel ponto Dal conte Orlando subito se parte, Che/ de acquistarlo avea l' animo pronto; Ma quello era fatato con tal arte, Che non l' ari\a volando alcuno agionto Pero\ il seguiva Brandimarte in vano Quel giorno tutto quanto per il piano. Poiche/ venuta fu la notte oscura, Lui perse il cervo per le fronde ombrose, E veggendosi al fin de sua ventura, Poscia che 'l giorno la luce nascose, Vestito si\ come era de armatura Nel verde prato a riposar se pose; E poi nel tempo fresco, al matutino, Monta il destriero e torna al suo camino. Quel che poi fece con l' omo selvaggio Che la sua Fiordelisa avea legata, Nel canto che vien drieto conteraggio, E diro\ la battaglia cominciata Tra Ranaldo e Grifon senza vantaggio. Per Dio, tornate a me, bella brigata, Che/ volentieri ad ascoltar vi aspetto, Per darvi al mio cantar zoia e diletto. Seguendo, bei segnori, il nostro dire, Brandimarte dal conte era partito, E perse il cervo e posese a dormire; Ma poi, al novo giorno resentito, Al suo compagno volea rivenire; E gia\ sopra il destrier sendo salito, Ascoltando li parve voce umana Che si dolesse, e non molto lontana. E poi che un pezzo per odir fu stato, Verso quel loco se pose ad andare; E come aveva alquanto cavalcato, Stavasi fermo e quieto ad ascoltare; E cosi\ andando gionse ad un bel prato, E colei vide, che odi\a lamentare, Legata ad una quercia per le braccia; Come la vide, la cognobbe in faccia. Perche/ quella era la sua Fiordelisa, Tutto il suo bene e vita del suo core; Si\ che pensati voi or con qual guisa Se cangio\ Brandimarte de colore. Era l' anima sua tutta divisa: Parte allegrezza e parte era dolore, Che/ d' averla trovata era zoioso, Ma del suo mal turbato e doloroso. Piu\ non indugia, che salta nel piano, E lega Brigliadoro ad una rama; Va con gran fretta il cavallier soprano Per discioglier colei che cotanto ama; Ma quello omo bestiale et inumano Ch' era nascoso in guardia de la dama, Come lo vide, usci\ de quel macchione, E imbraccia il scudo et impugna il bastone. Era quel scudo tutto de una scorza Ben atto a sostenire ogni percossa, Ne/ dubbio e\ che se piega o che se torza, Perche/ de un gran palmo egli era grossa. Omo non ave mai cotanta forza, Cavalliero, o gigante di gran possa, Quanto ha quello omo rigido e selvaggio: Ma non cognosce a zuffa alcun vantaggio. Abita in bosco sempre, alla verdura, Vive de frutti e beve al fiume pieno; E dicesi ch' egli ha cotal natura, Che sempre piange, quando e\ il cel sereno, Perche/ egli ha del mal tempo alor paura, E che 'l caldo del sol li venga meno; Ma quando pioggia e vento il cel saetta, Alor sta lieto, che/ 'l bon tempo aspetta. Vene questo omo adosso a Brandimarte, Col scudo in braccio e la maza impugnata; Non ha di guerra lui senno ne/ arte, Ma legerezza e forza smisurata. Non era il baron vo\lto in quella parte, Ma la\ dove la dama era legata; E se lei forse non se ne avedia, Quello improviso adosso li giongia. De cio\ non se era Brandimarte accorto, Ma quella dama, che 'l vide venire, Crido\: #_ Gua^rti, baron, che tu sei morto! $_ Non se ebbe il cavalliero a sbigotire; E piu\ d' esso la dama ebbe sconforto Che di se stessa, ne/ del suo morire, Perche/ con tutto il cor tanto lo amava Che, se/ scordando, sol di lui pensava. Presto voltosse il barone animoso E se ricolse ad optimo governo; E quando vide quel brutto peloso, Beffandolo fra se/, ne fie' gran scherno; E stette assai sospeso e dubbi%oso Se questo era omo o spirto dello inferno; Ma sia quel che esser voglia, e' non ne cura, E vallo a ritrovar senza paura. A prima gionta il salvatico fiero Meno\ sua mazza, che cotanto pesa, E gionse sopra il scudo al cavalliero, Che ben stava coperto in sua diffesa; E come quel che e\ scorto a tal mestiero, Taglia quella col brando alla distesa. Come lui vide rotta la sua mazza, Saltagli adosso e per forza l' abbrazza. E lo {add} tenia {/add; teni\a Z} si\ stretto e si\ serrato, Che non puoteva se stesso aiutare. Piu\ volte il cavallier se fo provato Con ogni forza de sua man campare; Ma quanto un fanciulletto adesso nato Potrebbe a petto a uno omo contrastare, Tanto il selvaggio di estrema possanza E di gran forza Brandimarte avanza. Via ne 'l portava e stimavalo tanto Quanto fa il lupo la vil pecorella. Ora chi odisse il smisurato pianto Che facea lamentando la donzella, A Dio chiamando aiuto, ad ogni Santo In cui sperava, alla Fede novella: Chi odisse il pianto e 'l piatoso sermone, Ciascuno avria di lei compassi%one. Tuttavia quel selvaggio omo il portava; Per le braccia a traverso l' avia preso; Lui quanto piu\ puotea si dimenava, D' ira, de orgoglio e di vergogna acceso; Ma quel suo dimenar poco giovava, Perche/ il selvaggio lo {add} tenia {/add; teni\a Z} sospeso Alto da terra, perche/ era maggiore, Correndo tuttavia con gran furore. Gionse correndo, col barone in braccio, Dove era un' alta pietra smisurata; Correa nella radice un gran rivaccio, Che l' avea da quel canto dirupata, Si\ che da cima al fondo avea di spaccio Seicento braccia la ripa tagliata. Quivi il selvaggio ne porto\ il barone Per trabuccarlo giuso a quel vallone. Come fo gionto a l' orlo del gran sasso, Via lo lancia da se/ senza riguardo; Poco manco\ che non gionse al fraccasso Del dirupo alto il cavallier gagliardo, E ben gli fo vicino a men d' un passo. Ma presto salto\ in piede e non fo tardo; Perche/ egli aveva ancora in mano il brando, Verso il selvaggio se ne ando\ cridando. Quel non aveva scudo ne/ bastone, L' uno era rotto, l' altro avea lasciato; Corse ad uno olmo e prese un gran troncone, E non l' avendo ancor tutto spiccato, Brandimarte il feri\ sopra al gallone, E di gran piaga l' ebbe vulnerato. Lui, ch' e\ orgoglioso et ha superbia molta, Quel troncon lascia et al baron si volta. Voltasi quel selvaggio furi%oso A Brandimarte per saltargli adosso; Il cavallier col brando sanguinoso, Nel voltar che se fie', l' ebbe percosso; Via taglio\ un braccio, che e\ tutto peloso, E gionse al busto smisurato e grosso; Giu\ per le coste insieme alla ventraglia Tutte col brando ad un colpo gli taglia. Quel non se puote alor piu\ sostenire, Cade cridando in su la terra dura; E' non sapea parole proferire, Ma facea voce terribile e oscura. Quando il barone lo vide morire, Quivi lo lascia e piu\ non ne da\ cura, Anci correndo a quel prato ne andava, Dove il destriero e la sua dama stava. Come fu gionto ove era la donzella, Di gran letizia non sa che si fare; Tienla abbracciata e gia\ non li favella, Che/ de allegrezza non puotea parlare. Or per non far de cio\ longa novella, Quella disciolse et ebbe a cavalcare, E posesela in groppa, e a lei rivolto Parlando andava per quel bosco folto. E l' uno e l' altro insieme racontava, Questa come fu tolta dal vecchione Che per la selva oscura la portava, E come fu poi morto dal leone; E cosi\ a lei Brandimarte narrava De' tre giganti quella questi%one Che fatta aveano al prato della fonte, E de la dama che portava il conte. E cosi\ l' uno e l' altro ragionando De lor travaglio e de la lor paura, Veniano a ritrovare il conte Orlando. Ma ad esso era incontrata altra ventura, Qual poi a tempo vi verro\ contando; Ora al presente poneti la cura Ad ascoltar la zuffa e la tenzone Che ebbe Ranaldo col franco Grifone. Ne/ so se vi ricorda nel presente, Segnor, come io lasciassi quella cosa De' due baron, che nequitosamente Facean cruda battaglia e tenebrosa, E stimavan la vita per ni%ente, E quello e questo mai non se riposa, Ne/ sparma colpi alcun, ne/ si nasconde, Ma l' uno l' altro a bon gioco risponde. Tutta la gente quivi se adunava, Pedoni e cavallieri a poco a poco; Si\ ciascun de veder desiderava, Che strettamente li bastava il loco. Marfisa avanti agli altri riguardava, Tutta nel viso rossa come un foco; Ma, mentre che mirava, ecco Ranaldo Mena un gran colpo furi%oso e saldo; E sopra l' elmo gionse de Grifone, Ch' era affatato, come aveti odito; Se alora avesse gionto un torri%one, Sin gioso al fondo l' arebbe partito; Ma quello incanto e quella fatasone Campo\ da morte il giovanetto ardito, Benche/ a tal guisa fu del spirto privo, Che non moritte e non rimase vivo. Pero\ che, briglia e staffe abandonando, Pendea de il suo destriero al destro lato, E per il prato strasinava il brando, Perche/ l' aveva al braccio incatenato. Quando Aquilante il venne remirando, Ben lo credette di vita passato, E sospirando di dolore e d' ira Verso Ranaldo furi%oso tira. Questo era anch' esso figlio de Olivero, Come Grifone, e di quel ventre nato, Ne/ di lui manco forte ne/ men fiero, E come l' altro aponto era fatato: L' arme sue, dico, il brando e il bon destriero, Benche/ a contrario fosse divisato, Che/ questo tutto e\ nero, e quello e\ bianco, Ma l' un e l' altro a meraviglia e\ franco. Si\ che non fo questo assalto minore, Ma piu\ crudele assai et inumano, Perche/ Aquilante avea molto dolore, Credendo essere occiso il suo germano; E come disperato a gran furore Combattea contra il sir de Montealbano, Ferendo ad ambe man con molta fretta, Per morir presto o far presto vendetta. Da l' altra parte a Ranaldo parea Ricever da costoro a torto ingiuria, Pero\ piu\ dello usato combattea Terribilmente, acceso in maggior furia; Contra se/ tutti quanti li vedea, E lui soletto non ha chi lo alturia Se non Fusberta e il suo core animoso, Pero\ combatte irato e furi%oso. #_ Or via, $_ diceva lui #_ brutta canaglia! Mandati ancor de li altri a ricercare, Che vengano a fornir vostra battaglia; O venitene insieme, se vi pare, Che tutti non vi stimo un fil de paglia. Come poteti gli occhi al celo alciare De vergogna, o vedere vi lasciati, Sendo tra gli altri si\ vituperati? $_ Non respondeva Aquilante ni%ente, Benche/ egli odisse quel parlar superbo, Ma, stringendo de orgoglio dente a dente, Con quanta possa aveva e quanto nerbo Feri\ Ranaldo ne l' elmo lucente De un colpo furi%oso e tanto acerbo, Che Ranaldo le braccia al celo aperse Per la gran pena che al colpo sofferse. E se il suo brando non fosse legato Al destro braccio, come lui portava, Ben li seri\a caduto al verde prato. Or Rabicano a gran furia ne andava, Perche/ Ranaldo il freno avea lasciato, Ne/ dove fosse alor se ricordava; Ma di profondo spasmo e di dolore Ave perduto lo intelletto e il core. Aquilante, de orgoglio e d' ira pieno, Per tutto intorno al campo lo seguia; Et avea preso al cor tanto veleno, Che cosi\ volontier morto l' avria, Come fosse un pagan, ne/ piu\ ne/ meno. Ma ritorno\ Ranaldo in sua bali\a; Proprio alor che Aquilante l' avea gionto, In se/ rivenne vigoroso e pronto. E, ritrovato il brando che avea perso, Volto\ contra Aquilante il corridore, Acceso di furor troppo diverso; Con quanta forza mai puote maggiore, Lo gionse a mezo l' elmo nel traverso. Non valse ad Aquilante il suo valore, Ne/ l' arme fatte per incantamento, Che/ stramortito perse il sentimento. Ranaldo gia\ ni%ente indugiava, Perche/ era d' ira pieno a quella fiata, E l' elmo prestamente li slaciava, E ben gli avrebbe la testa tagliata: Ma Chiari%one la lancia arrestava, Cosi\ come era la cosa ordinata; Ne/ de lui se accorgendo il fio d' Amone, Di traverso il feri\ sopra il gallone. Piastra non lo diffese o maglia grossa, Ma crudelmente al fianco l' ha ferito. Alor che ebbe Ranaldo la percossa, Grifone aponto se fo risentito, Ch' era stato gran pezzo in molta angossa E fuora de intelletto sbalordito; Via passo\ Chiari%on, rotta ha la lancia, Che/ tenire il destrier non ha possancia. Or, come io dissi, Grifon se risente, Alor che via ne andava Chiari%one, E non sapea de Aquilante ni%ente, Ne/ de questo altro ancor la questi%one, Che/ mosso non serebbe certamente; Ma cosi\ come usci\ de stordigione, Per vendicarse il colpo che avea co\lto Verso a Ranaldo furi%oso e\ vo\lto. Non era ancora il sir de Montealbano Aconcio ne l' arcione e rassettato, Per quello incontro si\ crudo e villano Che quasi fuor di sella ando\ nel prato, Quando gionse Grifon col brando in mano; Trovandolo improviso e sbarattato, Gli dono\ un colpo orribile e possente: Voltosse il fio de Amon come un serpente. Come un serpente per la coda preso, Che gonfia il collo e il busto velenoso, Cotal Ranaldo, de grand' ira acceso, A Grifon se rivolse nequitoso; E ben l' avrebbe per terra disteso, Tanto menava un colpo furi%oso; Se non che Chiari%on, ch' era voltato, Giongendo sturbo\ il gioco cominciato. E sopra il braccio destro lo percosse, Come ebbe de improviso ad arivare, E con tanta ruina lo commosse, Che quasi il fece il brando abandonare. Pensati se Ranaldo ora adirosse, Che perder non vo' tempo al racontare; Forte cridando, giura a Dio divino Che tutti non gli stima un vil lupino. E se rivolta contra a Chiari%one, E darli morte al tutto e\ delibrato; Ma gia\ per questo non resta Grifone, Ne/ il lascia prender lena e trare il fiato. Ecco Aquilante ariva alla tenzone, Che era de stordigion gia\ ritornato, Ma non gia\ al tutto, perche/ veramente Non s' accorgea de gli altri duo ni%ente: De gli altri duo che, ciascadun piu\ fiero, Stanno d' intorno Ranaldo a ferire; Cio\ non pensa Aquilante, quello altiero, Ma sua battaglia destina finire. Spronando a gran ruina il suo destriero Lascia sopra a Ranaldo un colpo gire Tanto feroce, dispietato e crudo, Che taglio\ tutto per traverso il scudo. Sotto il scudo la piastra del bracciale Sopra un cor' buffalino era guarnita; La manica de maglie nulla vale, Che/ gli fece nel braccio aspra ferita. A' circonstanti cio\ parea gran male; Sopra a gli altri Marfisa, quella ardita, Va correndo, che/ apena ritenuto Se era sin ora di donargli aiuto. Onde se mosse lui con la regina Che di prodezza al mondo non ha pare. Qual vento, qual tempesta di marina Se puote al gran furore equiperare? Quando Marfisa mosse con ruina, Parea che e monti avessero a cascare, E' fiumi andasser nello inferno al basso, Ardendo l' aria e il celo a gran fraccasso. A quel furor terribil e diverso Serebbe tutto il mondo sbigotito; Per cio\ non ha Grifon l' animo perso, Ne/ il suo german, che fo cotanto ardito; Ma ciascun de gli altri ha il cor summerso Quando vider colei sopra a quel sito, Qual con tal furia nel giorno davanti Gli avea cacciati e rotti tutti quanti. Venner contra Marfisa e duo germani, Ciascun di lor se stringe, il scudo imbraccia; E il pro' Ranaldo, solo in su quei piani, Al re Adri%ano e a Chiari%on minaccia; E fo^r Torindo et Oberto alle mani, Ben che ferito e\ Oberto nella faccia. Trufaldin sta da parte e pone mente, Come avesse de questo a far ni%ente. L' una e poi l' altra zuffa voglio dire, Perche/ in tre lochi a un tempo se travaglia, E il rumore e\ si\ grande et il ferire E il spezzar delle piastre e della maglia, Che apena se potrebbe il trono odire. Or, cominciando alla prima battaglia, Grifone et Aquilante alla frontera Tolsero in mezo la regina fiera. Lei, come una leonza che di pare Se veggia in mezo a duo cervi arivata, Che ad ambo ha il core e non sa che si fare, Ma batte i denti, e quello e questo guata; Cotal Marfisa se vedea mirare, Adosso l' uno e l' altro inanimata, Sol dubitando la regina forte A cui prima donar debba la morte. Ma star sospesa non li fa mestiero, Che/ ben gli die\ Grifone altro pensare; Ad ambe mani il giovanetto fiero Un colpo smisurato lascio\ andare. Il drago, che ha la dama per cimiero, Fece in due parte alla terra callare; Non fo Marfisa per quel colpo mossa, Benche/ sentisse al capo gran percossa. Verso Grifon turbata un colpo mena, Con quel gran brando che ha tronca la ponta; Ma non e\ verso lui voltata apena, Che nel collo Aquilante l' ebbe gionta. Pensati or se ella rode la catena, E se a tal cosa prese sdegno et onta, Perche/ quel colpo orribile e improviso Batter li fece contra a l' elmo il viso. E gli usci\ il sangue da' denti e dal naso, Che non gli avvenne in battaglia piu\ mai. Dricciandosi crido\: #_ Giotton malvaso, Se tu sapesti quel che tu non sai, Voresti nel girone esser rimaso: Or vo' che sappi che tu morirai Per le mie mane, e non e\ in celo Iddio Che te possa campar dal furor mio. $_ Mentre che ella braveggia a suo volere, Non ha il franco Grifone il tempo perso, Ma con ogni sua forza e suo potere In fronte la feri\ de un gran riverso. Io non sapria cantando far vedere Di lei lo assalto orribile e diverso, Che/, non curando piu\ la sua persona, Verso Aquilante tutta se abandona. Feri\ con tal superbia la adirata, Con tal ruina e con furor cotanto, Che, se non fosse le piastre incantata, Fesso l' avria per mezzo tutto quanto. Dicea il franco Grifon: #_ Cagna rabbiata, Tu non te donarai al mondo il vanto Che promisso hai, de occider mio germano: Ma sera\ tuo zanzar bugiardo e vano. $_ Cosi\ dicendo la feri\ del brando Con gran tempesta ne l' elmo lucente. Or, bei segnori, a Dio ve racomando, Perche/ finito e\ il mio dire al presente; E, se tornati, verrovi contando Questa battaglia nel canto sequente, Qual fo tra gente di cotanto ardire, Che ve fia gran diletto odendol dire. Se non me inganna, segnor, la memoria, Seguir convene una zuffa grandissima, Che/ a l' altro canto abandonai la istoria Della dama terribile e fortissima, Quale ha tanta arroganza e si\ gran boria, Che vergognata se stima e vilissima E che beffando ogni om dietro gli rida, Se tutto il mondo a morte non disfida. Da l' altra parte Aquilante e Grifone Eran duo cavallier di tanto ardire, Che lo universo non avea barone Qual gli potesse entrambi sostenire: Dico ne/ Orlando, ne/ il figlio de Amone, O di qual altro piu\ se possa dire, Perche/ ciascun di lor, fronte per fronte, Tiene battaglia al pro' Ranaldo e al conte. Onde una zuffa si\ pericolosa Non fo nel mondo piu\ fatta giamai, Come fu tra Marfisa valorosa E i duo guerrer, che avean prodezza assai. Per ordine vi voglio or dir la cosa, Che/, se ben mi ramento, io ve lasciai Come la dama ne l' elmo forbito Era percossa da Grifone ardito. A lui se volta con tanta ruina, Che lo credette al tutto dissipare; Gionse nel scudo la forte regina, E quel spezzato fa per terra andare; E se non era l' armatura fina Che quella fata bianca ebbe a incantare, Tagliava lui con tutto il suo destriero, Tanto fu il colpo dispietato e fiero. Ben gli rispuose il franco giovanetto Et a due man ne l' elmo la percosse, E callo\ il brando ne lo armato petto. Aquilante a quel tempo ancor se mosse; Ma la regina con molto dispetto Contra di lui turbata rivoltosse, E nel viso il feri\ con tal tempesta, Che su le groppe il fie' piegar la testa. Ne/ pone indugia, che a Grifon se volta, E mena un colpo tanto disperato, Che al giovanetto avria la vita tolta, Se quel non fusse per incanto armato. Mentre a quel colpo e\ la dama disciolta, Aquilante arivo\ da l' altro lato, E con gran furia ne l' elmo la afferra, Credendo a forza metterla per terra. Forte tira Aquilante ad ambe braccia; Marfisa abranca lui di sopra al scudo, E via dal petto con la mano il straccia. Allor Grifone, il giovanetto drudo, De aiutare Aquilante se procaccia, E meno\ un colpo dispietato e crudo, Tal che col brando il scudo gli fracassa; Lei se rivolta et Aquilante lassa. Lascia Aquilante e voltasi al germano, E lo feri\ de un colpo furi%oso; Or chi piu\ presto puo\, gioca de mano, Ne/ indugia vi si pone, o alcun riposo. Come in un tempo oscuro e subitano, Che vien con troni e vento rui%noso, Grandine e pioggia batte in ogni sponda, Che l' erbe strugge e gli arbori disfronda; Cosi\ son essi, et era il suo colpire: Ni%un de' duo quella dama abandona, Or l' uno or l' altro l' ha sempre a ferire. Lei da altra parte e\ si\ franca persona, Che il lor vantaggio poco viene a dire. Alle spesse percosse il cel risuona; Ne/ vinti fabri a botta di martello Farian tanto rumore e tal flagello. Vicino a questi, proprio in su quel piano, Era un' altra terribil questi%one, Pero\ che 'l franco sir de Montealbano Ha il re Adri%ano adosso e Chiari%one. Benche/ ferito e\ quel baron soprano Forte nel braccio manco e nel gallone, Pure e\ si\ fiero e si\ di guerra saggio, Che a' duo combatte et ha sempre avantaggio. Tra il forte Oberto e quel re de Turchia La zuffa cominciata ancor durava; Torindo la battaglia mantenia, Abenche/ Oberto forte lo avanzava. Piu\ fier cresce lo assalto tutta via, In quei tre lochi ogni om se adoperava; Vero e\ che con piu\ ardore et altra guisa Se combattea la\ dove era Marfisa. Ma poi de tutte tre queste battaglie Vi contaraggio il fin, cio\ vi prometto; Or convengo narrarvi altre travaglie De il conte Orlando, che giva soletto Tra l' aspre spine e le sassose scaglie, Dove il lasciai, in quel folto boschetto; Sol di trovare il suo compagno ha cura, Sempre cercando insino a notte scura. Da poi che 'l giorno al tutto fu passato, E gia\ splendia nel cel ciascuna stella, E non trova colui che egli ha cercato, Ne/ scontra che de quel sappia novella, Smonta Baiardo e discese nel prato, Et avea seco quella damigella Di cui longo parlare aveti odito, Qual fie' la beffa al suo vecchio marito. Lei de essere assalita dubitava, E forse non gli avria fatto contrasto; Ma questo dubbio non gli bisognava, Che/ Orlando non era uso a cotal pasto. Turpino affirma che il conte de Brava Fo ne la vita sua vergine e casto. Credete voi quel che vi piace ormai; Turpin de l' altre cose dice assai. Colcossi a l' erba verde il conte Orlando, Ne/ mai se mosse insino al di\ nascente. Lui dormia forte, sempre sornachiando; Ma la donzella non dormi\ ni%ente, Perche/ stava sospesa, imaginando Che questo cavallier tanto valente Non fosse al tutto si\ crudo de core, Che non pigliasse alcun piacer de amore. Ma poi che la chiara alba era levata, E vide del baron le triste prove, In groppa gli monto\ disconsolata, E se saputo avesse andare altrove, Via volentieri ne serebbe andata; Ma, come io dico, non sapeva il dove. Malinconiosa e tacita si stava: Il conte la cagion gli domandava. Ella rispose: #_ Il vostro sornacchiare Non mi lascio\ questa notte dormire, Et, oltra a cio\, me sentia piziccare. $_ Dicendo questo e volendo altro dire, Avanti a loro una donzella appare, Che fuor de un bel boschetto ebbe ad uscire, Sopra de un palafren di seta adorno; Un libro ha in mano et alle spalle un corno. Bianco era il corno e d' un ricco lavoro, Troppo mirabilmente fabricato; Di smalto colorito e splendido oro Da ciascun capo e in mezo era legato; E ben valeva infinito tesoro, De tante ricche pietre era adornato: E, come io dissi, il porta una donzella Sopra de l' altre grazi%osa e bella. Come fu giunta, ad Orlando se inchina, E con parlar cortese e voce pura Gli disse: #_ Cavallier, questa matina Trovato aveti la maggior ventura Che abbia la terra e tutta la marina; Ma a cio\ bisogna un cor senza paura, Quale aver debbe un cavallier perfetto, Si\ come voi mostrati nello aspetto. Questo libro la insegna ad acquistare, Ma il modo e la maniera convien dire. Prima il bel corno vi convien suonare, Poi de improviso questo libro aprire, E leggeriti quel che avriti a fare Di quella cosa che abbia ad apparire; Perche/, suonando il corno, a prima voce Verra\ qualcosa orribile e feroce. Ma il libro chiarira\, quale io ve ho detto, Come vi abbiate in quella a governare; E non crediati gia\ di aver diletto, Ma converravi il brando adoperare. Come sereti fuor di quel sospetto, Non vi bisogna ponto indugi%are, Che/ vostra liberta\ vi seri\a tolta; Ma il corno suonareti un' altra volta. Et a quel suono ancor qualche altra cosa Vedreti uscire e qualche gran periglio; E voi, come persona valorosa, Aprite il libro e prendite consiglio; Ma se teneti l' alma {add} pau%rosa, {/add; paurosa, Z} A tal ventura non dati de piglio; Perche/ ardito principio e mala fine Fatto ha piu\ volte assai gente tapine. E cio\ ve dico per questa ragione: Il corno per incanto e\ fabricato, E se alcun cavalliero e\ si\ fellone, Che dopo il primo suon sia spaventato, Sempre seranne in sua vita pregione, Che/ a la Isola del Lago fia menato; Ne/ a cui spiace il finir, die' cominciare: Tre volte il corno se convien sonare. Alle due prime incontra gran travaglia, Pena e fatica troppo smisurata, Et a ciascuna convien far battaglia; Ma, suonando da poi la terza fiata, Non bisogna adoprar brando ne/ maglia, Che uscira\ cosa tanto aventurata, Qual, se campasti ancor de li anni cento In vostra vita, vi fara\ contento. $_ Da poi che il conte dalla dama intese L' alta ventura e la gran meraviglia, De trarla al fine entro al suo cor se accese, Ne/ fra se/ pensa o con altrui consiglia, Ma con gran volunta\ la man distese, E prestamente il libro e il corno piglia; E per meglio acconciarse a quella guerra, La dama che avea in groppa pose a terra. Poi messe a bocca il corno in abandono, Come colui che cio\ ben far sapiva. Sembrava quasi quella voce un trono, E ben da longe de intorno se odiva; Et ecco nella fin del primo suono Una gran pietra in due parte se apriva; La pietra a cento braccia era vicina: Tutta se aperse con molta ruina. Rotta che fo la pietra per traverso, Duo tori uscirno con molto rumore, Ciascun piu\ fiero orribile e diverso, Con vista cruda e piena di terrore. Le corne avian di ferro, e il pel riverso Tutto alla testa, e di strano colore, Pero\ che or verde, or negro se mostrava, Or giallo, or rosso, e sempre lustrigiava. Aperse Orlando il libro incontinente; Cosi\ diceva a ponto la scrittura: #+ Cavallier, sappi che serai perdente, Se ad occider quei duo tu poni cura, Che/ con la spada faresti ni%ente; Ma se vo^i trare a fin questa ventura, Pigliarli te convien con molta pena E legarli ambi insieme a una catena. Poi che sian gionti, ti conviene andare La\ dove vedi la pietra intagliata, E il campo ivi de intorno tutto arare; E questo e\ quanto alla prima sonata. Nella seconda torna a riguardare, Perche/ il modo e la via te fia mostrata De aver de questa impresa onore o morte. Via! via! barone; e fa che te conforte. $+ Non fece Orlando al libro piu\ riguardo, Ma se rivolse al fraccassato sasso; Ne/ certo bisognava esser piu\ tardo, Pero\ che e tori uscirno a gran fracasso. Esso era gia\ smontato di Baiardo, E lor contra ne andava a fermo passo. Or gionse il primo et abassa la testa E feri\ in fianco il conte a gran tempesta. Piu\ de otto braccia ad alto l' ha gettato, E cade in terra con grave percossa. Gionse il secondo, e col corno ferrato Ruppe le piastre, usbergo e maglia grossa, E un' altra fiata al cel lo ebbe levato, E ben gli fe' doler le polpe e l' ossa; Vero e\ che alcun di lor non l' ha ferito, Perche/ e\ fatato il cavalliero ardito. Or se lui se turbo\, non dimandate, Che/ contar non puotria la voce umana; Come ebbe in terra le piante fermate, Ben dimostrava sua forza soprana, Botte menando tanto desperate Che sibillar faceva Durindana; E per le corne e pel dosso peloso Mena a traverso il conte furi%oso. Ma, come il brando suo fosse de un fusto, Non li puotea tagliar la pelle adosso; Cosi\ fatato avean quei tori il busto, Che tutti e brandi un pel {add} no' {/add; no Z} gli avrian mosso; E benche/ 'l conte fosse aspro e robusto, L' avean di qua, di la\ tanto percosso, Con le corne di ferro si\ pistato, Che a gran fatica puotea trar il fiato. Pur, come quel che e\ fiero oltra a misura, Facea del suo dolore aspra vendetta; Sempre combatte con vista secura, E de ferire a l' uno e a l' altro afretta; E benche/ abbian la pelle e grossa e dura, Muggiavan molte fiate per gran stretta, Che/ lui feriva con tanta roina, Che spesso a terra or questo or quello inchina. E cominciavan gia\ de rinculare, A testa bassa facendo diffesa; Ma, come il conte gli andava a trovare, Era di novo sua superbia accesa. Cosi\ tre volte se ebbero a fermare, E tre volte tornarno alla contesa: Al fine Orlando, per finir la guerra, Un d' essi in fronte per un corno afferra. Con la sinistra man nel corno il piglia, E quel, forte mugiando, furi%ava Facendo salti grandi a meraviglia, E gia\ per questo Orlando nol lasciava. Esso avea tratto a Baiardo la briglia E sotto la cintura la portava. Questa era aredinata di catena: Prendela il conte e il toro intorno mena. E mentre che cosi\ questo ragira, Tenendol tuttavia preso nel corno, Quell' altro toro, acceso de molta ira, Sempre ferendo a lui giva d' intorno. Il conte con gran forza il primo tira Dove e\ un pilastro de marmore adorno, Che fu del re Bavardo sepultura, Come mostrava intorno la scrittura. Con questa briglia il primo ebbe legato, E similmente ancor prese il secondo; E poi che l' ebbe a quel sasso menato, Tanto gli batte al colpo furibondo, Che a l' uno e l' altro e\ l' orgoglio mancato. Non se indugia il guerrer, che e\ fior del mondo, Ma si\ fra e tori attacca la sua spada, Che 'l stocco avanti e l' elzo adrieto vada. Poi se fece d' un tronco una gran mazza, E come biolco se pone ad arare; Quei duo feroci tori avanti cazza E dritto il solco li fa caminare. Sempre col tronco li batte e minazza: Mai non fu visto il piu\ bel lavorare. Per terra e\ Durindana e par che rada, Radice e pietre taglia quella spada. Poi che fu il campo nelle sue confine Arato tutto, Orlando fie' gran festa, Dio ringraziando e sue virtu\ divine, Che gli avea dato onor de tanta inchiesta. Poi lascio\ e tori, e non se vidde il fine De lor, che se ne andarno con tempesta; Muggiando forte via passarno un monte, E usci^r de vista alle donzelle e al conte. Benche/ sofferto avesse molto affanno Il franco conte alla battaglia dura, A lui pareva ciascuna ora uno anno De poter trare a fin tanta ventura; Ne/ stima che per forza o per inganno Possa esser vinta sua mente sicura. Senza altramente adunque riposare, Prende il bel corno e comincia a suonare. Era smontata giu\ del palafreno Quella donzella che portava il corno, E nel bel prato de fioretti pieno Se avea d' una ghirlanda il capo adorno; Ma, come il suon del conte venne meno, Tremo\ quella campagna tutta intorno, E un piccol monticel ch' era in quel loco, Se aperse in cima e fuor getto\ gran foco. Stavasi queto il figlio di Melone, Per veder cio\ che al fine avesse a uscire. Ecco fuor di quel monte esce un dragone, Terribil tanto, ch' io nol posso dire. La dama, che sapea la fatasone, Tenne quell' altra, che volea fuggire, Dicendo: #_ Sopra me sta' ti sicura, Che/ solo al cavallier tocca paura. Questa facenda a noi non apartiene, Ma quel barone al tutto fia deserto. $_ Rispose l' altra: #_ Ben se gli conviene, Che/ un piu\ malvaggio al mondo non e\ certo. $_ Adunque ciascadun m' intenda bene, Perche/ il caso de Orlando mostra aperto Che ogni servigio di dama si perde Chi non adacqua il suo fioretto verde. Or torno a ragionar di quel serpente Che un altro non fu mai visto maggiore. Di scaglie verde e d' oro era lucente, L' ale ha depinte in diverso colore. Tre lingue avea et acuto ogni dente, Battea la coda con molto rumore, Sempre gettava foco e fiamma viva, Che da l' orecchie e di bocca li usciva. Come il serpente in tutto si scoperse, Il conte, che teniva il libro in mano, Gli vide scritto ove prima lo aperse: #+ Nel mondo tutto, per monte e per piano, Tanta fatica mai altrui sofferse Come tu soffrirai, baron soprano; Ma forse ancora potresti campare, Se quel ch' io dico, te amenti di fare. Questa battaglia conviene esser presta, Perche/ il serpente e\ di tossico pieno, E getta fumo e fiamma si\ molesta, Che ti farebbe tosto venir meno; Ma stu potesti tagliarli la testa, Non dubitar di foco o di veleno, E piglia pur quel capo arditamente: Rompilo si\, che ne traggi ogni dente. E questi denti tu seminerai In questa terra per te lavorata, E poi mirabil cosa vederai: Di tal semente nascer gente armata, Forte et ardita, e tu lo provarai. Or va, che se tu campi a questa fiata E se tu porti di tal guerra onore, Di tutto il mondo po^i chiamarti il fiore. $+ Non par che in quel libro altro piu\ se scriva: Il conte prestamente lo serrava, Perche/ il serpente gia\ sopra gli ariva Con l' ale aperte, e gran furia menava, Gettando sempre foco e fiama viva. Con alto ardire Orlando l' aspettava; La bocca aperse il diverso dragone, Credendosi ingiottirlo in un boccone. Ma, come piacque a Dio, nel scudo il prese, E tutto quanto l' ebbe dissipato. Era di legno, e si\ forte se accese, Che presto e incontinente fu bruciato; E cosi\ il sbergo e l' elmo e ogni altro arnese Venne quasi rovente et affocato: Arsa e\ la sopravesta, e il bel cimiero Ardea tuttora in capo al cavalliero. Non ebbe il conte mai cotal battaglia, Poi che a quel foco contrastar conviene; Forza non giova o arte di scrimaglia, Perche/ gran fumo, che con fiamma viene, Gli entra ne l' elmo e la vista li abaglia, Ne/ apena vede il brando che in man tiene; Ma, ben che abbia il veder quasi gia\ perso, Pur mena il brando a dritto et a roverso. Cosi\ di qua di la\ sempre menando In quella zuffa oscura e tenebrosa, Nel collo il gionse pure al fin col brando, E via taglio\ la testa sanguinosa; Quella poi prese il conte e, remirando, Ben gli parve quel capo orribil cosa, Ch' era vermiglio, d' oro, verde e bruno; Fuor di quel trasse e denti ad uno ad uno. L' elmo se trasse poi quel conte ardito E dentro i denti di quel drago pose; Dapoi nel campo arato se ne e\ gito, Si\ come il libro nel suo canto espose. Dove Bavardo il re fu sepellito, Semino\ lui le seme venenose; Turpin, che mai non mente in alcun loco, Dice che penne uscirno a poco a poco. Penne depinte, dico, de cimieri Uscirno a poco a poco de la terra, E dapoi gli elmi e' petti de' guerreri E tutto il busto integro si disserra. Prima pedoni, e poscia cavallieri Usci^r, tutti cridando: #_ Guerra, guerra! $_ Con trombe e con bandiere, a gran tempesta: Ciascun la lancia verso Orlando arresta. Veggendo il conte la cosa si\ strana, Disse fra se/: ## Questa semenza ria Mieter mi converra\ con Durindana, Ma s' io n' ho mal, la colpa e\ tutta mia, Perche/ diletto ha pur la gente umana Lamentarsi d' altrui per sua follia: Ma colui pianger debbe a doppie doglie Che per mal seminar peggio raccoglie. $# Cosi\ dicendo il conte non fu tardo, Perche/ a guarnirsi tempo non gli avanza; L' elmo se alaccia il cavallier gagliardo, E non aveva piu\ scudo ne/ lanza. Di piana terra salta su Baiardo E quel percote con molta arroganza Contra alla gente che gli ariva intorno, Che, pur {add} mo {/add; mo' Z} nata, die' morir quel giorno. Or che bisogna ch' io vada contando E colpi ad un ad uno e il lor ferire, Dapoi che contra a Durindana il brando Non val coperta, ne/ arme, ne/ scrimire? Pero\ concludo in fin che il conte Orlando Tutti li fece in quel giorno morire; Come nel campo fur morti e dispersi, L' arme e i cavalli e i corpi fo^r somersi. Da poi che il conte per tutto ivi intorno Vide la gente morta e dissipata, Che in vita fatto avea poco soggiorno, E dove nacque se era sotterrata, Lui non indugia e pone a bocca il corno, Per donar fine alla terza suonata, E darsi a tal ventura ultimo vanto, Come io vi contaro\ ne l' altro canto. Il conte Orlando il corno a bocca pose, Si\ come a l' altro canto io vi lasciai, Che/ trare al fine in tutto se dispose L' alte aventure, e non posarsi mai Sin che quelle opre si\ meravigliose Che apparevano al suon, come contai, Non fussero apparite tutte quante; Pero\ suonava quel segnor de Anglante. Tanto suonava, che al suonar si stanca Quel vago corno il cavallier ardito. Nulla d' intorno appare e il giorno manca, E gia\ temeva lui d' esser schernito, Quando una cucciarella tutta bianca Gionse latrando nel prato fiorito; Il conte alla cuccietta pone cura, Dicendo: ## Dio me doni alta ventura! Tanta fatica adunque e tanto stento Aver durato me incresce per certo; Ma tardo ormai et indarno mi pento, Ch' indarno un tanto affanno aggio sofferto. E\ questo cio\ che me die' far contento? E\ questo il guidardone? E\ questo il merto, Qual promise la dama in abandono, Che doveva apparire al terzo suono? $# Cosi\ dicendo ratto si voltava Per girne altrove, tutto disdegnoso; Il conte il corno per terra gettava E via fugiva a corso roi%noso. Ma la donzella a gran voce il chiamava: #_ Aspetta, aspetta, baron valoroso! Che/ non e\ al mondo re ne/ imperatore, Che abbia ventura di questa maggiore. Ascolta adunque il mio parlar, che spiana Di questa cucciarella il bel lavoro. Una isoletta non molto lontana Ha il nome et ha lo effetto del tesoro; Ivi e\ una fata, nomata Morgana, Che alle gente diverse dona l' oro; Quanto per tutto il mondo or se ne spande, Convien che ad essa prima se dimande. Lei sotto terra il manda a l' alti monti, Dove se cava poi con gran fatica; E ne' fiumi l' asconde e dentro a' fonti, E in India, dove il coglie la formica. Abada e guarda ben che sian disgionti, Che ciascaduno un pesce ne nutrica; E vo' che sappi il nome per ragione: Timavo e\ l' uno, e l' altro e\ il carpi%one. Questi due pesci viveno d' o^r fino. Ora, per seguitar la mia novella, Dico che ogni metallo ha in suo domi\no De oro e de argento Morgana la bella; Et e\ venuto per questo confino Da lei mandata quella cucciarella Per farte sempre in tua vita beato, Poiche/ tre volte il suo corno hai suonato. Che/ non fo al mondo mai piu\ cavalliero, Qual lo suonasse la seconda volta, Benche/ molti provarno tal mestiero, Ma sempre a tutti fu la vita tolta. Or lascia adunque ogni tristo pensiero, Franco barone, e il mio parlare ascolta, Accioche/ sappi la cosa compiuta, Perche/ la cuccia al corno sia venuta. Morgana, della quale io t' ho parlato, Quale e\ regina delle cose adorne, Ha per il mondo un suo cervo mandato, Che ha bianco il pelo e d' oro ambe le corne. Quel per incanto a modo e\ fabricato, Che in alcun loco mai non si soggiorne, Ma sempre, via fuggendo a meraviglia, Cerca la terra e non trova chi 'l piglia. Ne/ se potrebbe per forza pigliare, Senza l' aiuto di quella cuccietta; Lei primamente lo sa ritrovare, Poi lo caccia cridando con gran fretta. Conviensi quella voce seguitare, Perche/ lor van legier come saetta; La cuccia il caccia in pista con tempesta Sei giorni integri, e al settimo s' arresta. Perche/ quel giorno, giongendo alla fonte Dove se tuffa il cervo pauroso, Quivi si prende senza oltraggio et onte, E fa il suo cacciatore aventuroso, Pero\ che muta e corni dalla fronte Sei volte il giorno, e ciascuno e\ ramoso Di trenta bronchi; e la rama distesa Con bronchi insieme cento libre pesa. Si\ che tanto tesoro adunarai, Come abbi preso quel cervo afatato, Che ne serai contento sempre mai, Se la ricchezza fa l' omo beato. Forse che ancor l' amore acquisterai Di quella fata che t' aggio contato: Dico Morgana da quel viso adorno, Piu\ bella assai che 'l sole in mezo il giorno. $_ Orlando sorridendo l' ascoltava Et a gran pena la lascio\ finire, Perche/ esso le ricchezze non curava, Qual gli ebbe la donzella a proferire, Si\ che rispose: #_ Dama, non mi grava Avermi posto a rischio de morire, Pero\ che di periglio e di fatica L' onor de cavallier sol se nutrica. Ma l' acquisto de l' oro e de l' argento Non m' avria fatto mai il brando cavare; Pero\ chi pone ad acquistar talento, Lui se vo^l senza fine affaticare; E come acquista piu\, manco e\ contento, Ne/ si puo\ lo appetito sazi%are; Che/ qualunche n' ha piu\, piu\ ne desia: Adunque senza capo e\ questa via. Senza capo e\ la strata et infinita, De onore e de diletto al tutto priva. Chi va per essa, a caminar s' aita, Ma dove gionger vo^l, mai non ariva; Si\ che la voglio al tutto aver smarita, Ne/ gli vo' caminar per sin ch' io viva; E accioche/ meglio intendi il mio parlare, Dico che 'l cervo non voglio cacciare. Prendi il tuo corno, ch' io lascio ad altrui Questa ventura di tanta ricchezza, Perch' io ora non sono e mai non fui Da cortesia partito e gentilezza; E vile e discortese e\ ben colui Qual la sua dama piu\ che 'l cor non {t} preza; {/t S; prezza; Z} Et io so che m' aspetta or la mia dama, E parmi odir la voce che mi chiama. (Ben me ricorda come io la lasciai Con guerra nella rocca assedi%ata: Ora che indovinar me sapria mai Come sia quella zuffa aterminata? Il campo e la battaglia abandonai Per seguire Agrican quella giornata; E combatteva l' una e l' altra gente, Si\ che non so di lor chi sia perdente.) $_ Cosi\ con seco istesso ragionava Il conte, assai pensoso ne la ciera, E la donzella alla croppa invitava, La qual pur vi sali\ mal volentiera. Lascio\ quell' altra, e gia\ via caminava; Ecco ad un ponte, sopra una rivera, Passava un cavalliero in vista arguta: Cortesemente Orlando lo saluta. Ma il cavallier, che vide la donzella, Ben presto la cognobbe nel sembiante, Che questa e\ Leodilla, quella bella, Quale e\ figliola del re Manodante; Onde ad Orlando subito favella Con minaccevol voce et arrogante: #_ Questa e\ mia dama, che robbata m' hai! Presto la lascia, o presto morirai. $_ #_ Se l' e\ tua, $_ disse il conte #_ e tua si sia, Che/ gia\ per lei non voglio prender brica; Totila, per Macone! e vanne via, Che me pare alle spalle aver l' ortica; E te ringrazio di tal cortesia, Poi che me assolvi di tanta fatica. Con essa ove te piace ne puoi gire, Pur che con meco non voglia venire. $_ Il cavalliero, odendo il ragionare Che facea Orlando, di tanta viltade, Qual ne la vista si\ feroce appare, Gran meraviglia ne ebbe in veritade. Prese la dama, e senza altro parlare Via caminarno per diverse strade; L' uno a levante ad Albraca ne gia, L' altro a ponente verso Circasia. Ordauro era nomato il cavalliero, Questo che al conte la donzella tolse, Ne/ tolta gia\ l' avria per esser fiero, Ma perche/ Orlando contrastar non volse, Quale avea ad Angelica il pensiero; Pero\ dalla battaglia se disciolse, E parli piu\ d' uno anno ciascuna ora, Che arivi dove Angelica dimora. Lasciamo lui che ben forte camina, Ch' io vo' seguir la zuffa dolorosa, Qual piu\ sempre s' accende a gran ruina, Ne/ mai se vide piu\ terribil cosa. Vedevasi Marfisa la regina Di qua di la\ voltar si\ furi%osa, Perche/ Aquilante e 'l suo fratel pregiato La combatteano atorno in ciascun lato. E vedeasi il feroce fio de Amone, Ferito crudelmente e sanguinoso, Cacciare il re Adri%ano e Chiari%one; Vedevasi Torindo valoroso Combatter contra Oberto dal Leone: Stavasi Trufaldin solo in riposo. Questo ne l' altro canto io vi contai: Ora voglio finir quel ch' io lasciai. Come andasse la cosa in su quel piano De le tre zuffe, vi voglio contare. Si\ come io dissi, Trufaldin villano Stava da parte la guerra a guardare; E quando Chiari%one et Adri%ano Comincia^r per Ranaldo a rinculare, Come colui che avea molta paura Ne la rocca fuggi\ dentro alle mura. Ranaldo non lo vide in su quel ponto, Che/ certamente non seri\a campato, Ben presto Rabican l' avrebbe gionto; Ma tanto era alla zuffa riscaldato, Che nol vide partir, come io vi conto; Ma solo il vide alla porta arivato, E, vo\lto ai duo baron, con gran furore Disse: #_ Fuggito e\ pur quel traditore. Si\ che ascoltati quel che vi vo' dire, E procurati metterlo ad effetto, Se non voleti al presente morire, Che/ ben ve occidero\ senza rispetto; Ma se me prometteti far venire Con voi doman nel campo il maledetto, Voglio che questa guerra cominciata Or sia fornita per questa giornata. E tutti voi, che aveti la difesa Del vostro glori%oso Trufaldino, Come sera\ del sol la luce accesa, Verriti giu\ nel campo al bel matino E quivi finira\ nostra contesa, E morira\ quel perfido assassino; O veramente ch' io vi sero\ morto, Se Dio dal dritto non riguarda il torto. $_ Queste parole diceva Ranaldo, Et altro ch' io non curo arricontare; Onde l' accordo fo fatto di saldo, A benche/ con Marfisa fo da fare, Perche/ essa aveva il core acceso e caldo, Ne/ la battaglia mai volse lasciare, Sin che Aquilante non giura e Grifone Tornar per l' altro giorno alla tenzone, E mantener battaglia per un giorno, Sin che sera\ nel mare il sole ascoso. Cosi\ dentro alla rocca fier' ritorno Ciascun barone afflitto e doloroso, E non avevan pezzo d' arme intorno Che non fosse percosso e sanguinoso; Ne/ stavan quei di fuori ad altra guisa, Ranaldo e il Turco e la forte Marfisa. Ciascuno attese con solenne cura A sua persona et a sua guarnisone. Quei della rocca tutti avean paura, Fuor che Aquilante e l' ardito Grifone; E ragionavan della guerra dura, Come era stato ciascun compagnone. Diceva Astolfo: #_ Orlando e\ stravestito; In tal forma ha ogniom de voi schernito. $_ #_ Non, $_ rispose Aquilante, #_ tu non sai Che 'l cavalliero e\ il sir de Montealbano. Noi lo pregammo con parole assai Che non venisse con noi alle mano; Ma lui non se lascio\ parlar giamai, Tanto e\ feroce e di cor subitano; E cosi\ domattina a l' altra guerra O noi, on esso andra\ morto alla terra. $_ Rispose Astolfo: #_ E' t' e\ male incontrato, Che/ ad ogni modo rimarrai perdente, Perche/ io me trovaro\ da l' altro lato, E vado da Ranaldo incontinente. Quando nel campo me vedriti armato, So ben che non voriti per ni%ente, Ne/ sera\ alcun di voi tanto sicuro, Che esca tre passi fuor longe dal muro. $_ Rise Aquilante che lo cognoscia, Et al duca rispose: #_ Alla bon' ora, Dapoi che esser convene, e cosi\ sia! $_ Astolfo non fie' gia\ lunga dimora, Che/ della rocca fuora se ne uscia; Ne/ oscurato era in tutto il giorno ancora, Quando e cugini insieme se trovaro, E con gran festa insieme se abracciaro. Lasciamo questi insieme al pavaglione, Che se posarno insino alla matina, E ritornamo al fio di Melone, Qual con gran volunta\ sempre camina, Tanto che ad Albraca\ gionse al girone; E gia\ il sole alla sera se dichina, Quando quel cavallier cotanto forte Gionse alla rocca dentro dalle porte. E gia\ non par che venga dalla danza; L' arme ha spezzato et e\ senza cimiero, Arsa e\ la sopravesta, e non ha lanza E non ha scudo l' ardito guerrero; Ma pur mostrava ancor grande arroganza, Tanto superbo avea lo aspetto fiero, E qualunche il mirasse in su Baiardo Direbbe: Questo e\ il fior d' ogni gagliardo. Come fo gionto dentro a l' alta rocca, Angelica la bella l' incontrava. Lui salta de l' arcion, che nulla tocca; La dama di sua mano il disarmava, E nel trargli de l' elmo il bacia in bocca: Non dimandati come Orlando stava; Che/, quando presso si senti\ quel viso, Credette esser di certo in paradiso. Avea la dama un bagno apparecchiato, Troppo gentile e di suave odore, E di sua mano il conte ebbe spogliato, Baciandol spesse fiate con amore. Poi l' ungiva d' uno olio delicato, Che caccia de la carne ogni livore; E quando la persona e\ afflitta e stanca, Per quel ritorna vigorosa e franca. Stavasi 'l conte quieto e vergognoso, Mentre la dama intorno il maneggiava; E benche/ fosse di questo gioioso, Crescere in alcun loco non mostrava. Intra nel fine in quel bagno odoroso, E se/ dal collo in giu\ tutto lavava, E poi che asciutto fu, con gran diletto Per poco spazio se colca nel letto. E dopo questo la donzella il mena Intro una ricca zambra et apparata, Dove posarno con piacere a cena, Che/ vi era ogni vivanda delicata. Nel fin la dama con faccia serena, Standosi al collo a quel conte abracciata, Lo prega e lo scongiura con bel dire Che d' una cosa la voglia servire. #_ D' una sol cosa, il mio conte, $_ dicia #_ Fammi promessa, e non me la negare, Se vo^i che piu\ sia tua ch' io non son mia, Che/ a tal servigio me puoi comparare; Ne/ creder che aggia tanta scortesia, Che da te voglia quel che non puoi fare; Ma sol cheggio da te che per mio amore Mostri ad un giorno tutto il tuo valore. E che non abbi al mondo alcun riguardo, Ma ch' io veda di te l' ultima prova, Perch' io staro\ a veder se sei gagliardo, Ne/ creder che d' adosso occhio te mova, Sin che a terra non vada ogni stendardo De la gente che in campo se ritrova; E ben so che farai cio\, se tu vo^i, Perche/ io conosco quel che vali e po^i. Una dama feroce, arabi%ata, Qual venne col mio patre in mia diffesa, Senza cagione alcuna e\ ribellata, Di mal talento e di furore accesa; Come vedi, m' ha quivi assedi%ata, E, se tu non me aiuti, io sero\ presa Da la crudel, che tanto odio mi porta Che con tormento e strazio sero\ morta. $_ Cosi\ disse la dama, e lacrimando Il viso al cavallier tutto bagnava. Apena se ritenne il conte Orlando Che alor alora tutto se armava; E rispondea ni%ente, e fulminando Gli occhi abragiati d' intorno voltava. Poi che la furia fu passata un poco Il volto a lei rivolse, e parea foco: Ne/ gia\ puote la dama sofferire Di riguardare alla terribil faccia. Dissegli il conte: #_ Dama, a te servire Mi reputo dal cel a tanta graccia; E quella dama che me avesti a dire, Fia da me morta, o presa, o messa a caccia; E quando fosse il mondo tutto quanto Con seco armato, ancor de cio\ me vanto. $_ Rimase assai contenta la donzella Veggendo il proferir di quel barone, Che/ ben sapea quel che lui vale in sella. Frutti e confetti di molta ragione Furno portati a quella zambra bella; Gionsero in questa Aquilante e Grifone, E ciascun con Orlando fo abracciato; Angelica di poi tolse combiato. Ella se parte zoiosa e festante Per la promessa di quel cavalliero, Tanto superba di cotale amante, Che di Marfisa piu\ non ha pensiero. Come partita fu, disse Aquilante Al conte Orlando: #_ Il ti fara\ mestiero Domane esser gagliardo sopra il piano, Perche/ avrai contra il sir de Montealbano. Egli e\ venuto e non so la cagione, Ma fuor de l' intelletto al tutto pare, Che/ tutti quanti qua dentro al girone Ci ha preso con vergogna a disfidare. Io lo pregai, et ancora Grifone, Ma lui non si lascio\ giamai parlare, Ne/ dir se li puo\ mai ragion che vaglia, Onde c' e\ forza far seco battaglia. $_ #_ Sai certo che 'l sia desso, $_ disse Orlando #_ E che per lui non abbi altro avisato? $_ Disse Aquilante: #_ A Dio mi racomando, Stato son seco a fronte e gli ho parlato, E combattei con lui brando per brando; E tu me stimi tanto smemorato, E si\ fuor d' intelletto e di ragione, Ch' io non cognosca Ranaldo d' Amone? $_ Grifone quel medesimo dicia, Che senza dubio alcun l' ha cognosciuto; E quando il conte tal cosa intendia, Tutto cambiosse nel sembiante arguto, E prese nel pensier gran zelosia, Che qua non fusse Ranaldo venuto Sol per amor de Angelica la bella; Onde gran doglia dentro il cor martella. Presto dette combiato ai duo germani, E ne la zambra se chiuse soletto, E giva intorno stringendo le mani, Ardendo di gran sdegno e di dispetto; E con lamenti e con sospiri insani Senza spogliarse se getto\ sul letto, Ove con pianti e dolente parole In cotal forma si lamenta e dole: ## Ahi vita umana, trista e dolorosa, Nella qual mai diletto alcun non dura! Si\ come a la giornata luminosa Vien drieto incontinente notte oscura; Cosi\ non fu giamai cosa gioiosa, Che non fusse meschiata di sventura; Ma ogni diletto e\ breve e via trapassa, La doglia sempre dura e mai non lassa. E questo si puo\ dir per me, tapino, Qual con tanto piacere e tanto onore Accolto fui da quel viso divino, Ch' io non credetti aver piu\ mai dolore; Ma poi fu cio\ per farme piu\ meschino, E che la pena mia fusse maggiore; Che/ perder l' acquistato e\ maggior doglia, Che il non acquistar quel de che s' ha voglia. Io son venuto nella fin del mondo Per l' amor d' una dama conquistare, Et ebbi {t} iersira {/t S; hiersira Z} un giorno si\ iocondo, Quanto m' avria saputo imaginare: Non vo^l Fortuna ch' io gionga al secondo, Perche/ Ranaldo me viene a sturbare. E ben cognosce Iddio, ch' egli ha gran torto: Ma certo l' un de noi rimarra\ morto. Sempre a mia possa l' aggio favorito Nella gran corte de lo imperatore; E mille volte che e\ stato bandito, L' ho ritornato in grazia al mio segnore. Lui amato non m' ha ne/ reverito; Pur, a sua onta, io son di lui maggiore, Che/ egli e\ di piccol terra castellano, Et io son conte e senator romano. Lui non mi porta amore o riverenza, Bench' io m' abbia de cio\ poco a curare, E sempre io volsi che la mia prudenza La sua paci\a dovesse temperare; Or romper mi convien la paci%enza, Che/ a tal taglier non puon duo giotti stare, Si\ che finirla io son deliberato, Che/ compagnia non vo^le amor ne/ stato. Se lui campasse, egli ha tanta malizia, Ch' io resterebbi di mia vita privo; Lui sa del lusingare ogni tristizia, E piu\ che alcun demonio egli e\ cattivo; E se io volessi alciare una pelizia Di donna, io non seri\a morto ne/ vivo: Se lei non m' insegnasse o desse ardire, Cominciar non saprebbi io ne/ finire. Che/! dico io, adunque fia abattuta La lunga parentezza et amistade, Che fu da' nostri antiqui mantenuta? Mal faccio, e lo cognosco in veritade; Ma da dritta ragione amor mi muta, E fia partita al tutto con le spade Nostra amistade antiqua e parentella, E l' amor nostro di questa donzella. $# Cosi\ col cor di doglia tutto ardente Il conte seco stesso ragionava, E quella notte non dormi\ ni%ente, Ma spesso a ciascun lato si voltava. Il tempo via trapassa e lui non sente, Ma la luna e le stelle biasimava, Che al suo occidente non faccian ritorno Per donar loco al luminoso giorno. Piu\ de tre ore avanti al matutino Il conte a gran ruina fu levato; Una tempesta sembra il paladino, Passeggiando d' intorno tutto armato. L' elmo ha d' Almonte, che fu tanto fino, E Durindana il suo buon brando a lato; Giu\ nella stalla va il conte gagliardo, E ben guarnisce il bon destrier Baiardo. E su ritorna nella rocca ancora, Guardando se il giorno esce a l' ori%ente, E non puo\ comportar nulla dimora, Ma rodendo si va l' ongie col dente. Ora andati, segnori, alla bona ora, Perche/ io riservo nel canto sequente Un smisurato assalto et inumano, Qual fu tra il conte e il sir de Montealbano. Sin qui battaglie e colpi smisurati, Che fo^r tra l' uno e l' altro cavalliero, E terribili assalti aggio contati; Or salir sopra 'l cel mi fa mestiero, Che/ duo baroni a fronte sono armati, Che me fanno tremar tutto il pensiero. Se vi piace, segnori, oditi un poco De' duo guerreri uno animo di foco. Di sopra vi contai si\ come Orlando Solo aspettando il giorno si dispera; Di qua di la\ va sempre fulminando, E batte e denti quella anima fiera; Trasse con ira Durindana il brando, Come davante a lui fosse la ciera Del re Agolante e del figliol Troiano, Si\ furi%oso mena ad ambe mano. Dice la istoria che a lui era davante Un gran Macon di pietra marmorina: Era intagliato a guisa d' un gigante. In questo gionse il conte a gran ruina, Si\ che dal capo insin sotto le piante Tutto il fraccassa Durindana fina; Tanti colpi li da\ dritto e a roverso, Che a terra in pezzi lo mando\ disperso. Con questa furia il senator romano Stava aspettando il giorno luminoso; Ma giu\ nel campo il sir de Montealbano Non prende gia\ di lui maggior riposo, Che/ e\ tutto armato et ha Fusberta in mano, E tempestando va quel furi%oso: Arbori e piante con la spada taglia, Tanto desire avea di far battaglia. Era ancora la notte molto oscura, Ne/ in alcun lato si mostrava il giorno, Quando Ranaldo, ch' e\ senza paura, Monta a destriero e pone a bocca il corno. Ben par che 'l monte tremi e la pianura, Si\ forte suona quel barone adorno; E 'l conte Orlando cognobbe di saldo A quel suonare il corno di Ranaldo. E tanta fiamma li soggionse al core, Che piu\ non pose a l' ira indugio o sosta, E prese il corno; e con molto romore Gli fece minacciando aspra risposta, Dicendo nel suonar: #_ Can traditore, Come te piace ormai vieni a tua posta, Ch' io smonto al piano, e ben te sazio dire Che di tua gionta ti faro\ pentire. $_ Gia\ l' aria se rischiara a poco a poco, E vien l' alba vermiglia al bel sereno; Le stelle al sol nascente donan loco, De le quali era il ciel prima ripieno. Alora il conte, come avesse il foco Veduto intorno a se/, ne/ piu\ ne/ meno, Battendo e denti e crollando la testa L' elmo s' allaccia con molta tempesta. Prese Baiardo alla sella ferrata, Sopra gli salta con molta arroganza; E tanta fretta avea quella giornata, Che seco non porto\ scudo ne/ lanza. Venne alla porta, e quella era serrata, Perche/ la rocca avea cotale usanza, Che ponte non callava o porta apriva, Sin che il sol chiaro il giorno non usciva. Avrebbe il conte quel ponte reciso E spezzata la porta e misso al piano, Se non che la sua dama n' ebbe aviso, E venne ad esso con sembiante umano. Quando lui vide l' angelico viso, Quasi li cadde il bon brando di mano, E poi che fu saltato della sella Ingenocchiosse avanti alla donzella. Lei abbracciava quel franco guerriero, Dicendoli: #_ Baron, dove ne vai? Tu m' hai promesso, e sei mio cavalliero; Questo giorno per me combattarai, E per l' amor di me questo cimiero E questo ricco scudo portarai. Abbi sempre il pensiero a cui te 'l dona, Et opra ben per lei la tua persona. $_ Cosi\ dicendo gli donava un scudo, Che 'l campo e\ d' oro e l' armelino e\ bianco, E un bel cimier, che e\ un fanciulletto nudo Con l' arco e l' ale, e le saette al fianco. Quel conte, che pur mo fu tanto crudo, Mirando la donzella veni\a manco, E tanta zoia senti\ e tal disire, Che d' allegrezza si sente morire. In questo ragionar gionse Grifone Per gire alla battaglia, tutto armato; Et Aquilante e\ seco e Chiari%one, Il re Adri%ano a l' elmo incoronato. Venir non puote Oberto dal Leone, Perche/ la piaga il viso avea gonfiato, E per non la curare e farne stima Piu\ noia n' ebbe ne la fin che prima. Or lui restava. E venne Trufaldino, Per cui far si dicea la gan battaglia. Smarito era nel volto il malandrino, Ma non sa ritrovar scusa che vaglia, Che/ pur gli convien fare il mal camino La\ giu\ nel piano, alla aperta prataglia; E pensando di se/ l' oltraggio e il torto, Parea nel volto sfigurato e morto. Lascia\n costor, che del forte girone Aprian la porta, e il ponte fan callare; E ritornamo a Ranaldo de Amone, Qual cognosciuto ha Orlando a quel suonare; E, benche/ egli abbia il dritto e la ragione, Gia\ non voria con lui battaglia fare, Perche/ lo amava di coraggio fino, Come germano e suo carnal cugino. E nel suo cor pensoso era turbato Come dovesse terminar la impresa, Che/ occider Trufaldino avea giurato, E il conte l' avea tolto in sua diffesa. Mentre lui pensa, ecco Astolfo arivato E la regina di valore accesa; Seco Prasildo et Iroldo veni\a, Con lor Torindo, re della Turchia. Come fo^r giunti dove era Ranaldo, #_ Su, $_ disse Astolfo #_ non prendiam dimora! Batter si vo^le il ferro, mentre e\ caldo. $_ Disse il principe: #_ Pian ben se lavora. Stati, cugin mio bello, un poco saldo, Che voi non seti ove credeti ancora; Perch' io ve aviso che a noi qui davante Vedreti armato il fier conte de Anglante. $_ Marfisa a quel parlare alcio\ la fronte, Quasi ridendo, con vista sicura, E disse al fio d' Amon: #_ Chi e\ questo conte, Qual non e\ gionto e gia\ ti fa paura? Se proprio fosse quel che occise Almonte Con tutti e paladin, non ne do cura; Ma quel conte d' Angante che detto hai, Io non lo oditi nominar piu\ mai. $_ Non rispose Ranaldo al suo parlare, Che ad altra cosa avea maggior pensiero, Perche/ vedea del monte giu\ callare Que' sei baroni: Orlando era il primero, Che terribil parea solo a guardare, Aspro ne gli atti e ne l' aspetto fiero. Quando Marfisa a lui fece riguardo, Disse: #_ Quel primo ha vista di gagliardo. $_ Rispose Astolfo a lei: #_ Non fare estima, Che ogni zuffa che hai fatta, e\ stata un scherzo. Benche/ e\i d' ardire e di prodezza in cima, Io ti saggio acertar ch' egli e\ un mal guerzo. Tu, se te piace, andrai contra a lui prima, Questo sera\ il secondo, io sero\ il terzo. So che seriti a terra riversati, Ma ben vi scodero\, non dubitati. $_ Disse Marfisa: #_ Certo assai mi pesa Ch' io non possa provarme a quel valetto, Perche/ mi convien fare altra contesa. Ma sopra la mia fede io ti prometto, Se io non son da quei duo morta ni presa, Ch' io vedero\ de lui l' ultimo effetto. $_ Cosi\ stan questi ragionando in vano, Ma il conte Orlando e\ gia\ gionto nel piano. Come fu gionto alla ripa del prato, Sua lancia arresta, che e\ grosso troncone. Stava Aquilante da lui al destro lato, Et al sinistro veniva Grifone. Trufaldin che color avea mutato Per la paura, e possa Chiari%one, Tutti di para insieme, e il re Adri%ano Vengon spronando con le lance in mano. Da l' altra parte Marfisa se mosse: Seco Ranaldo, et un gran fuste arresta; Prasildo e Iroldo, che hanno estreme posse, Torindo e il duca Astolfo con tempesta. Tutti han le lancie smisurate e grosse: La giostra se incomincia, aspra e robesta. Ad uno ad uno e scontri vi vo' dire, E tutto il fatto, come ebbe a seguire. Marfisa se scontro\ con Aquilante, Ciascun parve di pietra una colona; Ne/ a drieto se riversa o piega avante, Tanto avevan quei duo franca persona: Le lancie fraccassarno tutte quante. Il duca Astolfo ratto se abandona, E quella lancia che e\ tutta d' o^r fino, Spronando abassa contra a Trufaldino. Ma lui, che d' ogni inganno sapea l' arte, Come l' un l' altro al scontro se avicina, Malvagiamente se piego\ da parte; Poi da traverso, quella mala spina (Come scrive Turpino alle sue carte) Feritte Astolfo con tanta roina, Che suo ardir non gli valse ne/ sua possa, Ma cadde al prato con grave percossa. Lasciamo Astolfo, che e\ rimaso in terra, Ch' io voglio adesso agli altri seguitare, Poi che contar convien tutta la guerra. Prasildo al re Adri%an s' ebbe a incontrare; Contra de Iroldo Chiari%on si serra, Ne/ bon iudicio si potrebbe dare Se tra lor quattro fu vantaggio alcuno, Ma ben sua lancia ruppe ciascaduno. Torindo fo colpito da Grifone, E netto se n' ando\ fuor della sella; Il franco Orlando e il forte fio d' Amone Se vanno addosso con tanta flagella, Che profondar l' un l' altro ha opini%one. Ora ascoltate che strana novella: Il bon Baiardo cognobbe di saldo, Come fu gionto, il suo patron Ranaldo. Orlando il guadagno\, come io ve ho detto, Allor che il re Agrican fece morire; E quel destrier, come avesse intelletto, Contra Ranaldo non volse venire; Ma voltasi a traverso a mal dispetto De Orlando, proprio al contro del ferire. Sua lancia cadde al conte in su l' arcione, Ranaldo lo colpi\ sopra al gallone; E fu per roversarlo a l' altro lato. Or chi saprebbe a ponto ricontare L' alto furor di quel conte adirato? Che/, quando a piu\ tempesta mugia il mare, E quando a maggior foco e\ divampato, E quando se ode la terra tremare, Nulla serebbe a l' ira smisurata Che in se/ raccolse Orlando in quella fiata. Non vedea lume per li occhi ni%ente, Benche/ gli avesse come fiamma viva; E si\ forte battea dente con dente, Che di lontan il gran romor se odiva. Del naso gli uscia fiato si\ rovente, Che proprio il riguardar foco appariva. Or piu\ di cio\ contar non e\ mestiero: Con ambi sproni afferra il bon destriero. Et a quel tempo ben ricolse il freno, Credendolo a tal guisa rivoltare; Non si muove Baiardo piu\ ni meno, Come fosse nel prato a pascolare. Poi che Ranaldo vidde il fatto a pieno, Comincia al conte in tal modo a parlare: #_ Gentil cugin, tu sai che a Dio verace Ogni iniustizia e mal fatto dispiace. Ove hai lasciata quella mente pura E l' animo gentil che avevi in Franza, Diffensor di bontade e di drittura, E di fraude nemico e disli%anza? Caro mio conte, io ho molta paura Che cambiato non sii per mala usanza, E che questa malvaggia meretrice T' aggia stirpato il cor de la radice. Voresti mai che si sapesse in corte Che hai la diffesa per un traditore? Or non te seri\a meglio aver la morte, Che avere in fronte tanto disonore? Deh lascia Trufaldino, o baron forte, E di quella ribalda il falso amore! Che in veritate, a non dirti menzogna, Non so de qual acquisti piu\ vergogna. $_ Orlando gli dicea: #_ Ecco un ladrone, Che e\ divenuto bon predicatore. Or puo\ ben star sicuro ogni montone, Da poi che il lupo si e\ fatto pastore. Tu mi conforti con bella ragione Abandonar de Angelica lo amore; Ma guardar die' ciascun d' esser ben netto, Prima che altrui riprenda de diffetto. Io non venni gia\ qui per dir parole, A ben ch' io non mi possa adoperare, E sopra ogni sventura cio\ mi dole; Ma fami al peggio ormai che tu po^i fare, Che/ non sera\ nascoso il giorno il sole, Che molta pena ti faro\ portare Di quel villan parlare e discortese, Qual de mia dama avesti ora palese. $_ Cosi\ parlando ogniun sta dal suo lato. Non era il conte a dismontare ardito: Che/, prima a terra fosse dismontato, Via ne serebbe Baiardo fuggito. Sendo bon pezzo ciascun dimorato, Che l' uno a l' altro non avea ferito, Ranaldo, riguardando in quel confino, Ebbe veduto il falso Trufaldino, Che aveva Astolfo abattuto nel piano. Esso a destriero d' intorno il feriva: Quel se deffende con la spada in mano; Ecco Ranaldo che sopra gli ariva. Quando venire il vidde quel villano, Che avea d' ogni virtu\ l' anima priva, Come fugge il colombo dal falcone Cosi\ prese a fuggir dal fio d' Amone. Esso fuggendo a gran voce cridava: #_ Aiuto! aiuto! o franchi cavallieri $_ E la promessa fede adimandava; E ben soccorso gli facea mestieri, Che/ gia\ quasi Ranaldo lo arivava. Ma tutti quanti quelli altri guerreri Abandonarno sua prima tenzone, Tirando tutti adosso al fio d' Amone. Orlando nol seguia, come io vi conto, Perche/ Baiardo non puotea guidare; Ma ben gionse Grifone a ponto a ponto Che apena Trufaldin dovea campare. Come Ranaldo lo vidde esser gionto, Subitamente se ebbe a rivoltare, E ferisce a Grifon si\ gran riverso, Che quello ha il spirto e l' intelletto perso. Qua non se indugia, e segue Trufaldino, Che tuttavia fuggiva per quel piano; Ma fece in quel fuggir poco camino, Che/ ebbe a le spalle il destrier Rabicano, E venuto era di morte al confino: Ma soccorso gli dava il re Adri%ano. Ranaldo lo feri\ con tanta possa, Che a terra lo fe' andar quella percossa. Trufaldin se ne andava tuttavia Ben mezo miglio a Ranaldo davante; Ma Rabicano a tal modo seguia, Come avesse ale in loco delle piante. Ranaldo gionto il traditore avia, Ma di traverso ancor gionse Aquilante, E l' un ferisce l' altro con tempesta. Ranaldo colse lui sopra la testa, Si\ che alle croppe lo mando\ roverso, Fuor di se stesso e pien di stordigione; Ne/ ancora ha Trufaldin di vista perso, Quando alla zuffa e\ gionto Chiari%one. Meno\ Ranaldo un colpo si\ diverso, Che getto\ quel ferito de l' arcione; E segue Trufaldin con tanta fretta, Che apena e\ piu\ veloce una saetta. Mentre che cosi\ caccia quel ribaldo, Il conte con Marfisa s' azuffava, Pero\ che, mentre che non vi e\ Ranaldo, A suo piacer Baiardo governava. Ciascuno alle percosse era piu\ saldo, Ne/ alcun vantaggio vi se iudicava; Vero e\ che 'l conte avea suspizi%one, Non se fidando al tutto del ronzone. E pero\ combattea pensoso e tardo, Usando a suo vantaggio ciascuna arte: E benche/ se sentisse ancor gagliardo, Chiese riposo e trassese da parte. Mentre che intorno faceva riguardo, Vidde nel campo gionto Brandimarte, E ben se rallegro\ nel suo pensiero, Che/ Brigliadoro ha questo, il suo destriero. Subitamente a lui se ne fu andato; Ciascun raconta la sua disventura, E fu tra loro alfin deliberato (Che/ Brandimarte ha rotto l' armatura) Che nella rocca lui sia ritornato, E la\ meni Baiardo a bona cura. Su Brigliadoro il conte valoroso E\ gia\ montato, e non vo^l piu\ riposo. Non vo^l riposo piu\ quel sir d' Anglante, Anci si mosse con molta roina; E con parlar superbo e minacciante Isfida a morte la forte regina. L' un mosse verso l' altro lo afferrante, Ciascun morire o vincer se destina: Questa zuffa diro\ poi tutta aponto, Ma torno a Trufaldin, ch' era gia\ gionto. Ranaldo il gionse a la rocca vicino, E non crediati che 'l voglia pregione, Benche/ vivo piglio\ quel malandrino, E lego\l stretto con bona ragione; Indi con le gambe alto e il capo chino Alla coda lo attacca del ronzone; Poi per il campo corre a gran furore Cridando: #_ Or chi diffende il traditore? $_ Era il franco Grifon gia\ risentito, E Chiari%on montato e il re Adri%ano, Quando Ranaldo fu da loro odito, E posensi a seguirlo per quel piano. Ma si\ presto ne andava et espedito, Ch' era {add} seguito {/add; segui\to Z} da costoro in vano; Cosi\ ne andava Rabicano isteso, Come alla coda non avesse il peso. Sempre Ranaldo a gran voce cridava: #_ Ove son quei che avean cotanto ardire, Che de un sol cavallier non li bastava, Ma volean tutto il mondo sostenire? Or vedon Trufaldino, e non li grava Che in sua presenzia lo faccio morire? Se alcun v' e\ ancora a cui piaccia l' impresa, Venga a staccarlo e prenda sua diffesa. $_ Cosi\ diceva il barone animoso, Via strasinando Trufaldino al basso, Che era gia\ mezo morto il doloroso, Percotendo la testa ad ogni sasso; Et era tutto il campo sanguinoso, Dove correa Ranaldo a gran fraccasso; Et ogni pietra acuta e ciascun spino Un pezzo ritenia de Trufaldino. Moritte quel malvaggio a cotal guisa, E ben lo meritava in veritate, Come la istoria sopra vi divisa, Ch' era d' inganni pieno e falsitate. Or torno al conte Orlando et a Marfisa, Che nel secondo assalto a nude spate Fan si\ crudel battaglia e si\ diversa, Che par che 'l celo e il mondo se sumersa. A disusato modo e troppo orribile Tra loro era inasprita la battaglia; Et al contar seri\a cosa incredibile Quelle arme che Marfisa al conte taglia. Lui d' altra parte ognior vien piu\ terribile, Benche/ romper non puo\ piastra, ne/ maglia; Pur mena colpi di tanta roina, Che a forza fa piegar quella regina. Cresce ogni ora lo assalto piu\ diverso, E' crudel colpi fuor d' ogni misura. Ecco passar Ranaldo in sul traverso, Proprio davanti alla battaglia scura; E Trufaldino avea tutto disperso La testa e il busto insino alla cintura; Che/ per le spine e' sassi in quel distretto Rimase eran le braccia, il capo e il petto. A gran furor Ranaldo trapassava, Cridando si\ che intorno e\ bene inteso; E dicea: #_ Cavallieri, or non vi grava Che non abbiati questo re diffeso, Qual di bontate vi rasomigliava? Ove e\ lo ardire e quello animo acceso Che dimostraste ne l' estremo vanto, Quando sfidasti il mondo tutto quanto? $_ Orlando intese quel parlare altiero, Che lo spronava in tanta villania, Onde a Marfisa disse: #_ Cavalliero (Perche/ altramente non la cognoscia), Io me sfidai con quello altro primiero, Compir voglio con lui l' impresa mia; Come io lo occido, se 'l mio Dio mi vaglia, Con teco forniro\ l' altra battaglia. $_ Disse Marfisa a lui: #_ Tu sei errato, Se presto credi occider quel barone, Perche/ io, che l' uno e l' altro aggio provato, Di te nol tengo in manco opini%one. Tu de la vita altrui hai bon mercato, E senza l' oste fai questa ragione; Ma tu po^i ben vantarti et aver caro Se questa sera vi trovati al paro. Or vanne, ch' io mi fermo a riguardare Qual abbia di voi duo maggior possanza; Ma se i compagni tuoi per aiutare Vengano a te, come e\ la lor usanza, Quell' alta rocca vi faro\ trovare, Ne/ so se avreti ben tempo a bastanza: Se tu combatti come il dritto chiede, Offeso non serai su la mia fede. $_ Non so se Orlando il tutto puote odire, Che gia\ dietro a Ranaldo e\ posto in caccia; Sempre cridando l' aveva a seguire: #_ Aspetta, che/ chi fugge mal minaccia; E chi desidra gli altri sbigotire, Non die' voltar le spalle, ma la faccia; Ma tu sei ben gagliardo a questo ponto, Che/ hai bon destriero e non credi esser gionto. $_ A quel cridar del conte il fio d' Amone Iratamente se ebbe a rivoltare, Dicendo: #_ Io non vo' teco questi%one, E tu per ogni modo la vo^i fare; Unde te dico che, avendo ragione, Omo del mondo non voglio schiffare; Ma siami testimonio Dio verace Che aver guerra con te m' incresce e spiace. $_ #_ Ben ne son certo, $_ disse il sir d' Anglante #_ Che te rincresce di tal guerra assai, Che/ non avrai a far con mercadante, Ne/ un pover forastier dispogliarai. Or non usiamo parole cotante: Mostra pur tuo valor, se ponto n' hai; Perche/ io te acerto e sazote ben dire Che a te bisogna vincere o morire. $_ Dicea Ranaldo a lui: #_ Guerra non aggio, Ne/ voglio aver con teco, il mio cugino; Perdon ti cheggio, s' io t' ho fatto oltraggio, Ben ch' io nol feci mai, per Dio divino! E se onta ti repu\ti o ver dannaggio Ch' io abbia preso e morto Trufaldino, A ciascun tuo piacer faro\ palese Che non te ritrovasti in sue diffese. $_ Rispose il conte ad esso: #_ Animo vile, Che ben de chi sei nato hai dimostranza, Mai non fusti figliol d' Amon gentile, Ma del falso Genamo di Maganza. Pur mo te dimostravi si\ virile E ragionavi con tanta arroganza: Or che condutto al paragon ti vedi, Merce/ piangendo e perdonanza chiedi. $_ Perse la pazi%enza a quel parlare Il fio de Amone, e con terribil guardo Verso de Orlando gli occhi ebbe a voltare, Et a lui disse: #_ Tanto sei gagliardo, Che ogni om ti teme e convienti onorare; Ma se tu non mi rendi il mio Baiardo, Presto potrai veder, come io ti dico, Ch' io non ti temo e non te stimo un fico. Come l' abbi robbato io non ho cura: Rendime il mio destriero, e si\ate onore. Tu ne l' hai via mandato per paura, Che/ di tenerlo non ti dava il core; Ma, se egli avesse de intorno le mura Tutte de acciaro, lo traro\ di fore; Et odi come io parlo chiaro e sodo: Io lo voglio per forza ad ogni modo. $_ #_ La prova vederemo incontinente $_ Rispose Orlando, sorridendo un poco: E non avea gia\ faccia de ridente, Ma battea labre e gli occhi come foco. Or, bei Segnori, io vi lascio al presente, E se voi tornareti in questo loco, Diro\ questa battaglia dove io lasso, Che un' altra non fu mai di tal fraccasso. Chi mi dara\ la voce e le parole, E un proferir magnanimo e profondo? Che/ mai cosa piu\ fiera sotto il sole Non fu mirata a lo universo mondo. L' altre battaglie fo^r rose e vi%ole: A ricontar di questa io mi confondo, Perche/ il valor e il pregio della terra A fronte son condutti in questa guerra. Era ciascun di lor tanto adirato, Che facean sbigotir chi gli guardava; E molti se parti^r senza comiato, E poca gente se gli avicinava; Uscia rovente fuor de gli elmi il fiato, E nel suo ragionar l' aria tremava; E chiunque stava di lontano un poco, Giurava che lor volti eran di foco. E si facean l' un l' altro orribil guardi, Parlando con voce aspra e minacciante; E benche/ al cominciar paresser tardi, Come io ve dimostrai nel dir davante, Cio\ fu che di persona si\ gagliardi E di cor fu ciascun tanto arrogante, Che ragionando si stavano adaggio, Mostrando non curar alcun vantaggio. Ma poi che Orlando trasse Durindana Forte cridando: #_ Or se vedra\ la prova, Se a tua prodezza, che e\ tanto soprana, Un altro pare in terra se ritrova! $_ La cosa piu\ non va suave e piana; Ponto e\ Ranaldo: convien che si mova. Pero\ prende Fusberta ad ambe mano, E verso il conte sprona Rabicano. E meno\ un colpo terribile e fiero, Come colui che ha forza oltra misura; Il dio d' amor, che ha il conte per cimiero, Volo\ con l' ale rotte alla pianura. L' elmo d' Almonte ben gli fie' mestiero, Che/ qua la affatason non lo assicura, Poi che Ranaldo a tanta furia il tocca, Che gli avria posto le cervelle in bocca. Ma il conte, che d' orgoglio e\ troppo caldo, Quella percossa non cura un lupino; E, stretto come un scoglio a l' onde saldo, Che non se crolla dal vento marino, Lui con gran forza percosse Ranaldo Sopra de l' elmo, che fu de Mambrino; Ma lui, che e\ tanto fiero e si\ possente, Per quel gran colpo se mosse ni%ente. E risposene un altro con roina, Dov' e\ il scudo e la lancia discoperta, E piastra non vi valse, o maglia fina, Che/ via la taglio\ tutta con Fusberta; Seco la giuppa alla terra dechina, Si\ che fece mostrar la carne aperta. Per questo d' ira il conte piu\ s' accese, Et a Ranaldo un gran colpo distese. Gionse a traverso del manco gallone, E misse a terra gran parte del scudo, E usbergo e piastra e grosso pancirone Fraccassa con roina il brando crudo; Porto\ seco la giuppa e il camisone, Si\ che mostrar li fece il fianco nudo. Ciascun de ira se accende e di mal fele, E la battaglia ognior vien piu\ crudele. Ranaldo prese un cruccio si\ diverso, Che alla sua vita mai n' ebbe cotanto; E meno\ ad ambe mano un gran roverso, Tal che, se l' elmo non fosse de incanto, Tutto l' avrebbe spezzato e disperso; E per quel colpo orribile e tamanto Orlando se stordi\ per tal maniera, Che non sapea quel loco dove egli era. Il suo destrier correndo andava intorno, Portandol stramortito in su la sella. Dicea Ranaldo: #_ Io so che al terzo giorno Non durara\ fra noi questa novella. $_ E per darli di morte ultimo scorno Un altro colpo adosso li martella; Io non saprebbi ben dir la cagione, Ma il conte alora usci\ de stordigione. E risentito, cognobbe Ranaldo, Qual gli era sopra per farlo morire. Turbato lo scrido\: #_ Giotton ribaldo, Mala ventura te ha fatto venire, Pero\ che morto sei se tu stai saldo, E vergognato se prendi a fuggire. Or te diffendi, s' hai cotanto orgoglio, Che/ averti alcun riguardo piu\ non voglio. $_ Cosi\ dicendo il conte a due man prese, Forte turbato, Durindana dura, E percosse ne l' elmo, e quel se accese A foco e fiamma con molta paura. Ranaldo su le croppe se distese Per quel gran colpo fuor d' ogni misura: Pendon le braccia et ha aperta ogni mano; Via ne l' arcione il porta Rabicano. Ma non fu giamai drago ni serpente, Che racogliesse in se/ tanto veleno, Quanto Ranaldo alor che si risente: Il cor avea di foco e il viso pieno. Verso de Orlando iniquitosamente Prende a due mano il brando e lascia il freno; E similmente il senator romano Contra lui vene, e mena ad ambe mano. Feri^r l' un l' altro con alto romore, Ciascun piu\ furi%oso e disperato; E sempre cresce la zuffa maggiore, E l' arme a pezzi a pezzi vanno al prato; Ne/ scorger ben se puo\ chi aggia il megliore, Che/ in poco tempo cangiasi il mercato; Or se veggion ferir de animo accesi, Or su le croppe andar morti e distesi. E si feriano con tanta nequizia Che a vendetta crudel seri\a bastante, E con aspro parlar l' un l' altro astizia. Diceva al fio d' Amone il sir d' Anglante: #_ Oggi hai trovato il brando di iustizia! Confessa le tue amende tutte quante; Che sei per fama publico ladrone, Io vo' che tu 'l confessi, e far ragione. $_ #_ Tu te credi tuttora essere in Franza, $_ Disse Ranaldo #_ e gli altri minacciare. Chi cambia terra, die' cambiare usanza; Re Carlo quivi non puo\ comandare. Tu me di' villania con arroganza, E credi ch' io te 'l voglia comportare? Et a farne la prova in ogni loco, Io son meglior di te molto, e non poco. Di che hai superbia, dimme, bastardone? Perche/ occidesti Almonte alla fontana, Che era legato in braccio al re Carlone, Ora te vanti, e porti Durindana Come acquistata per dritta ragione. Ben sei proprio figliol d' una puttana, Qual, perso che ha l' onor, piu\ non lo stima E piu\ sfacciata e\ dopo il fal che in prima. Datte forse arroganza il re Troiano? Ne/ ti vergogni di quella novella, Che, ancor ferito a morte e senza mano, Te trasse a tuo dispetto de la sella? Tu insieme lo occidesti in su quel piano: Va, ti nascondi, va, vil feminella! Tra gli omini apparere hai ardimento, E sei condutto a tanto tradimento? $_ Diceva Orlando a lui: #_ Non fa mestiero De la nostra bontade disputare; Che/ tu sei ladro, et io son cavalliero, E tutto il mondo lo sa iudicare; E bene aggio ragion s' io sono altiero De Almonte e de Troian, che hai a contare, Che fur di tanto pregio e di tal raccia, Che non gli avresti tu guardati in faccia. Fovi meco Rugiero e quel don Chiaro Che era corona d' ogni paladino, Quai stati non serian con un tuo paro, Che/ alcun di lor non era malandrino. Or tu te vanti, e po^i bene aver caro, De avere occiso il forte re Mambrino; Ma non sa dir alcun come ando\ il fatto, Perche/ tu pur fuggisti al primo tratto. Quella battaglia fu molto nascosa La\ dopo il monte, e senza testimonio; Chi giurara\ come andasse la cosa, E se il tuo Malagise col demonio Te dette la vittoria si\ pomposa? Et odito aggio ancora, o ch' io me insonio, Che il fratel Constantin pur fu ferito Dopo le spalle, e fu da te tradito. $_ Cosi\ l' un l' altro con grave rampogna Se oltraggiavano insieme {t} e {/t S; e' Z} cavallieri; Ora altro che parole ivi bisogna, Perche/ dal ragionare a i colpi fieri Eran venuti, e l' ira e la vergogna Gli avea spronati e fatti tropp' altieri; E se ferian con tanta crudeltade, Che ad ogni colpo fan foco le spade. Feri\ con ira Orlando ad ambe mano, Sopra Ranaldo gran colpo martella; Poco manco\ che non andasse al piano E stramortito uscisse de la sella. Come rivenne il sir de Montealbano, Non se accese mai lampa ne/ facella, Che non sembrasse del suo lume priva, Tant' ha di foco lui la faccia viva. Ad Orlando feri\ con gran furore Sopra di l' elmo, a forza si\ diversa, Che 'l paladin, che avea tanto vigore, Ha il sentimento e la memoria persa; E per la passi%one e gran dolore Sopra le croppe tutto si riversa; E for de l' arcion tanto se disserra, Che ogniom credette che l' andasse a terra. E non fu piu\ giamai leon ferito, Ne/ drago acceso tanto velenoso Come divenne Orlando risentito; E ben mostrava in viso furi%oso, Che/ non era a quel colpo sbigotito, Ma piu\ fier divenuto et animoso; Verso Ranaldo lascio\ un colpo crudo, E piu\ del terzo gli taglio\ del scudo. Rotto a traverso il scudo ando\ nel prato, Ne/ in questo resta la tagliente spada, Ma la maglia gli strazia dal costato, E convien che ogni piastra a terra vada. La zuppa e il camison tutto e\ straziato, Par che ogni cosa Durindana rada, Si\ spezza usbergo et ogni guarnisone; E feritte nel fianco il fio de Amone. Ma non se avide alor de la ferita, Tanto era riscaldato alla battaglia; Ferisce al conte quella anima ardita, De cima al fondo il scudo gli sbaraglia. Ogni piastra de usbergo ebbe partita, E tutto il panciron fraccassa e smaglia; E se non fusse che il conte e\ fatato, Gran piaga gli avria fatto nel costato. S' io conto tutti i colpi ad uno ad uno, Che facean sempre foco e le faville, Verra\ la sera e il cel si fara\ bruno, Perche/ furon i colpi piu\ di mille; Si\ ch' io nol dico, e puo\ pensar ciascuno Che non {add} Etto\r {/add; Ettor Z} di Troia e non Achille, Ne/ Ercole il grande, ne/ il forte Sansone Potrian con questi star al parangone. E qual mise\r Tristano e qual Gallasso, Qual altro cavallier de la ventura D' un tanto travagliar non seri\a lasso, Per l' estrema battaglia orrenda e dura? Che/ sempre combattero a gran fraccasso Da sol nascente insino a notte oscura, Ne/ mai chiesen riposo a quel furore, Che/ l' un de l' altro crede esser megliore. Et era il ciel de stelle tutto pieno Prima che alcun parlasse del partire, Pero\ che aveano al cor tanto veleno, Che se credean l' un l' altro far morire. Poi che la luce venne al tutto meno, Restarno, per vergogna, di ferire, Perche/ in quel tempo combattere al scuro Opra non era di baron sicuro. Diceva Orlando: #_ Po^i ringrazi%are Il giorno che e\ partito, e il vivo sole, Che alquanto t' ha la morte a indugiare, E certamente me ne incresce e dole. $_ Dice Ranaldo: #_ Cio\ lasciamo andare: Io vo' che meco vinci di parole; Ma gia\ di fatto vantaggio non hai, Ne/ creder, fin ch' io viva, averlo mai. E fino ad ora io sono apparecchiato (Per mostrar ch' io non ho di te paura) Di trare al fin lo assalto cominciato, Ch' io non te stimo, o giorno, o notte oscura. $_ Rispose il conte: #_ Ladro, scelerato, Che pur convien mostrar la tua natura, Come sei uso, tristo, doloroso, Far guerra al scuro, nel bosco nascoso. Io vo' teco azzuffarme al giorno chiaro, Perche/ tu vedi il tuo dolor palese, E che prender non possi alcun riparo, Ne/ fuggirti da me, ne/ far diffese. $_ Disse Ranaldo: #_ Adunque e' m' e\ ben caro Esser tanto lontano al mio paese, Per non dar quel dolore al duca Amone, Poi che morir convengo a ogni rasone. Io so combatter nel bosco nascoso, E nel monte alto e all' aperta pianura, E fo battaglia al giorno luminoso, Matina e sera e ne la notte scura. Or tu sei solo al mondo glori%oso, Et hai de l' onor tuo cotanta cura, Che non combatti se no' al sole altiero, Credendo altrui smarir col tuo quartiero. $_ Stavan gli altri baroni a lor d' intorno, Quei de la rocca e quei de la regina, Che avean lasciata sua battaglia il giorno Per mirar de costor l' alta ruina. Tra questi fo ordinato far ritorno Sopra quel campo ne l' altra matina, E diffinir la ultima battaglia, Chi piu\ de ardire e di possanza vaglia. Cosi\ tornorno questi nel girone, Orlando, dico, e la sua compagnia; E gli altri ciascadun al pavaglione. Or suonar trombe e gran corni se odi\a, Diversi cridi de istrane persone; Et alti fuochi al campo se vedia, E per le mura d' intorno alla rocca Spesse lumere; e la campana ciocca. Angelica, di dame accompagnata, Venne a trovare Orlando paladino Dentro alla zambra ricca et apparata: Quivi ha frutti, confetti e bon vino. La sopravesta il conte avea stracciata, E rotto il scudo d' o^r da l' armelino, E perduto il cimier del dio d' amore, Unde di doglia gli crepava il core. Et aveva tal doglia nel pensiero, Che non sa dir se egli e\ morto ne/ vivo, Se quella dama chiedesse il cimiero, O domandasse come ne fo privo. Ma de cio\ dubitar non fo mestiero, Che/ lei, ad antiveder troppo cativo, Cio\ che vedeva che al conte gradava, Quel gli chiedeva, e sol di cio\ parlava. Ma, cosi\ ragionando con diletto De la battaglia che era stata al piano, Non so come, ad Orlando venne detto, Che la\ giuso era il sir de Montealbano. La dama se commosse nello aspetto, Odendol nominare a mano a mano; Ma come quella che era saggia e trista, Coperse il suo pensier con falsa vista. E disse al conte: #_ Io ho malenconia, Che/ oggi stetti a le mura tutto 'l giorno, E mai tra gli altri io non te cognoscia, Cotanta gente ti stava d' intorno. Ma se volesse la ventura mia Che una sol fiata, de tutte arme adorno, Io te vedessi bene adoperare, Dio d' altra cosa non voria pregare. Benche/ spietata sia Marfisa e dura, Io certamente pur voglio provare Se per un giorno mi fara\ sicura, Tanto ch' io possa una zuffa mirare; E solo or penso a cui doni la cura Che vada la salvezza ad impetrare. Qual sera\ quel che a lei ne vada avante? Io mandaro\ lo ardito Sacripante. $_ Cosi\ fu dimandato incontinente Re Sacripante ad Angelica bella. Questo avea il core e le medolle ardente D' amor soperchio per quella donzella, Come odireti nel libro sequente. Or, seguitando la nostra novella, La dama, ragionando a lui, divisa Quel che impetrar desidri da Marfisa. E lui se parte, et al campo se accosta, Benche/ sia oscuro il cel, come io vi conto; E fece alla regina la proposta, Come davante a lei fo prima gionto. Ebbe subito grata e tal risposta, Qual seppe dimandare a ponto a ponto; La littra e\ suggillata, e con bel dire Fu ogniom securo al ritornare e al gire. Ogni stella del celo era partita, Fuor quella che va sempre al sol davante; E la rugiada per l' aria fiorita Se vedea cristallina e lustrigiante; Il celo, a la bell' alba ora apparita, D' oro e di rose avea preso sembiante; E, per dir questo in simplice parole, La notte e\ gita e non e\ gionto il sole, Quando la dama, mossa di quel caldo Che agiaccia l' intelletto et arde il core, De Angelica dico io, che per Ranaldo Se consumava nel foco d' amore, Fuora del letto se levo\ di saldo; E non aspetta il giorno o il suo splendore, Che/ ogni altro tempo li par speso invano Fuor che a vedere il sir de Montealbano. E poi che seppe, come io ve contai, Che esso nel campo al basso dimorava, Tutta la notte non dormi\ giamai, Ne/ prese possa, e sol di lui pensava. Sperando in zoia e sospirando in guai L' alba serena e il bel giorno aspettava, Pero\ che ogni sua voglia e suo desire E\ di veder Ranaldo, e poi morire. Ma il conte Orlando, senza altro pensiero, Era dormendo nel letto colcato, E sempre, in sogno, quello animo fiero Stava alla zuffa del giorno passato; Ne/ credo che sia al mondo cavalliero Che non si fosse alquanto spaventato Mirando il conte in quel sonno dissolto, Tanto feroce e orribile e\ nel volto. La damigella venne a lui soletta, E ponto non l' ardiva risvegliare; Ma come fa qualunche il tempo aspetta, Che l' ora un giorno, e il giorno un mese pare, Cosi\ la dama, che avea maggior fretta Che 'l conte Orlando assai de cavalcare, Or col viso suave, or con la mano, Sveglio\, toccando, il cavallier soprano. #_ Su, $_ disse ella #_ baron! Non piu\ dormire, Che/ da ogni parte gia\ se scopre il giorno; Io me levai, che/ me parve de odire La\ giu\ nel campo al basso uno alto corno; E perche/ io voglio con teco venire E, se a Dio piace, far teco ritorno, Son venuta a svegliarti per me stessa; E da te voglio un dono in tua promessa. $_ Il conte al suo bel viso remirando Tutto se accese de amoroso foco, E la dama abraccio\ tutto tremando, Benche/ soletti fussero in quel loco. Dicea la dama: #_ Io son al tuo comando; Ma se me ami, barone, aspetta un poco, Che/ quel ch' io dico per farti sicuro, Su la mia fede ti prometto e giuro. Io ti prometto che a ogni tuo volere Soletta in questo loco, come io sono, Ti lasciaro\ di me prender piacere, Se me prometti et attendi un sol dono, Perch' io voglio comprendere e vedere Stu me ami come mostri in abandono; E quel ch' io voglio e quel ch' io ti dimando, E\ una battaglia sola al mio comando. Ma se tu forse sei tanto inumano, Che prenda il tuo piacere al mio dispetto, Tenuto ne sarai sempre villano, E tornarate in pianto quel diletto, Perch' io me occidero\ con la mia mano, E passaromme in tua presenza il petto; Si\ ch' in te solo e in tuo arbitrio dimora Se vo^i ch' io mora, o vo^i che viva ancora. $_ Al fin delle parole lacrimando Abasso\ il viso con molta pietate; Non {add} puote/ {/add; puote\ Z} piu\ soffrire il conte Orlando, Ma piu\ di lei piangeva in veritate; E con somessa voce ragionando, Sempre chiedea perdon con umiltate, Dando la colpa del passato errore Al core ardente et al superchio amore. Poi l' un promesse a l' altro in sacramento Di servar le dimande tutte a pieno. Il lume della luna era gia\ spento, E il sole uscia del mare al ciel sereno, Quando quel cavallier pien de ardimento, Che mai di sua bonta\ non venne meno, Per provvederse alla cruda battaglia Tutto di piastra si copre e di maglia. E benche/ fusse d' animo virile E non temesse il mondo tutto quanto, Pur tutte l' arme guarda per sotile, Ambedue le scarpette e ciascun guanto, Che/ ben cognosce il cavallier gentile Che 'l suo inimico si donava il vanto D' alta prodezza in ogni baronaggio; Pero\ non vo^l ch' egli abbia alcun vantaggio. Poi che di piastra fu tutto coperto Et ebbe il suo bon brando al fianco cinto, Angelica la bella gli ebbe offerto Un cimiero alto e un scudo d' o^r destinto. Era il cimiero uno arboscello inserto, E il scudo a tale insegna ancor dipinto. L' elmo s' allaccia quel baron soprano, Monta a destriero e prende l' asta in mano. Li altri, per fare ad esso compagnia, Senza arme in dosso giu\ calarno al piano; Quivi Aquilante e Grifon se {add} vedia, {/add; vedi\a, Z} Brandimarte vien presso e il re Ballano; Il conte dopo questi ne veni\a, Et Angelica seco a mano a mano Sopra d' un palafren bianco et amblante; Il re Adri%an vien dietro e Sacripante. Rimase nella rocca Galafrone, E seco Chiari%on, che era ferito. Or diciamo de Orlando campi%one: Come fo gionto nel prato fiorito, Sonando il corno sfida il fio d' Amone, Qual gia\ nella campagna era apparito Tutto coperto a piastra e maglia fina; E seco al par Marfisa la regina. Lei senza l' elmo el viso non nasconde: Non fu veduta mai cosa piu\ bella. Rivolto al capo avea le chiome bionde, E gli occhi vivi assai piu\ ch' una stella; A sua beltate ogni cosa risponde: Destra ne gli atti, et ardita favella, Brunetta alquanto e grande di persona: Turpin la vide, e cio\ di lei ragiona. Angelica a costei gia\ non somiglia, Che era assai piu\ gentile e delicata: Candido ha il viso e la bocca vermiglia, Suave guardatura et affatata, Tal che a ciascun mirando il cor gli empiglia: La chioma bionda al capo rivoltata, Un parlar tanto dolce e mansueto, Ch' ogni tristo pensier tornava lieto. Questa ne andava con Orlando a mano, Come poco di sopra io ve ho contato; E quella col segnor de Montealbano, Che incontra gli veni\a da l' altro lato, Con l' arme in dosso sopra Rabicano. Torindo e il duca Astolfo disarmato, Prasildo e Iroldo pien di vigoria, Fanno a Ranaldo onore e compagnia. Ma poi che fo^rno gionti a i verdi prati, Ciascun si stette dal suo lato alquanto; Suonando il corno si fo^rno sfidati Quei duo che han di prodezza al mondo il vanto. Pregovi, bei segnor, che ritornati Ad ascoltarme nel seguente canto, Perche/ de l' altre zuffe ch' io contai Questa e\ piu\ fiera et e\ maggior assai. Chi provato non ha che cosa e\ amore, Biasmar potrebbe e due baron pregiati, Che insieme a guerra con tanto furore E con tanta ira se erano afrontati, Dovendosi portar l' un l' altro onore, Ch' eran d' un sangue e d' una gesta nati: Massimamente il figlio di Melone, Che piu\ della battaglia era cagione. Ma chi cognosce amore e sua possanza, Fara\ la scusa di quel cavalliero; Che/ amore il senno e lo intelletto avanza, Ne/ giova al provedere arte o pensiero. Giovani e vecchi vanno alla sua danza, La bassa plebe col segnore altiero; Non ha remedio amore, e non la morte; Ciascun prende, ogni gente et ogni sorte. E cio\ se vide alora manifesto, Che/ Orlando, qual di senno era compito, Di sua natura si cangio\ si\ presto, E venne impazi%ente allo appetito; Et a Ranaldo se fece molesto, Col qual fu de amista\ gia\ tanto unito. Ora nel campo a morte lo desfida, Suonando il corno ad alta voce crida: #_ Non hai vicino il forte Montealbano, Che possa con sue mure ora camparte; Non e\ teco il fratel de Vivi%ano, Qual ti possa giovar con sua mala arte. Chi te potra\ levar dalla mia mano? Come andarai fuggendo et in qual parte? Non e\ citade al mondo o tenimento, Ove non abbi fatto un tradimento. Belisandra robbasti in Barbaria, Quando gli andasti come mercadante. Vo^i tu forse tornar per quella via, O fuggir per il regno de Levante Dove sette fratei per tua foli\a E per le fraude tue, che son cotante, A tradimento son condutti a morte? Forse in Tesaglia andar te riconforte? Re Pantasilicor da te fo preso, Ne/ usata fu piu\ mai tanta viltate, Perche/, essendo pregion, da te fu impeso, Si\ che non passarai per sue contrate. E gia\ non posso a pieno aver inteso Tutte le tue magagne e crudeltate; Ma so che a Montalbano a notte scura Ne/ al chiaro giorno e\ la strata sicura. So che robbasti il tesoro indi%ano, Che a me toccava per dritta ragione, Perche/ il re de India, Durastante, al piano Fu da me morto, e non da te, ladrone. Sotto la tregua del re Carlo Mano Robbasti al re Marsilio il suo Macone. Ora te penti, e fa che ben m' intenda: Oggi di tanto mal farai l' amenda. $_ Ranaldo fece al conte aspra risposta, Forte suonando il suo corno bondino, Dicendo dopo il suon: #_ Vieni a tua posta, Che/ or sei {t} vasso {/t S; vasallo Z} et eri paladino, E poi che la tua mente e\ pur disposta Far la vendetta d' ogni Saracino, Di qualunque sia morto in ogni lato, Preso o disfatto, o sia da me robbato. Ma a te ramento che aggio a vendicare La morte iniqua d' ogni cristi%ano. Don Chiaro il paladin vo' ricordare, Che l' occidesti in campo di tua mano; Percio\ se ebbe Girardo a disperare, E per tua colpa divenne pagano. Ascolta, renegato e maledetto: Chi da\ cagione al mal, lui n' ha il diffetto. Il padre de Olivier, malvaggio cane, Venne per tua cagion da Carlo occiso; Ranaldo di Bilanda per tue mane Avanti al vecchio patre fo diviso. E tu quando ti levi la dimane, Credi acquistar zanzando il paradiso Con croce e patrinostri? Altro ci vo^le Che per rei fatti dar bone parole. Ricordate, crudel, che a Monteforte, Per prender quel castello a tradimento, Il franco re Balante ebbe la morte, E cio\ fu ben di tuo consentimento, Che/ stavi apresso a Carlo Magno in corte; Ne/ ti bastando il core o l' ardimento Di scontrarti con lui sopra al sentiero, Altrui mandasti, e fu morto Rugiero. $_ Queste parole et altre piu\ diverse Dicea Ranaldo con voce rubesta. Ora piu\ oltra il conte non sofferse, Ma contra lui se mosse a gran tempesta; Ciascadun sotto il scudo si coperse, E con alto furor la lancia arresta, E vengonsi a ferir con ardimento: Sembra^r quei duo destrier {add} folgor {/add; folgor' Z} e vento. Come nel celo o sopra la marina Duo venti fieri, orribili e diversi Scontrano insieme con molta roina, E fan conche e navigli andar roversi; E come un rivo dal monte declina, Con sassi rotti et arbori dispersi; Cosi\ quei duo baron pien di valore Se urtarno con altissimo rumore. Non fu piegato alcun di loro un dito, A benche/ delle lancie smisurate Ciascun troncone insino al celo e\ gito. Gia\ son rivolti et han tratto le spate; Ne/ intorno fu pagan cotanto ardito Che non se sbigotisse in veritate, Quando l' un l' altro rivolto\ la faccia Piena de orrore e de ira e de minaccia. Non vide il mondo mai cosa piu\ cruda Che il fiero assalto di questa battaglia, E ciascun sol mirando trema e suda: Pensati che fa quel che se travaglia! In piu\ parte avean lor la carne nuda, Che/ mandate han per terra piastra e maglia. Ranaldo sopra al conte se abandona, Nel forte scudo il gran colpo risuona. Il scudo aperse e il brando dentro passa: Sopra la spalla gionse al guarnimento, La piastra del braccial tutta fraccassa. Sente a quel colpo il conte un gran tormento; Adosso de Ranaldo andar se lassa, E ben sembra al soffiar tempesta e vento; A man sinestra gionge il brando crudo, Sino alla spalla rompe e parte il scudo. A poco a poco piu\ l' ira s' accende: Ranaldo sopra l' elmo gionse il conte; Taglio del brando a questo non offende, Pero\ che era incantato e fu de Almonte, Ma il cavallier stordito se distende Per quel colpo superbo che ebbe in fronte, E rivenne in se stesso in poco d' ora; Ira e vergogna al petto lo divora. Stringendo e denti, il forte paladino Mena a Ranaldo un colpo nella testa: Gionse ne l' elmo che fu de Mambrino; Non fu veduta mai tanta tempesta. Quel baron tramortito andava e chino, Via fugge Rabicano, e non s' arresta, Intorno al campo, e par che metta l' ale; Al conte Orlando il suo spronar non vale. Non fu veduto mai tanto peccato, Quanto era di Ranaldo valoroso, Ch' era sopra l' arcione abandonato, E strasinava il brando al prato erboso; Fuor de l' elmo uscia il sangue da ogni lato, Pero\ che a quel gran colpo furi%oso Tanta angoscia sofferse e tanta pena, Che 'l sangue gli crepo\ fuor d' ogni vena. Fuor della bocca usciva e fuor del naso, Gia\ ne era l' elmo tutto quanto pieno; Spirto nel petto non gli era rimaso, Correndo il suo destriero a voto freno. E cosi\ stette in quel dolente caso Quasi una ora compita, o poco meno; Ma non fu giamai drago ni serpente Quale e\ Ranaldo, allor che se risente. Non fu ruina al mondo mai maggiore, Che/ l' altre tutte quante questa passa; Strazia dal petto il scudo, e con rumore Contro alla terra tutto lo fraccassa. Fusberta, il crudo brando, a gran furore Stringe a due mane e le redine lassa, E ferisce cridando al forte conte: Proprio lo gionse al mezo della fronte. Non {add} puote/ {/add; puote\ Z} il colpo sostenire Orlando, Ma su le croppe la testa percosse; Le braze a ciascun lato abandonando, Gia\ non mostra d' aver l' usate posse. Di qua di la\ se andava dimenando, Et ambe l' anche di sella rimosse; Poco manco\ che 'l stordito barone Fuor non uscisse al tutto de l' arzone. Ma come quel che avea forza soprana, Ben prestamente usci\ di quello affanno, E, riguardando la sua Durindana, Dicea: ## Questo e\ il mio brando, o ch' io m' inganno; Questo e\ pur quel ch' io ebbi alla fontana, Che ha fatto a' Saracin gia\ tanto danno. Io me destino veder per espresso S' io son mutato o pur se 'l brando e\ desso. $# Cosi\ diceva: et intorno guardando, Vidde un petron di marmore in quel loco; Quasi per mezo lo parti\ col brando Persino al fondo, e manco\vi ben poco. Poi se volta a Ranaldo fulminando; Torceva gli occhi, che parean di foco, D' ira soffiando si\ come un serpente; Mena a due mani e batte dente a dente. O Dio del celo, o Vergine regina, Diffendete Ranaldo a questo tratto, Che/ 'l colpo e\ fiero e di tanta ruina, Che un monte de diamanti avria disfatto. Taglia ogni cosa Durindana fina, Ne/ seco ha l' armatura tregua o patto; Ma Dio, che campar volse il fio d' Amone, Fece che 'l brando colse di piatone. Se gionto avesse la spada di taglio, Tutto il fendeva insino in su l' arcione; Sbergo ni maglia non giovava uno aglio, Et era occiso al tutto quel barone. Ma fu di morte ancora a gran sbaraglio, Che/ il colpo gli dono\ tal stordigione, Che da l' orecchie uscia il sangue e di bocca; Con tanta furia sopra l' elmo il tocca. Tutta la gente che intorno guardava Levo\ gran crido a quel colpo diverso; E Marfisa tacendo lacrimava, Perche/ pose Ranaldo al tutto perso. Il conte ad ambe mano anco menava Per tagliar quel baron tutto a traverso; E ben puoteva usar di cotal prove: Ranaldo e\ come morto e non se move. Quel colpo sopra lui gia\ non discese, Che/ Angelica alla zuffa era presente. Lei tenne il conte, e per il braccio il prese, Et a lui volta con faccia ridente, Disse: #_ Barone, egli e\ chiaro e palese Che tra gentile e generosa gente Solo a parole se osserva la fede: Senza giurare l' uno a l' altro crede. Questa matina promisi e giurai Per una volta di farti contento, E come e quando tu comandarai; Ma prima tu de\i trare a compimento Una impresa per me, come tu sai, La qual comandar posso a mio talento; Si\ che io te dico, franco paladino, Incontinente po\neti a camino. Prendi la strata per questa campagna, Ne/ te curar de indugia ne/ de posa, Sin che sei gionto nel regno de Orgagna, La\ dove trovarai mirabil cosa; Che/ una regina piena di magagna (Cosi\ Dio ne la faccia dolorosa!) Ha fabricato un giardin per incanto, Per cui destrutto e\ il regno tutto quanto. Perche/ alla guarda del falso giardino Dimora un gran dragone in su la porta, Qual ha deserto intorno a quel confino Tutta la gente del paese, e morta; Ne/ passa per quel regno peregino, Ne/ dama o cavalliero alla sua scorta, Che non sian presi per quelle contrate, E dati al drago con gran crudeltate. Onde te prego, se me porti amore, Come ho veduto per esperi%enza, Che questa doglia me levi del core, De la qual piu\ non posso aver soffrenza; E so ben che cotanto e\ il tuo valore E 'l grande ardire e l' alta tua potenza, Che, abenche/ il fatto sia pericoloso, Pur nella fin serai vittori%oso. $_ Orlando alla donzella presto inchina, Ne/ se fece pregar piu\ per ni%ente, E con tanto furor ratto camina, Che uscito e\ gia\ di vista a quella gente. Or, menando fraccasso e gran roina, Il fio d' Amon turbato se risente; Strenge a due mano il furi%oso brando Credendo vendicarse al conte Orlando. Ma quello e\ gia\ lontan piu\ de una lega: Ranaldo se 'l destina di seguire, Che/ mai non vo^l con lui pace ne/ trega, Sin che l' un l' altro non fara\ morire. Marfisa, Astolfo e ciascuno altro il prega, E tanto ogniom di lor seppe ben dire, Che Ranaldo, che avea la mente accesa, Pur fu acquetato e lascio\ quella impresa. Questo fin ebbe la battaglia fella. Torno\ Ranaldo a farse medicare; Parlar li volse Angelica la bella, Lui per niente la volse ascoltare, Che/ tanto odio portava a la donzella, Che apena la puoteva riguardare. Or lei si parte e vien sopra al girone; Ranaldo in campo torna al paviglione. Su nella rocca ritorno\ la dama, E de amor si lamenta e di fortuna; Piange dirottamente e morte chiama, Dicendo: ## Or fo giamai sotto la luna Per l' universo una donzella grama, O nello inferno passo\ anima alcuna, Che avesse tanta pena e tale ardore, Quale io sostengo a l' affannato core? Quel gentil cavallier l' alma m' ha tolta, Ne/ vo^l ch' io campa, e non mi fa morire, Et e\ tanto crudel, che non m' ascolta. Che al manco gli potessi io fare odire Li affanni che sostengo, una sol volta, E di poi presto mia vita finire! Che/ dopo morte ancor sarei contenta, Se egli ascoltasse il do^l che mi tormenta. Ma ciascuna alma disdegnosa e dura Amando e lacrimando al fin se piega, Si\ che speranza ancor pur mi assicura Che a un tempo mi dara\ quel che or mi niega; E sol di quello e\ la bona ventura, Che paci%enzia segue e piange e priega; E, s' io son fuor di tal condizi%one, Pur stato non sera\ per mia cagione. Io vincero\ la sua discortesia; Ancor se plachera\, se ben fia tardo, {add} Faragli {/add; Fara\gli Z} ancor pieta\ la pena mia, E 'l fuoco smisurato ove io dentro ardo. Poi che seguir conviensi questa via, Io vo' mandarli adesso il suo Baiardo, Che/, come intendo e per ciascun se nara, Cosa del mondo a lui non e\ piu\ cara. Orlando piu\ non tornara\ giamai, Che/ non giovara\ forza ne/ sapere, Allo estremo periglio ove il mandai: Far posso del destriero il mio parere. Ahi re del cel! come forte fallai A far perir colui che ha tal potere! Ma Dio lo sa ch' io non puote' soffrire Quel che tanto amo vederlo morire. Ora fia morto il bon conte di Brava, Sol per campar la vita al fio d' Amone. Quel molto piu\ che sua vita me amava, Questo non ha di me compassi%one; E certo consci%enza assai me grava, E vedo ch' io fo pur contra ragione: Ma la colpa e\ d' Amor, che senza legge E soi subietti a suo modo corregge. $# Cosi\ dicendo chiede una donzella, Che fu con lei creata piccolina, Di aria gentile e di dolce favella; Alla sua dama davanti se inchina. Disse Angelica a lei: #_ Va, monta in sella Calla nel campo di quella regina, Qual per suo orgoglio, contra ogni ragione, Sta nello assedio di questo girone. Tu montarai sopra il tuo palafreno: Baiardo, quel destrier, menalo a mano. Di tende e paviglioni il campo e\ pieno: Cerca tu quel del sir de Montealbano. A lui del bon destrier da\ in mano il freno, E digli, poi ch' egli e\ tanto inumano Che comporta ch' io pe\ra in tante brame, Non vo' che il suo ronzon mora di fame. Io non potrebbi mai gia\ comportare, Che 'l suo destrier patisse alcun disaggio, A benche/ lui mi venne assedi%are, E femmi oltra al dover cotanto oltraggio. Sol d' una cosa me puo\ biasimare: Ch' io l' amo oltra misura; et ameraggio Sin che avro\ spirto in core e sangue adosso, O voglio o non, pero\ che altro non posso. A lui ragionarai in cotal guisa, Et a trarne risposta abbi lo ingegno; Che/ tanto e\ la pieta\ da quel divisa, Che forse di parlarti avria disdegno. Partendoti da lui, vanne a Marfisa, Ne/ far de onore o reverenzia un segno; Senza smontar d' arcione a lei te accosta, E da mia parte fa questa proposta. Diragli ch' io credetti che Agricane Dovesse per suo esempio spaventare E le genti vicine e le lontane Dal non dover con me guerra pigliare; Ma da poi ch' essa ancor non se rimane, Che gli altri se potranno ammaestrare Per lo esempio di lei, che tanto e\ paccia, Che bisogno ha d' aiuto e pur minaccia. $_ La damisella usci\ di quel girone, E giu\ nel campo subito discese; La sua ambasciata fece al fio d' Amone Con bassa voce e ragionar cortese: Sempre parlando stette ingenocchione. Io non so dir se ben Ranaldo intese, Che/, come prima odi\ chi la mandava, Volto\ le spalle e piu\ non l' ascoltava. Era con lui Astolfo al paviglione, Il qual, veggendo la dama partire, Che seco ne menava il bon ronzone, Subitamente la prese a seguire, Dicendo a lei che per dritta ragione Questo destrier potrebbe ritenire Come sua cosa, poi che era palese Che esso l' avea condutto in quel paese. A concluder, la dama puotea meno, E il modo non avea da contrastare, Onde se lascio\ tuor di mano il freno: Adietro l' ebbe Astolfo a remenare. Or per quel campo d' arme tutto pieno La messagiera se pone a cercare: Cerca per tutto, e mai non se rafina, Sin che fu gionta avanti alla regina. E non se sbigoti\ di sua presenzia, Ma fece sua proposta alteramente, Con ardire mestiato di prudenzia. Quella regina, che ha l' animo ardente, La odi\a parlar con poca paci%enzia, E sol rispose: #_ Bene e\ tostamente Il minacciar d' altrui; ma il fin del gioco E\ di cui fa de' fatti e parla poco. $_ Lasciamo il ragionar della donzella, La qual, nel modo che aviti sentito, Torno\ davanti ad Angelica bella; E ragionamo di quel conte ardito, Che per li fiori e per l' erba novella Via caminando e\ de una selva uscito; Fuor della selva, a ponto in su quel piano, Armato e\ un cavallier con l' asta in mano. Sopra d' una acqua un ponte marmorino {add} Tenia {/add; Teni\a Z} quel cavallier in sua diffesa; Alla ripa del fiume, ad un bel pino Stava una dama per le chiome impesa, La qual facea lamento si\ tapino, Che avrebbe di dolor quella acqua accesa; Sempre soccorso e mercede domanda, Di pianto empiendo intorno in ogni banda. Di lei molta pieta\ si venne al conte, E per ella sligare al pino andava. Ma il campi%on, che armato era sul ponte, #_ Non andar, cavallier! $_ forte cridava #_ Che/ fai a tutto il mondo oltraggio et onte, Dando soccorso a quella anima prava; Perche/ l' antiqua etade e la novella Non ebbe mai piu\ falsa damigella. Per sua malizia sette cavallieri Sono perduti e per sua fellonia. Ma cio\ contarti non mi fa mestieri, Che troppo e\ lungo: vanne alla tua via; Lasciala stare e prendi altri pensieri. $_ Cari segnori e bella baronia, Stati contenti a quel che aveti odito: Per questa fiata il canto e\ qui finito. Ne l' altro canto io ve contai che Orlando Vide il bel pino a lato alla riviera, Dove la dama impesa lacrimando Avria mosso a pietate un cor di fiera; E mentre che lui stava riguardando, Quello altro campi%on con voce altiera Gli disse: #_ Cavallier, va alla tua via, Ne/ dare aiuto a quella dama ria. La quale adesso ha ben tutta sua voglia, Poi che sta impesa con le chiome al vento, E voltasi leggier come una foglia; E ben fo questo sempre il suo talento: Or con vana speranza, or certa doglia Tenir li amanti in estremo tormento. Come al vento si volge per se stessa, Cosi\ sempre rivolse ogni promessa. $_ Rispose il franco conte: #_ In veritate, Nella mia mente non posso pensare, Non che aprir gli occhi a tanta crudeltate; In ogni modo la voglio campare, Ne/ credo che abbi in te tanta viltate, Che a questa cosa debbi contrastare. Se offeso sei e di vendetta hai brama, Cio\ non conviene oprar sopra a una dama. $_ #_ Questa donzella $_ disse il cavalliero #_ Fo sempre si\ crudele e dispietata, E tanto vana e d' animo leggiero, Che drittamente e\ quivi condennata. Ma tu forse, baron, tu forastiero Non sai la istoria di questa contrata, Pero\ pieta\ te muove a dar soccorso A quella che e\ crudel piu\ che alcuno orso. Ascolta, ch' io te prego, in qual mainera Ben iustamente e per dritta ragione Fosse nel pino impesa quella fiera. Lei nacque meco in una regi%one, E fo per sua beltade tanto altiera, Che mai non fo mirato alcun pavone Che avesse piu\ superbia nella coda, Quando la sparge al sole et ha chi 'l loda. Origille e\ il suo nome, e la citade Dove nascemmo Batria e\ nominata. Io l' amai sempre dalla prima etade, Come piacque a mia sorte isventurata; Lei or con sdegni, or con finta pietade, Promettendo e negando alcuna fiata, Me incese di tal fiamma a poco a poco, Che tutto ardevo, anzi ero io tutto un foco. Un altro giovanetto ancor l' amava; Non piu\ di me, che/ piu\ non se puo\ dire, Ma giorni e notti sempre lacrimava, Quasi condutto a l' ultimo morire. Locrino il cavallier si nominava, Qual soffrea per amor tanto marti\re, Che giorno e notte, lacrimando forte, Chiedea per suo ristor sempre la morte. Lei l' uno e l' altro con bone parole E tristi fatti al laccio {add} tenia {/add; teni\a Z} preso, Mostrandoci nel verno le vi%ole, E il giaccio nella state al sole acceso; E benche/ spesso, come far si suole, Fosse l' inganno suo da noi compreso, Non fo l' amor d' alcuno abandonato, Credendo piu\ ciascuno essere amato. Piu\ volte avante a lei mi presentai, Formando le parole nel mio petto, Ma poi redirle non puote' giamai, Che/, come io fu' condutto al suo cospetto, Quel che pensato avea, domenticai, E si\ perdei la voce e l' intelletto E tutti e sentimenti per vergogna, Ch' era il mio ragionar d' un om che sogna. Pur mi die\ amore al fin tanta baldanza, Che un tal parlare a lei da me fu mosso: #" Se voi credesti, dolce mia speranza, Ch' io potessi soffrir quel che io non posso, E che la vita mia fosse a bastanza Del foco che m' ha roso insino a l' osso, Lasciati tal pensiero in abandono, Che/ se aiuto non ho, morto gia\ sono. Cio\ vi giuro, et e\ vero, e non ve inganno; E pensar ben doveti in vostro core Che l' uom die' sostener l' estremo danno Prima che 'l provi il suo amico maggiore; Perche/ essendo ingannato, ogni altro affanno, Anci la morte, e\ ben pena minore, Perche/ alla fine ogni marti\re avanza Trovarsi vana l' ultima speranza. Ben lo sa Dio che in altri non ho spene, E che voi seti quella che piu\ amo; Soffrir non posso ormai cotante pene: A l' estremo dolor {add} merce/ {/add; merce\ Z} vi chiamo. Camparme al vostro onor ben si conviene, Che/ sol per voi servir la vita bramo, E, se aiuto non dati al mio gran male, Io moro, e voi perdeti un cor leale. $" Non fuor queste parole simulate, Anci tratte al mio cor della radice; Lei, che femina e\ ben in veritate, (Che tutte son peggior che non se dice), Fece risposta con gran falsitate, Per farme piu\ dolente et infelice, Dicendo: #" Uldarno $" (che/ cosi\ mi chiamo) #" Piu\ che 'l mio spirto e piu\ che gli occhi v' amo. E se io potessi mostrarne la prova, Come io posso in voce proferire, Cosa non ho nel cor che si\ me mova, Quanto al vostro desio poter servire; E se alcun modo o forma se ritrova, Ch' io possa contentar questo disire, Io sono apparecchiata a tutte l' ore, Pur che si servi insieme il nostro onore. Ma certamente io vedo una sol via (Volendo, come io dico, riservare Nel vostro onor la nominanza mia) Che ce possiamo insieme ritrovare. Come sapete, la fortuna ria Fece a la morte insieme disfidare Oringo, il cavallier tanto inumano, Contra a Corbino, mio franco germano. E fo quel damigello al campo morto, Dico Corbino, e contra alla ragione, Che/ ancor non era ben ne l' arme scorto, E l' altro fo piu\ volte al parangone. Ora per vendicar cotanto torto Mio patre va cercando un campi%one, Proferendo a ciascuno estremo merto, Et hal trovato, o trovaral di certo. Voi, che portate adunque l' arme indosso D' Oringo e la sua insegna e il suo cimero, Fuor de la terra vi serete mosso, La\ dove scontrarete un cavalliero. Poi che l' un l' altro ve areti percosso, Pigliar vi lasciareti di legiero, E questo e\ solo il modo e la maniera A far contenta vostra voglia intiera. Pero\ che quivi sereti menato Da l' altro cavallier, che ve avra\ preso; Sotto mia guarda stareti legato, E non temeti gia\ de essere offeso, Che/ a vostra posta vi daro\ combiato. E benche/ 'l patre mio sia d' ira acceso, Et abbia molta voluntate e fretta Di far del suo figliolo aspra vendetta, Nulla di manco ho gia\ preso il partito Di poter vosco alquanto dimorare, Poi mostraro\ che via siati fuggito. $" Cosi\ la falsa m' ebbe a ragionare, Et io ben presto presi questo invito, Ne/ a periglio o fatica ebbi a pensare, Che/, per trovarme seco ad un sol loco, Passato avria per mezo un mar di foco. Addobbato mi fu' subitamente L' arme de Oringo et ogni sua divisa; Ma, come io fu' partito, incontinente Costei, che del mio mal facea gran risa, Come quella che e\ troppo fraudolente E perfida e crudel for d' ogni guisa, Partito, come io dico, a lei davante, Fece chiamare a se/ quell' altro amante. Cio\ fu Locrino, de chi ragionai, Che a un tempo meco questa falsa amava, E con promesse e con parole assai, Come sapea ben far, lo alosingava, Dicendo, se sperar dovea giamai Guidardon de l' amor che gli mostrava, Che per un giorno sia suo campi%one: Di%agli Oringo morto, o ver pregione. Il loco li raconta, ove mandato M' avea lei stessa fuor de la citate, E tanto fece al fin, che l' ebbe armato De insegne contrafatte e divisate, E fuora venne per trovarmi al prato. Nel scudo verde ha due corne dorate E nella sopravesta e nel cimiero, Come portava un altro cavalliero. Quel cavallier avea nome Ari%ante, Che per insegna le corne portava, Tanto animoso e di membre aiutante Che forse un altro par non attrovava. Questo era d' Origille anco esso amante, Et averla per moglie procacciava; E gia\ col patre de essa stabilito Avea per patto d' esser suo marito. Ma prima Oringo dovea conquistare, Et a lui presentarlo, o morto o preso. Or, per far breve il nostro ragionare, Questo ne venne a quel prato, disteso, La\ dove io stava armato ad aspettare: Dopo lieve battaglia io mi fui reso. Credendo a questa falsa esser menato, Feci poca diffesa e fui pigliato. Locrino, in questo tempo, il giovanetto, Nel vero Oringo a caso fu inscontrato, Ne/ menarno la zuffa da diletto, Questo d' amore e quel ch' era infiammato. Fu ferito Locrino a mezo il petto, Oringo nella testa e nel costato; E fu l' assalto lor si\ crudo e forte, Che ciascun d' essi quasi ebbe la morte; Abench' al fine Oringo fu pregione, Che/ uno amoroso cor vince ogni cosa. Ora intervenne che 'l crudo vecchione, Il quale e\ patre a questa dolorosa, Avea di far vendetta il cor fellone, E notte e giorno mai non stava in posa. Sempre guardando, cerca con gran pena Se 'l suo campione Oringo ancor li mena. Et ecco avanti lo vide venire, Con la man disarmata e senza brando, Come colui ch' e\ preso, a non mentire. {add} Andogli {/add; Ando\gli Z} incontra pallido e tremando, E apena se ritenne de ferire; Ma poi, dapresso con lor ragionando, Cognobbe nella voce e nel sembiante Che Locrino era quel, non Ari%ante. Ben sapea il vecchio che quel giovanetto La sua figliola avea molto ad amare, E pero\ gli diceva: #" Io ti prometto, Se questo tuo pregion me vo^i donare, Contento ti faro\ di quel diletto Qual piu\ nel mondo mostri desi%are. Se vero e\ che mia figlia cotanto ami, Io te contentaro\ di quel che brami. $" Locrino paccio fu presto accordato, Benche/ darli il pregion non gli era onore; Tanto gia\ lui d' amore era spronato, Che gli avria dato parte del suo core. Essendo gia\ tra lor fatto il mercato, La nostra gionta gli pose in errore, Perche/ Ari%ante et io, che ero pregione, Giongemmo avanti a quel crudo vecchione. Quivi la cosa fu tutta palese E la cagion de l' arme tramutate. Alora Oringo molto me riprese, Che in dosso le sue insegne avea portate; E tra noi quattro fur molte contese, E quasi ne venemmo a trar le spate, Perche/ Ari%ante ancor se lamentava Pur de Locrin, che sua insegna portava. Nel regno nostro e\ legge manifesta Che chiunque porta scudo o ver cimero D' un altro campi%one o d' altra gesta, E\ disfamato con gran vitupero, E se non ha perdon, perde la testa. Benche/ 'l statuto sia crudele e fero, Che/ la pena e\ maggior che la fallanza, Pur e\ servata per antiqua usanza. Avanti al re fu tratta la querella; Il qual, veggendo tutta la cagione Essere uscita da questa donzella, Qual li avea indotto a quella guarnisone, E con le insegne altrui montare in sella, Prese consiglio, con molta ragione, Che, avendo ogniom di noi fatto gran male, Tutti dian voce a pena capitale: Oringo, perche/ morto avea Corbino, Ch' era garzone, e lui gia\ di gran fama; Et Ari%ante, si\ come assassino, Qual per avere il prezo d' una dama Avea promesso a quel vecchio mastino La morte di colui che tanto brama. Cosi\ meco Locrino ad una guisa, Che/ avevamo portata altrui divisa. Si\ iudicati tutti quattro a morte, Fummo obligati sotto a sacramento Non uscir for de Batria delle porte, Sin che non e\ il iudicio a compimento; E fece il re da poi ponere a sorte Chi menar debba la dama al tormento, Perche/ lei, che e\ cagion di tanto errore, Non aggia morte, ma pena maggiore. Come tu vedi, per le chiome impesa Sopra a quel pino al vento se trastulla, E per farla campare e\ bene attesa D' ogni vivanda, e non gli manca nulla. La prima sorte a me dette la impresa De stare in guardia alla falsa fanciulla, E cosi\ gia\ tre giorni ho combattuto Contra a ciascun che gli vuol dare aiuto. E sette cavallieri ho tratto a fine: E nomi tutti non te vo' contare; Mira quei scudi e l' armi peregrine, Qual ciascadun di lor suolea portare. Tutti han perduto l' anime tapine Per voler questa dama liberare; Il scudo de ciascuno e l' elmo e 'l corno Sono attaccati a quel troncon d' intorno. E se caso averra\ ch' io pur sia morto, Oringo e poi Locrino et Ari%ante Verran l' un dopo l' altro a questo porto, Ciascun di me piu\ fiero et aiutante; E pero\, cavalliero, io te conforto Che non te curi di passare avante, Perche/ qualunche al ponte non se attiene, Aver battaglia meco li conviene. $_ Orlando stava attento al cavalliero Che avea contata lunga diceria; Ma la donzella da quel pino altiero Forte piangendo il cavallier mentia, Dicendo che malvaggio era e si\ fiero, Che la tormenta sol per fellonia, E perche/ e\ dama e non puo\ far diffesa, La tien per crudeltate al pino appesa. E che sette baroni a tradimento Aveva occiso, e non per sua virtute, E per dar tema agli altri e gran spavento Tenea quei scudi in mostra e le barbute. Cosi\ dicea la dama, e con lamento Parlava al conte per la sua salute, Per Dio pregando e sempre per pietate, Che non la lasci in tanta crudeltate. Non stette Orlando gia\ molto a pensare, Perche/ pieta\ lo mosse incontinente, Dicendo a Uldarno o che l' abbia a spiccare, O che prenda battaglia di presente. Cosi\ l' un l' altro s' ebbe a disfidare; Ciascadun volta il suo destrier corrente, E vengonsi a ferir con cruda guerra: Al primo incontro Orlando il pose in terra. Poi che fu il cavallier caduto al piano, Il conte prestamente al pino andava. Sopra una torre a quel ponte era un nano, Che incontinente un gran corno suonava; Dopo quel suono apparve a mano a mano Un cavalliero armato, che cridava, E morte al conte e gran pena minaccia, Se s' avicina al pino a vinte braccia. Il conte aveva integra ancor sua lanza; Presto se volta, e quella al fianco arresta, E ferisce al baron con tal possanza, Che sopra al prato il fie' batter la testa. Ma far nova battaglia ancor gli avanza, Che/ 'l nano suona il corno a gran tempesta, E gionge il terzo cavalliero armato: Si\ come gli altri ando\ disteso al prato. Sopra la torre il nano il corno suona: Il quarto cavallier ne vien palese. Orlando contra lui forte sperona, E con fraccasso a terra lo distese. Poi tutti come morti li abandona, E passa il ponte senza altre contese, E gionge al pino e smonta della sella: Salisce al tronco e spicca la donzella. Giu\ per le rame la portava in braccio, E quella dama lo prese a pregare, Poiche/ tratta l' avea di tale impaccio, Che via con seco la voglia portare, Perche/ di lei seri\a fatto gran straccio, Se quivi se lasciasse ritrovare. Orlando la assicura e la conforta, In croppa se la pone, e via la porta. Era la dama di estrema beltate, Malici%osa e di losinghe piena; Le lacrime teneva apparecchiate Sempre a sua posta, com' acqua di vena. Promessa non fie' mai con veritate, Mostrando a ciascadun faccia serena; E se in un giorno avesse mille amanti, Tutti li beffa con dolci sembianti. Come io dissi, la porta il conte Orlando; E gia\ partito essendo di quel loco, Lei con dolci parole ragionando Lo incese del suo amore a poco a poco. Esso non se ne avide e, rivoltando Pur spesso il viso a lei, prende piu\ foco, E si\ novo piacer gli entra nel core, Che non ramenta piu\ l' antiquo amore. La dama ben s' accorse incontinente, Come colei che e\ scorta oltra misura, Che quel baron d' amore e\ tutto ardente, Onde a infiamarlo piu\ pone ogni cura; E con bei motti e con faccia ridente A ragionar con seco lo assicura; Pero\ che 'l conte, ch' era mal usato, D' amor parlava come insonni%ato. Mille anni pare a lui che asconda il sole, Per non avere al scur tanta vergogna; Perche/, benche/ non sappia dir parole, Pur spera de far fatti alla bisogna; Ma sol quel tempo d' aspettar gli dole, E fra se stesso quel giorno rampogna, Qual piu\ de gli altri gli par longo assai, Ne/ a quella sera crede gionger mai. E cosi\ cavalcando a passo a passo, Ragionando piu\ cose intra di loro, A mezo il prato ritrovarno un sasso, Che e\ scritto tutto intorno a littre d' oro, E trenta gradi, dalla cima al basso, Avea tagliato con netto lavoro; Per questi gradi in cima se saliva A quel petron, che asembra fiamma viva. Disse la dama al conte: #_ Or te assicura, Se hai, come io credo, la virtu\ soprana, Che in questo sasso e\ la maggior ventura Che sia nel mondo tutto, e la piu\ strana. Monta quei gradi e sopra quella altura: La pietra e\ aperta a guisa di fontana; Ivi te appoggia, e giu\ callando il viso Vedrai l' inferno e tutto il paradiso. $_ Il conte non vi fece altro pensiero: Certo il demonio e Dio veder si crede, Et alla dama lascia il suo destriero. Lei, come gionto sopra il sasso il vede, Forte ridendo disse: #_ Cavalliero, Non so se seti usato a gire a piede, Ma so ben dir che usar ve gli conviene: Io vado in qua; Dio ve conduca bene. $_ Cosi\ dicendo volta per quel prato, E via fuggendo va la falsa dama. Rimase il conte tutto smemorato, E se/ fuor d' intelletto e paccio chiama, Benche/ seri\a ciascun stato ingannato, Che/ di legier si crede a quel che s' ama; Ma lui la colpa da\ pure a se stesso, Locchio e balordo nomandosi spesso. Non sa piu\ che se fare il paladino, Poi che perduto e\ il suo bon Brigliadoro. Torna a guardare il sasso marmorino, E va leggendo quelle littre d' oro. Quivi ritrova che sepolto e\ Nino, Qual fu gia\ re di questo tenitoro, E fece Ninive\, l' alta citate, Che in ogni verso e\ lunga tre giornate. Ma lui, che de guardare ha poca cura, Poi che ha perduto il suo destrier soprano, Smonta dolente della sepoltura; E, caminando a piede per il piano, La notte gionge e tutto il cel se oscura. Vede una gente, e non molto lontano; E cosi\ andando ognior piu\ s' avicina, Perche/ la gente verso lui camina. Dirovi tutta quanta poi la cosa, Qual gli incontro\, quando fu gionto al gioco, E sera\ di piacere e dilettosa; Ma poi la contaremo in altro loco, Perche/ il cantar della storia amorosa E\ necessario abandonare un poco, Per ritornare a Carlo imperatore, E ricontarvi cosa assai maggiore. Cosa maggior, ne/ di gloria cotanta Fu giamai scritta, ne/ di piu\ diletto, Che/ del novo Rugier quivi si canta, Qual fu d' ogni virtute il piu\ perfetto Di qualunche altro che al mondo si vanta. Si\ che, segnori, ad ascoltar vi aspetto, Per farvi di piacer la mente sazia, Se Dio mi serva al fin la usata grazia. {tit} Libro secondo de Orlando inamorato, nel qual seguendo la comenciata istoria, se trata de le impresa africana contro Carlo Mano e la invenzione de Rugiero, terzo paladino primogenito de la inclita casa da Este {/tit} Nel grazi%oso tempo onde natura Fa piu\ lucente la stella d' amore, Quando la terra copre di verdura, E li arboscelli adorna di bel fiore, Giovani e dame et ogni creatura Fanno allegrezza con zoioso core; Ma poi che 'l verno viene e il tempo passa, Fugge il diletto e quel piacer si lassa. Cosi\ nel tempo che virtu\ fioria Ne li antiqui segnori e cavallieri, Con noi stava allegrezza e cortesia, E poi fuggirno per strani sentieri, Si\ che un gran tempo smarirno la via, Ne/ del piu\ ritornar ferno pensieri; Ora e\ il mal vento e quel verno compito, E torna il mondo di virtu\ fiorito. Et io cantando torno alla memoria Delle prodezze de' tempi passati, E contarovi la piu\ bella istoria (Se con qui%ete attenti me ascoltati) Che fusse mai nel mondo, e di piu\ gloria, Dove odireti e degni atti e pregiati De' cavallier antiqui, e le contese Che fece Orlando alor che amore il prese. Voi odireti la inclita prodezza E le virtuti de un cor pellegrino, L' infinita possanza e la bellezza Che ebbe Rugiero, il terzo paladino; E benche/ la sua fama e grande altezza Fu divulgata per ogni confino, Pur gli fece fortuna estremo torto, Che/ fu ad inganno il giovanetto morto. Nel libro de Turpino io trovo scritto Come Alessandro, il re di gran possanza, Poi che ebbe il mondo tutto quanto afflitto E visto il mare e il cel per sua arroganza, Fu d' amor preso nel regno de Egitto De una donzella, et ebbela per manza; E per amor che egli ebbe a sua beltade, Sopra il mar fece una ricca citade. E dal suo nome la fece chiamare, Dico Alessandria, et ancor si ritrova; Dapoi lui volse in Babilonia andare, Dove fu fatta la dolente prova, Che un suo fidato l' ebbe a velenare, Onde convien che 'l mondo si commova, E questo un pezzo e quello un altro piglia; Il mondo tutto a guerra se ascombiglia. Stava in Egitto alora la fantina, Che fu nomata Elidonia la bella, Gravida de sei mesi la meschina. Quando sentitte la trista novella, Veggendo il mondo che e\ tutto in ruina, Intro\ soletta in una navicella, Che non avea governo di persona, Et a fortuna le vele abandona. Lo vento in poppa via per mar la caccia, In Africa quel vento la portava. Sereno e\ il celo e il mar tutto in bonaccia, La barca a poco a poco in terra andava. Quella donzella, levando la faccia, Visto ebbe un vecchiarel che ivi pescava: A questo aiuto piangendo dimanda, E per mercede se gli racomanda. Quel la ricolse con umanitate, E poi che 'l terzo mese fu compito, Ne la capanna di sua povertate La dama tre figlioli ha parturito. Quivi fu fatta poi quella citate Che Tripoli e\ nomata, in su quel lito, Per gli tre figli che ebbe quella dama; Tripoli ancora la cita\ se chiama. E come il cel dispone gioso in terra, Fo^rno quei figli di tanto valore, Che il re Gorgone vinsero per guerra, Qual de l' Africa prima era segnore. L' un d' essi fu nomato Sonniberra, Che fu il primo che nacque, e fu il maggiore; Il secondo Attamandro, e il terzo figlio Nome ebbe Argante, e fu bel come un giglio. E tre germani preser segnoria De Africa tutta, come io ho contato, E la rivera della Barberia E la terra de' Negri in ogni lato. Non per prodezza ne/ per vigoria, Non per gran senno acquista^r tutto il stato, Ma la natura sua, ch' e\ tanto bona, Tirava ad obedirli ogni persona. Perche/ l' un piu\ che l' altro fu cortese, E sempre l' acquistato hanno a donare; Onde ogni terra e ciascadun paese Di grazia gli veniva a dimandare. E cosi\ subiuga^r senza contese Dallo Egitto al Morocco tutto il mare, Et {t} infra {/t S; in fra Z} terra quanto andar si puote Verso il deserto, alle gente remote. Morirno senza eredi e duo maggiori, E solo Argante il regno tutto prese, Che ebbe nel mondo {add} tri%omfali {/add; triomfali Z} onori; E di lui l' alta gesta poi discese, Della casa Africana e gran segnori, Che ferno a' Cristi%an cotante offese, E preser Spagna con grande arroganza, Parte de Italia, e tempestarno in Franza. Nacque di questo il possente Barbante, Che in Spagna occiso fu da Carlo Mano; E fu di questa gente re Agolante, Di cui nacque il feroce re Troiano, Qual in Bergogna col conte d' Anglante {add} Combatte/ {/add; Combatte\ Z S} e con duo altri sopra il piano, Cio\ fu don Chiaro e 'l bon Rugier vassallo: Da lor fu morto, e certo con gran fallo. Del re Troiano rimase un citello, Sette anni avea quando fu il patre occiso: Di persona fu grande e molto bello, Ma di terribil guardo e crudel viso. Costui fu de' Cristian proprio un flagello, Si\ come in questo libro io ve diviso. State, segnori, ad ascoltarme un poco, E vederiti il mondo in fiamma e in foco. Vinti duo anni il giovanetto altiero Ha gia\ passati, et ha nome Agramante, Ne/ in Africa si trova cavalliero Che ardisca di guardarlo nel sembiante, Fuor che un altro garzone, ancor piu\ fiero, Che vinti piedi e\ dal capo alle piante, Di summo ardire e di possanza pieno; Questo fu figlio del forte Uli%eno. Uli%eno di Sarza, il fier gigante, Fu patre a quel guerrier di cui ragiono, Qual fu tanto feroce et arrogante, Che pose tutta Francia in abandono; E dove il sol si pone e da levante De l' alto suo valor odise il suono. Or vo' contarvi, gente pellegrine, Tutta la cosa dal principio al fine. Fece Agramante a consiglio chiamare Trentaduo re, che egli ha in obidi%enzia; In quattro mesi gli fie' radunare, E {add} fuo^r {/add; fuor Z S} tutti davanti a sua presenzia. Chi vi gionse per terra e chi per mare. Non fu veduta mai tanta potenzia; Trentadue teste, tutte coronate, Biserta entrarno, in quella gran citate. Era in quel tempo gran terra Biserta, Che oggi e\ disfatta al litto alla marina, Pero\ che in questa guerra fu deserta: Orlando la spiano\ con gran roina. Or, come io dissi, alla campagna aperta Fuor se accampo\ la gente saracina; Dentro a la terra entrarno con gran festa Trentaduo re con le corone in testa. Eravi un gran castello imperi%ale, Dove Agramante avea sua residenzia: Il sol mai non ne vide uno altro tale, Di piu\ ricchezza e piu\ magnificenzia. A duo a duo montarno i re le scale, Coperti a drappi d' o^r per eccellenzia; Intrarno in sala, e ben fu loro aviso Veder il celo aperto e il paradiso. Lunga e\ la sala cinquecento passi, E larga cento aponto per misura: Il cel tutto avea d' oro a gran compassi, Con smalti rossi e bianchi e di verdura. Giu\ per le sponde zaffiri e ballassi Adornavan nel muro ogni figura, Pero\ che ivi intagliata, con gran gloria, Del re Alessandro vi e\ tutta la istoria. Li\ si vedea lo astrologo prudente, Qual del suo regno se ne era fuggito, Che una regina in forma de serpente Avea gabbata, e preso il suo appetito. Poi se vedeva apresso incontinente Nato Alessandro, quel fanciullo ardito, E come dentro ad una gran foresta Prese un destrier che avea le corna in testa. Buzifal avea nome quel ronzone: Cosi\ scritto era in quella depintura; Sopra vi era Alessandro in su l' arcione, E gia\ passato ha il mar senza paura. Qui son battaglie e gran destruzi%one: Quel re di tutto il mondo non ha cura; Dario gli venne incontra in quella guerra, Con tanta gente che copri\ ogni terra. Alessandro il superbo l' asta abassa, Pone a sconfitta tutta quella gente, E piu\ Dario non stima et oltra passa; Ma quel ritorna ancora piu\ possente, E di novo Alessandro lo fraccassa. Poi se vedeva Basso il fraudolente, Che a tradimento occide il suo segnore, Ma ben lo paga il re di tanto errore. E poi si vede in India travargato, Natando il Gange, che e\ si\ gran fiumana; Dentro a una terra soletto e\ serrato, Et ha d' intorno la gente villana. Ma lui ruina il muro in ogni lato Sopra a' nemici e quella terra spiana; Passa piu\ oltra e qui non se ritiene; Ecco il re d' India, che adosso gli viene. Porone ha nome, et e\ si\ gran gigante: Non ritrova nel mondo alcun destriero, Ma sempre lui cavalca uno elefante. Or sua prodezza non gli fa mestiero, Ne/ le sue gente, che n' avea cotante, Perche/ Alessandro, quel segnore altiero, Vivo lo prende; e, com' om di valore, Poi che l' ha preso, il lascia a grande onore. Eravi ancora come il basilisco Stava nel passo sopra una montagna, E spaventa ciascun sol col suo fisco, E con la vista la gente magagna; Come Alessandro lui se pose a risco Per quella gente ch' era alla campagna, E, per consiglio di quel sapi%ente, Col specchio al scudo occise quel serpente. In somma ogni sua guerra ivi e\ depinta Con gran ricchezza e bella a riguardare. Possa che fu la terra da lui vinta, A duo grifon nel cel si fa portare Col scudo in braccio e con la spada cinta; Poi dentro a un vetro se calla nel mare, E vede le balene e ogni gran pesce, E campa, e ancor quivi di fuora n' esce. Dapoi che vinto egli ha ben ogni cosa, Vedesi lui che e\ vinto da l' amore; Perche/ Elidonia, quella grazi%osa, Con soi begli occhi gli ha passato il core. Evi da poi sua morte dolorosa, Come Antipatro, il falso traditore, L' ha avelenato con la coppa d' oro; Poi tutto 'l mondo e\ in guerra e gran martoro. Fugge la dama misera tapina, Et e\ ricolta dal vecchio cortese, E parturisce in ripa alla marina Tre fanciulletti alle rete distese; Et evi ancor la guerra e la roina Che fanno e tre germani in quel paese, Sonniberra, Attamandro e il bello Argante: L' opre di lor sono ivi tutte quante. Intrarno e re la gran sala mirando, Ciascun per meraviglia veni\a meno; Genti legiadre e donzelle danzando Aveano il catafalco tutto pieno. Trombe, tamburi e piffari sonando, Di romor dolce {add} empi\an {/add; empian Z} l' aer sereno. Sopra costoro ad alto tribunale Stava Agramante in abito reale. Ad esso fier' quei re gran riverenzia, Tutti chinando alla terra la faccia; Lui gli racolse con lieta presenzia, E ciascadun di lor baciando abraccia. Poi fece a l' altra gente dar licenzia. Incontinente la sala se spaccia: Restarno i re con tutti e consiglieri, Duci e marchesi e conti e cavallieri. Di qua di la\ da l' alto tribunale Trentadue sedie d' o^r sono ordinate; Poi l' altre son piu\ basse e diseguale, Pur vi sta gente di gran dignitate. La\ piu\ si parla, chi bene e chi male, Secondo che ciascuno ha qualitate; Ma, come odirno il suo segnor audace, Subitamente per tutto si tace. Lui comincio\: #_ Segnor, che ivi adunati Seti venuti al mio comandamento, Quanto cognosco piu\ che voi me amati, Come io comprendo per esperimento, Piu\ debbo amarvi et avervi onorati; E certamente tutto il mio talento E\ sempre mai d' amarvi, e il mio disio Che 'l vostro onor se esalti insieme e il mio. Ma non gia\ per cacciare, o stare a danza, Ne/ per festeggiar dame nei giardini, Stara\ nel mondo nostra nominanza, Ma cognosciuta fia da tamburini. Dopo la morte sol fama ne avanza, E veramente son color tapini Che d' agrandirla sempre non han cura, Perche/ sua vita poco tempo dura. Ne/ vi crediate che Alessandro il grande, Qual fu principio della nostra gesta, Per far conviti de optime vivande Vincesse il mondo, ne/ per stare in festa. Ora per tutto il suo nome si spande, E la sua istoria, che e\ qui manifesta, Mostra che al guadagnar d' onor si suda, E sol s' acquista con la spada nuda. Onde io vi prego, gente di valore, Se di voi stessi aveti rimembranza, E se cura vi tien del vostro onore, S' io debbo aver di voi giamai speranza, Se amati ponto me, vostro segnore, Meco vi piaccia di passare in Franza, E far la guerra contra al re Carlone Per agrandir la legge di Macone. $_ Piu\ oltra non parlava il re ni%ente, E la risposta tacito attendia. Fu diverso parlar giu\ tra la gente, Secondo che 'l parer ciascuno avia. Tenuto era fra tutti il piu\ prudente Branzardo, quel vecchion, re di Bugia, E, veggendo che ogni om solo a lui guarda, Levasi al parlamento e piu\ non tarda. #_ Magnanimo segnor, $_ disse il vecchione, #_ Tutte le cose de che se ha sci%enzia, O ver che son provate per ragione, O per esempio, o per {add} esperi%enzia; {/add; esperienzia; Z} E cosi\, rispondendo al tuo sermone, Dapoi ch' io debbo dir la mia sentenzia, Diro\ che contra del re Carlo Mano Il tuo passaggio fia dannoso e vano. Et evi a questo ragion manifesta. Carlo potente al suo regno si serra, Et ha la gente antiqua di sua gesta, Che sempre sono usati insieme a guerra; Ne/, quando la battaglia e\ in piu\ tempesta, Lasciaria l' un compagno l' altro in terra; Ma a te bisogna far tua gente nova, Qual con l' usata perdera\ la prova. Esempio ben di questo ci puo\ dare Il re Alessandro, tuo predecessore, Che con gente canuta passo\ il mare, Ma insieme usata con tanto valore. Dario di Persia il venne a ritrovare, E messe molta gente a gran romore: Perche/ l' un l' altro non recognoscia, Morta e sconfitta fu quella zinia. La esperi%enzia voria volentieri Poterla dimostrare in altra gente Che nella nostra, perche/ Caroggieri, Qual del bisavol tuo fu discendente, Passo\ in Italia con molti guerreri. Tutti fo^r morti con pena dolente: Fu morto Almonte e Agolante il soprano, E dopo tutti il tuo patre Troiano. Si\ che lascia per Dio! la mala impresa, E frena l' ardir tuo con tempo e spaccio. Dolce segnor, s' io te faccio contesa, Sicuramente piu\ de gli altri il faccio, E d' ogni danno tuo troppo mi pesa, Che/ piccoletto t' ho portato in braccio; E tanto piu\ me stringe il tuo periglio, Ch' io te ho come segnore e come figlio. $_ Fu il re Branzardo a terra ingenocchiato, Poi nel suo loco ritorna a sedere. In piedi un altro vecchio fu levato, Ch' e\ 'l re d' Algoco, et ha molto sapere: Nostro paese avea tutto cercato, Pero\ che fu mandato a provedere Dal re Agolante ogni nostro confino, Et e\ costui nomato il re Sobrino. #_ Segnor, $_ disse costui #_ la barba bianca, Qual porto al viso, da\ forse credenza Che per vecchiezza l' animo mi manca; Ma per Macon ti giuro e sua potenza, Che, a bench' io senta la persona stanca, De l' animo non sento differenza Da quel ch' egli era nel tempo primiero, Che andai a Rissa a ritrovar Rugiero. Si\ che non creder che per codardia Il tuo passaggio voglio sconfortare, Ne/ per la tema della vita mia, Che in ogni modo poco puo\ durare. Benche/ di piccol tempo e breve sia, Spender la voglio si\ come ti pare; Ma, come quel che son tuo servo antico, Quel che meglio mi par, conseglio e dico. Sol per duo modi in Franza po^i passare: Quei lochi ho tutti quanti gia\ cercati. L' uno e\ verso Acquamorta il dritto mare: Partito seri\a quel da disperati, Che/, come in terra vogli dismontare, Staranno al litto e Cristi%ani armati, Tutti ordinati nel suo guarnimento: Dece di lor varran de' nostri cento. Par l' altro modo piu\ conveni%ente, Passando giu\ nel stretto al Zibeltaro: Marsilio re di Spagna, il tuo parente, Avra\ questa tua impresa molto a caro, E teco ne verra\ con la sua gente, Ne/ avra\ Cristianitate alcun riparo. Cosi\ se dice, ma il mio core estima Che piu\ sera\ che fare al fin, che prima. Nella Guascogna scenderemo al piano, E quella gente poneremo al basso; Ma qui ritrovaremo a Montealbano Ranaldo il crudo, che diffende il passo. Dio guardi ciascadun dalla sua mano! Non si puo\ contrastare a quel fraccasso; Poi che l' avrai sconfitto e discacciato, Ancor te assalira\ da un altro lato. Carlo verra\ con tutta la sua corte: Non e\ nel mondo gente piu\ soprana. Ne/ stimar che sian dentro da le porte, Ma sotto alle bandiere, in terra piana. Verra\ quel maladetto che e\ si\ forte, Che ha il bel corno d' Almonte e Durindana: Non e\ riparo alcuno a sua battaglia, Che/ cio\ che trova, con la spada taglia. Cognosco Gano e cognosco il Danese, Che fu pagano, e par proprio un gigante, Re Salamone e Oliviero il marchese, Ad uno ad un lor gente tutte quante. Nui se trovamo seco alle contese, Quando passo\ tuo avo, il re Agolante; Io gli ho provati: possote acertare Che 'l bon partito e\ de lasciargli stare. $_ Parlo\ in tal forma quel vecchio canuto, Quale io ve ho racontata, piu\ ne/ meno. Il re de Sarza fu un giovane arguto: Questo era il figlio del forte Uli%eno, Maggiore assai del patre e piu\ membruto. Nullo altro fu d' ardir piu\ colmo e pieno, Ma fu superbo et orgoglioso tanto, Che disprezava il mondo tutto quanto. Levossi in piede e disse: #_ In ciascun loco Ove fiamma s' accende, un tempo dura Piccola prima, e poi si fa gran foco; Ma come viene al fin, sempre se oscura, Mancando del suo lume a poco a poco. E cosi\ fa l' umana creatura, Che, poi che ha di sua eta\ passato il verde, La vista, il senno e l' animo si perde. Questo ben chiar si vede nel presente Per questi duo che adesso hanno parlato, Perche/ ciascun di lor gia\ {add} fo^r {/add; for Z} prudente, Ora e\ di senno tutto abandonato, Tanto che niega al nostro re potente Quel che, pregando ancor, gli ha dimandato; Cosi\ da\ sempre ogni capo canuto Piu\ volentier consiglio che lo aiuto. Non vi domanda consiglio il segnore, Se ben la sua proposta aveti intesa, Ma per sua riverenza e vostro onore Seco il passaggio alla reale impresa. Qualunque il niega, al tutto e\ traditore, Si\ che ciascun da me faccia diffesa, Qual contradice al mandato reale, Ch' io lo disfido a guerra capitale. $_ Cosi\ parlava il giovanetto acerbo, Che e\ re di Sarza, come io vi contai. Rodamonte si chiama quel superbo, Piu\ fier garzon di lui non fu giamai; Persona ha de gigante e forte nerbo: Di sue prodezze ancor diremo assai. Or guarda intorno con la vista scura, Ma ciascun tace et ha di lui paura. Era in consiglio il re di Garamanta, Quale era sacerdote de Apollino, Saggio, e de gli anni avea piu\ de nonanta, Incantatore, astrologo e indovino. Nella sua terra mai non nacque pianta, Pero\ ben vede il celo a ogni confino: Aperto e\ il suo paese a gran pianura; Lui numera le stelle e il cel misura. Non fu smarito il barbuto vecchione, A benche/ Rodamonte ancor minaccia, Ma disse: #_ Bei segnor, questo garzone Vo^l parlar solo e vo^l che ogni altro taccia. Pur che esso non ascolti il mio sermone, Il mal che mi puo\ far, tutto mi faccia; Ascoltati de Dio voi le parole, Che/ non di lui, ma de gli altri mi dole. Gente devota, odeti et ascoltati Cio\ che vi dice il dio grande Apollino: Tutti color che in Francia fian portati, Dopo la pena del lungo camino Morti seranno e per pezzi tagliati, Non ne campara\ grande o picciolino: E Rodamonte con sua gran possanza Diverra\ pasto de' corbi de Franza. $_ Poi che ebbe detto, se pose a sedere Quel re, che ha molta tela al capo involta. Ridendo Rodamonte a piu\ potere La profezia di quel vecchione ascolta. Ma quando quieto lo vide e tacere, Con parlare alto e con voce disciolta #_ Mentre che siam qua, $_ disse #_ io son contento Che quivi profetezi a tuo talento; Ma quando tutti avrem passato il mare, E Franza struggeremo a ferro e a foco, Non me venistu\ intorno a indovinare, Perch' io sero\ il profeta di quel loco. Male a quest' altri po^i ben minacciare, A me non gia\, che ti credo assai poco, Perche/ scemo cervello e molto vino Parlar te fa da parte de Apollino. $_ Alla risposta di quello arrogante Riseno molti e odirla volentieri. Giovani assai della gente africante A quell' impresa avean gli animi fieri; Ma e vecchi, che passa^r con Agolante E che provarno e nostri cavallieri, Mostravan che questo era per ragione De Africa tutta la destruzi%one. Grande era giu\ tra quelli il ragionare, Ma il re Agramante, stendendo la mano, Pose silenzio a questo contrastare; Poi con parlar non basso e non altano Disse: #_ Segnor, io pur voglio passare In ogni modo contra a Carlo Mano, E voglio che ciascun debbia venire, Ch' io soglio comandar, non obedire. Ne/ vi crediate, poi che la corona Sera\ di Carlo rotta e dissipata, Aver riposo sotto a mia persona. Vinta che sia la gente baptizata, Adosso a li altri il mio cor se abandona, Fin che la terra ho tutta subiugata; Poi che battuta avro\ tutta la terra, Ancor nel paradiso io vo' far guerra. $_ Or chi vedesse Rodamonte il grande Levarsi allegro con la faccia balda, #_ Segnor, $_ dicendo #_ il tuo nome si spande In ogni loco dove il giorno scalda; Et io te giuro per tutte le bande Tenir con teco la mia mente salda; In celo e ne l' inferno il re Agramante Seguiro\ sempre, o passarogli avante. $_ Questo affirmava il re di Tremisona, Sempre seguirlo per monte e per piano: Alzirdo ha nome, et ha franca persona. Questo affirmava il forte re de Orano, Che pur quello anno avea preso corona; E 'l re de Arzila, levando la mano, Promette a Macometto e giura forte Seguire il suo segnor sino alla morte. Che bisogna piu\ dir? che/ ciascun giura: Beato chi mostrar si puo\ piu\ fiero! Non vi si vede faccia di paura, Ciascun minaccia con sembiante altiero. Benche/ a quei vecchi par la cosa dura, Pur ciascadun promette di legiero; Ma il re di Garamanta, quel vecchione, Comincia un' altra volta il suo sermone #_ Segnor, $_ dicendo #_ io voglio anch' io morire Poi che al tutto e\ disfatta nostra gente; Teco in Europa ne voglio venire. Saturno, che e\ segnor dello ascendente, Ad ogni modo ci fara\ perire; Sia quel che vo^le, io non ne do ni%ente, Che/ in ogni modo ho tanti anni al gallone, Che campar non puotria lunga stagione. Ma ben ti prego per lo Dio divino, Che al manco in questo me vogli ascoltare. Cio\ te dico da parte de Apollino, Da poi che hai destinato di passare. Nel regno tuo dimora un paladino, Che di prodezza in terra non ha pare; Come ho veduto per astrologia, Il megliore omo e\ lui che al mondo sia. Or te dice Apollino, alto segnore, Che se con teco avrai questo barone, In Francia acquistarai pregio et onore, E cacciarai piu\ volte il re Carlone. Se vuoi sapere il nome e il gran valore Del cavalliero e la sua nazi%one, Sua matre del tuo patre fu sorella, E fu nomata la Galaci%ella. Questo barone e\ tuo fratel cugino, Che ben provisto t' ha Macon soprano De far che quel guerrier sia saracino, Che/, quando fusse stato cristi%ano, La nostra gente per ogni confino Tutta a fraccasso avria mandato al piano. Il patre di costui fu il bon Rugiero, Fiore e corona de ogni cavalliero. E la sua matre misera, dolente, Da poi che fu tradito quel segnore, E la citta\ de Rissa in foco ardente Fu rui%nata con molto furore, Torno\ la tapinella a nostra gente, E parturi\ duo figli a gran dolore; E l' un fu questo di cui t' ho parlato: Rugier, si\ come il patre, e\ nominato. Nacque con esso ancora una citella, Ch' io non l' ho vista, ma ha simiglianza Al suo germano, e fior d' ogni altra bella, Perche/ esso di beltate il sole avanza. Mori\ nel parto alor Galaci%ella, E' duo fanciulli vennero in possanza D' un barbasore, il quale e\ nigromante, Che e\ del tuo regno, et ha nome Atalante. Questo si sta nel monte di Carena, E per incanto vi ha fatto un giardino, Dove io non credo che mai se entri apena. Colui, che e\ grande astrologo e indovino, Cognobbe l' alta forza e la gran lena Che dovea aver nel mondo quel fantino, Pero\ nutrito l' ha, con gran ragione, Sol di medolle e nerbi di leone; Et hallo usato ad ogni maestria Che aver se puote in arte d' armeggiare; Si\ che provedi d' averlo in bali\a, A bench' io creda che vi avrai che fare. Ma questo e\ solo il modo e sola via A voler Carlo Mano disertare; Et altramente, io te ragiono scorto, Tua gente e\ rotta, e tu con lor sei morto. $_ Cosi\ parlava quel vecchio barbuto: Ben crede a sue parole il re Agramante, Perche/ tra lor profeta era tenuto E grande incantatore e nigromante, E sempre nel passato avea veduto Il corso delle stelle tutte quante, E sempre avanti il tempo predicia Divizia, guerra, pace, caristia. Incontinente fu preso il partito Quel monte tutto quanto ricercare, Sin che si trovi quel giovane ardito, Che deggia seco il gran passaggio fare. Questo canto al presente e\ qui finito; Segnor, che seti stati ad ascoltare, Tornati a l' altro canto, ch' io prometto Contarvi cosa ancor d' alto diletto. Se quella gente, quale io v' ho contata Ne l' altro canto, che e\ dentro a Biserta, Fusse senza indugiar di qua passata, Era Cristianita\ tutta deserta, Pero\ che era in quel tempo abandonata Senza diffesa: questa e\ cosa certa, Che/ Orlando alora e il sir de Montealbano Sono in levante al paese lontano. De Orlando io vi contai pur poco avante, Che Brigliadoro avea perso, il ronzone, Quando la dama con falso sembiante L' avea fatto salire a quel petrone. Ora lasciamo quel conte d' Anglante, Ch' io vo' contar de l' altro campi%one, Dico Ranaldo, il cavalliero adorno, Qual con Marfisa a quel girone e\ intorno. E mentre che Agramante e sua brigata Va cercando Rugier, qual non se trova, Ranaldo, che ha la mente anco adirata, Poi che visto non ha l' ultima prova Della battaglia ch' io ve ho racontata, Sempre il sdegno crudel piu\ si rinova: Dico della battaglia ch' io contai, Ch' ebbe col conte con tormento assai. Ne/ sa pensar per qual cagion partito Sia il conte Orlando da quella frontera, Perche/ ne/ l' un ne/ l' altro era ferito, Poco o ni%ente d' avantaggio vi era. Ben stima lui che non seri\a fuggito Mai con vergogna per nulla maniera: Ma, sia quel che si voglia, e\ destinato Sempre seguirlo insin che l' ha trovato. Poi che venuta fu la notte bruna, Armase tutto e prende il suo Baiardo, E via camina al lume della luna. Astolfo a seguitarlo non fu tardo, Che/ vo^l con lui patire ogni fortuna. Iroldo e\ seco e Prasildo gagliardo; E gia\ non seppe la forte regina De lor partita insino alla mattina. E mostro\ poi d' averne poca cura, O si\ o no che ne fusse contenta. Cavalcano e baroni alla pianura D' un chiuso trotto, che giamai non lenta. Ora passata e\ via la notte scura, E l' aria de vermiglio era dipenta, Perche/ l' alba serena, al sol davante, Facea il ciel colorito e lustrigiante. Davanti a gli altri il figlio del re Otone, Astolfo dico, sopra a Rabicano, Dicendo sue devote orazi%one, Come era usato il cavallier soprano. Ecco davanti sede in su un petrone Una donzella e batte mano a mano; Battese 'l petto e battese la faccia Forte piangendo, e le sue treccie straccia. #_ Misera me! $_ diceva la donzella #_ Misera me! tapina! isventurata! O parte del mio cor, dolce sorella, Cosi\ non fosti mai nel mondo nata, Poi che quel traditor si\ te flagella! Meschina me! meschina! abandonata! Poi che fortuna mi e\ tanto villana, Ch' io non ritrovo aiuto a mia germana. $_ #_ Qual cagione hai, $_ Astolfo gli diciva #_ Che ti fa lamentar si\ duramente? $_ In questo ragionar Ranaldo ariva, Gionge Prasildo e Iroldo di presente. La dama tutta via forte piangiva, Sempre dicendo: #_ Misera! dolente! Con le mie mane io mi daro\ la morte, S' io non ritrovo alcun che mi conforte. $_ Poi, vo\lta a quei baron, dicea: #_ Guerrieri, Se aveti a' vostri cor qualche pietate, Soccorso a me per Dio! che n' ho mestieri Piu\ che altra che abbia al mondo aversitate. Se drittamente seti cavallieri, Mostratimi per Dio! vostra bontate Contra a un ribaldo, falso, traditore, Pien di oltraggio villano e di furore. Ad una torre non quindi lontana Dimora quel malvaso furibondo, Di la\ da un ponte, sopra a una fiumana Che poi fa un lago orribile e profondo. Io la\ passava et una mia germana, La piu\ cortese dama che aggia il mondo; E quel ribaldo del ponte discese, La mia germana per le chiome prese, Villanamente quella strascinando, Sin che di la\ dal ponte fu venuto. Io sol cridavo e piangia lamentando, Ne/ gli puotea donare alcuno aiuto. Lui per le braccia la venne legando Al tronco de un cipresso alto e fronduto, E poi spogliata l' ebbe tutta nuda, Quella battendo con sembianza cruda. $_ Abondava alla dama si\ gran pianto, Che non puotea piu\ oltra ragionare. A tutti quei baron ne incresce tanto Quanto mai si potrebbe imaginare; E ciascadun di lor si dona vanto, Sapendo il loco, de ella liberare, Et in conclusi%one il duca anglese A Rabicano in croppa quella prese. E forse da due miglia han cavalcato, Quando son gionti al ponte di quel fello. Quel ponte per traverso era chiavato De una ferrata, a guisa di castello, Che arivava nel fiume a ciascun lato; Nel mezo a ponto a ponto era un portello. A piedi ivi si passa de legieri, Ma per strettezza non vi va destrieri. Di la\ dal ponte e\ la torre fondata In mezo a un prato de cipresso pieno; Il fiume oltra quel campo se dilata Nel lago largo un miglio, o poco meno. Quivi era presa quella sventurata, Ch' empiva di lamenti il cel sereno; Tutta era sangue quella meschinella, E quel crudele ognior piu\ la flagella. A piede stassi armato il furi%oso: Dalla sinistra ha di ferro un bastone, Il flagello alla destra sanguinoso; Batte la dama fuor de ogni ragione. Iroldo di natura era pietoso: Ebbe di quella tal compassi%one, Che licenzia a Ranaldo non richiede, Ma presto smonta et entra il ponte a piede, Perche/ a destrier non se puote passare, Come io ve ho detto, per quella ferrata. Quando il crudele al ponte il vide entrare, Lascia la dama al cipresso legata. Il suo baston di ferro ebbe a impugnare, E qui fo la battaglia incominciata; Ma duro\ poco, perche/ quel fellone Percosse Iroldo in testa del bastone; E come morto in terra se distese, Si\ grande fu la botta maledetta. Quello aspro saracino in braccio il prese, E via correndo va come saetta, Et in presenzia a gli altri li\ palese Come era armato dentro il lago il getta. Col capo gioso ando\ il barone adorno: Pensati che gia\ su non fie' ritorno. Ranaldo de l' arcione era smontato Per gire alla battaglia del gigante, Ma Prasildo cotanto l' ha pregato, Che fu bisogno che gli andasse avante. Quel maledetto l' aspetta nel prato, E tien alciato il suo baston pesante; Questa battaglia fu come la prima: Gionse il bastone a l' elmo nella cima. Quel cade in terra tutto sbalordito; Via ne 'l porta il Pagano furibondo, E, proprio come l' altro a quel partito, Gettalo armato nel lago profondo. Ranaldo ha un gran dolore al cor sentito, Poiche/ quel par d' amici si\ iocondo Tanto miseramente {t} ha gia\ {/t S; aggia Z} perduto, E presto si\, che a pena l' ha veduto. Turbato oltra misura, il ponte passa Con la vista alta e sotto l' arme chiuso; Va su l' aviso e tien la spada bassa, Come colui che e\ di battaglia aduso. Quell' altro del bastone un colpo lassa, Credendol come e primi aver confuso; Ma lui, che del scrimire ha tutta l' arte, Leva un gran salto e gettasi da parte. Lui d' un gran colpo tocca quel fellone, Ferendo a quel con animo adirato; Ma l' arme di colui son tanto bone, Che non han tema di brando arrodato. Duro\ gran pezzo quella questi%one: Ranaldo mai da lui non fu toccato, Cognoscendo colui che e\ tanto forte, Che gli avria dato a un sol colpo la morte. Esso ferisce di ponta e di taglio, Ma questo e\ nulla, che/ ogni colpo e\ perso, E tal ferire a quel non no^ce uno aglio. Mosse alto crido quello omo diverso, E via tra' il suo bastone a gran sbaraglio Contra a Ranaldo, e gionselo a traverso, E tutto gli fraccassa in braccio il scudo: Cade Ranaldo per quel colpo crudo. A benche/ in terra fo caduto apena, Che salta in piedi e gia\ non se sconforta; Ma quel feroce, che ha cotanta lena, Prendelo in braccio e verso il lago il porta. Ranaldo quanto puo\ ben se dimena, Ma nel presente sua virtute e\ morta: Tanto di forza quel crudel l' avanza, Che de spiccarsi mai non ha possanza. Correndo quel superbo al lago viene, E come gli altri il vol gioso buttare; A lui Ranaldo ben stretto si tiene, Ne/ quel si puo\ da se/ ponto spiccare. Crido\ il crudel: #_ Cosi\ far si conviene! $_ Con esso in braccio giu\ se lascia andare; Con Ranaldo abracciato il furi%oso Cadde nel lago al fondo tenebroso. Ne/ vi crediati che faccian ritorno, Che/ quivi non vale arte di notare, Perche/ ciascuno avea tante arme intorno, Che avrian fatto mille altri profondare. Astolfo cio\ vedendo ebbe tal scorno, Che e\ come morto e non sa che si fare. Perso Ranaldo et affocato il vede, Ne/, ancor vedendo, in tutto bene il crede. Presto dismonta e passa la ferrata, In ripa al lago corse incontinente. Una ora ben compita era passata, Dentro a quell' acqua non vede ni%ente. Or s' egli aveva l' alma adolorata Dovetelo stimar certanamente; Poi che perduto ha il suo caro cugino, Piu\ che si far non sa quel paladino. Passava il ponte ancor quella donzella Et a l' alto cipresso se ne e\ gita; Dal troncon desligo\ la sua sorella, E de' soi panni l' ebbe rivestita. Astolfo non attende a tal novella, Preso di doglia cruda et infinita: Crida piangendo e battese la faccia, Chiedendo morte a Dio per sola graccia. E tanto l' avea vento il gran dolore, Che se volea nel lago trabuccare, Se non che le due dame con amore L' andarno dolcemente a confortare. #_ Che? $_ dician lor #_ Baron d' alto valore, Adunque ve voleti disperare? Non se cognosce la virtute intera Se non al tempo che fortuna e\ fiera. $_ Molti saggi conforti gli san dare, Or l' una or l' altra con suave dire, E tanto seppen bene adoperare, Che da quel lago lo ferno partire. Ma come venne Baiardo a montare, Credette un' altra volta di morire, Dicendo: #_ O bon ronzone! egli e\ perduto Il tuo segnore, e non gli hai dato aiuto? $_ Molte altre cose a quel destrier dicia Piangendo sempre il duca amaramente; In mezo de due dame ne va via, Baiardo ha sotto il cavallier valente. Sopra de Rabican l' una veni\a, L' altra de Iroldo avea il destrier corrente; Quel de Prasildo, tutto desligato E senza briglia, rimase nel prato. E caminando insino a mezo il giorno, Ad un bel fiume vennero arivare, Dove odirno suonare uno alto corno. Ora de Astolfo vi voglio lasciare, Perche/ agli altri baron faccio ritorno, Che ad Albraca la rocca hanno a guardare, E sempre fan battaglia a gran diffesa Contra a Marfisa di furore accesa. Torindo era di fuor con la regina, Et ha un messaggio a Sebasti mandato, Alla terra di Bursa, che confina A Smirne, a Scandeloro in ogni lato: Per tutta la Turchia con gran roina Ciascun che puo\ venir ne venga armato. Questi conduce il forte Caramano, Che de Torindo e\ suo carnal germano. Egli ha giurato mai non si partire D' intorno a quella rocca al suo vivente, Sin che non vede Angelica perire Di fame o foco, e tutta la sua gente; Pero\ si\ gran brigata fie' venire, Per esser fuor nel campo si\ potente, Che non possan gir quei de dentro intorno, Che or mille volte n' escon fuora il giorno. Perche/ il fiero Antifor e il re Ballano Stan sempre armati sopra dello arcione; Oberto dal Leone e re Adri%ano, Re Sacripante e il forte Chiari%one Sopra la gente di Marfisa al piano Callano spesso a gran destruzi%one; La dama esser non puote in ogni loco, Che/ ben fuggian da lei come dal foco. Accio\ che 'l fatto ben vi sia palese, Aquilante non vi era, ne/ Grifone, Ne/ Brandimarte, il cavallier cortese. Questo fo il primo che lascio\ il girone, Perche/ l' amor de Orlando tanto il prese, Nel tempo che con lui fu compagnone, Che, come sua partenza oditte dire, Subitamente se 'l pose a seguire. E figli de Olivieri il simigliante Ferno ancor lor la seguente matina, Dico Grifone e 'l fratello Aquilante: E tanto ogni om de' duo forte camina, Che al conte Orlando trapassarno avante. Essendo gionti sopra a una marina, In mezo ad un giardin tutto fiorito Trovarno un bel palagio su quel lito. Una logia ha il palagio verso il mare, Davanti vi passarno e duo guerreri; Quivi donzelle stavano a danzare, Che/ vi avean suon diversi e ministeri. Grifon passando prese a dimandare A duo, che tenian cani e sparavieri, Di cui fosse il palagio; e l' un rispose: #_ Questo si chiama il Ponte dalle Rose. Questo e\ il mar del Baccu\, se nol sapeti. Dove e\ il palagio adesso e 'l bel giardino, Era un gran bosco, ben folto de abeti, Dove un gigante, che era malandrino, Stava nel ponte che la\ giu\ vedeti; Ne/ mai passava per questo confino Una donzella o cavalliero errante, Che lor non fusse occisi dal gigante. Ma Poliferno fu bon cavalliero, E da poi fatto re per suo valore, Occise quel gigante tanto fiero; Taglio\ poi tutto il bosco a gran furore, Dove fece piantar questo verziero, Per fare a ciascadun che passi, onore. Cio\ vedreti esser ver, come io vi dico; Al ponte anco ha mutato il nome antico. Che/ 'l Ponte Periglioso era chiamato, Or dalle Rose al presente si chiama: Et e\ cosi\ provisto et ordinato, Che ciascun cavalliero et ogni dama, Quivi passando, sia molto onorato, Accio\ che se oda nel mondo la fama Di quel bon cavallier, che e\ si\ cortese Che merta lodo in ciascadun paese. La\ non potreti adunque voi passare, Se non giurati, a la vostra leanza, Per una notte quivi riposare; Si\ ch' io ve invito a prender qui la stanza, Prima che indrieto abbiati a ritornare. $_ Disse Grifon: #_ Questa cortese usanza Da me, per la mia {add} fe/, {/add; fe\, Z} non sera\ guasta, Se 'l mio germano a questo non contrasta. $_ Disse Aquilante: #_ Sia quel che ti piace. $_ E cosi\ dismontarno alla marina. Verso il palagio va Grifone audace, Et Aquilante apresso li camina. Gionti a la logia, non se po^n dar pace, Tanta era quella adorna e peregrina. Dame con gioco e festa, ministreri Vennero incontra a quei duo cavallieri. Incontinenti fo^rno disarmati, E con frutti e confetti e coppe d' oro Se rinfrescarno e cavallier pregiati, Poi nella danza entrarno anche con loro. Ecco a traverso de' fioriti prati Venne una dama sopra Brigliadoro; Istupefatto divenne Grifone, Come alla dama vide quel ronzone. Similmente Aquilante fu smarito, E l' uno e l' altro la danza abandona, E verso quella dama se ne e\ gito, E ciascadun di lor seco ragiona, Dimandando a qual modo e a qual partito Abbia il destriero, e che e\ della persona Che suolea cavalcar quel bon ronzone. Lei d' ogni cosa li rende ragione, Come colei che e\ falsa oltra misura, E del favolegiare avea il mestiero. Dicea che sopra un ponte alla pianura Avea trovato morto un cavalliero, Con una sopravesta di verdura E uno arboscello inserto per cimiero; E che un gigante apresso morto gli era, Feso d' un colpo insino alla gorgiera; Che gia\ non era il cavallier ferito, Ma pista d' un gran colpo avea la testa. Quando Aquilante questo ebbe sentito, Ben gli fuggi\ la voglia di far festa, Dicendo: #_ Ahime\! baron, chi t' ha tradito? Ch' io so ben che a battaglia manifesta Non e\ gigante al mondo tanto forte, Qual condutto se avesse a darti morte. $_ Grifon piangendo ancor se lamentava, E di gran doglia tutto se confonde; E quanto piu\ la dama dimandava, Piu\ de Orlando la morte gli risponde. La notte oscura gia\ s' avicinava, Il sol di drieto a un monte se nasconde; E duo baron, ch' avean molto dolore, Nel palagio alogiarno a grande onore. La notte poi nel letto {add} fuo^r {/add; fuor' Z} pigliati, E via condutti ad una selva oscura, Dove fo^rno a un castello impregionati, Al fondo d' un torrion con gran paura, Dove piu\ tempo sterno incatenati, Menando vita dispietata e dura. Un giorno il guardi%an fuora li mena, Legati ambe le braccia di catena. Seco legata mena la donzella Che sopra Brigliadoro era venuta; Un capitano con piu\ gente in sella In questa forma quei baron saluta: #_ Oggi aveti a soffrir la morte fella, Se Dio per sua pietate non ve aiuta. $_ La dama se cambio\ nel viso forte, Come senti\ che condutta era a morte. Ma gia\ non se cambiarno e duo germani, Ciascuno e\ bene a Dio racomandato. Avanti a se/ scontrarno in su quei piani Un cavalliero a piedi e tutto armato. Eran da lui ancor tanto lontani, Che non l' avrebbon mai rafigurato; Ma poi dirovi a ponto questo fatto, Che nel presente piu\ di lor non tratto; E tornovi a contar di quel castello Qual era assedi%ato da Marfisa. Chiari%one ogni giorno era al zambello Con gli altri che la istoria vi divisa; La regina cacciava or questo or quello, Ma non la aspetta alcun per nulla guisa; Gia\ tutti quanti, eccetto Sacripante, L' avian provata nel tempo davante. Esso non era della rocca uscito, Pero\ che nella prima questi%one De una saetta fu alquanto ferito, Si\ che non puo\ vestir sua guarnisone. Gia\ tutto un mese integro era compito Poi che qua gionto fu il re Galafrone, Quando tutti e baroni una matina Salta^r nel campo di quella regina. Cridan le gente: #_ Ad arme! $_ tutte quante; Ciascun di quei baron sembra leone. Il re Ballano a tutti vien davante, Poi Antifor e Oberto e Chiari%one, Il re Adri%ano e\ drieto e Sacripante: Di quella gente fan destruzi%one. Ben ha cagion ciascun de aver paura, Tutta e\ coperta a morti la pianura. L' un doppo l' altro de quei baron fieri Venian di qua di la\, gente tagliando; I scudi hanno alle spalle e bon guerrieri, E ciascuno a due man mena del brando. Vanno a terra pedoni e cavallieri, Ogniom davanti a lor fugge tremando; Rotti e spezzati vanno a gran furore: Ecco Marfisa gionta a quel rumore. Giunse alla zuffa la dama adirata: Gia\ non bisogna tempo a lei guarnire, Pero\ che sempre se trovava armata. Quando Ballano la vide venire, Che ben sapea sua forza smisurata, In altra parte mostra di ferire, E piu\ li piace ciascuno altro loco Che la presenza di quel cor di foco. Gia\ tutti insieme avean prima ordinato Che l' un con l' altro se debba aiutare, Perche/ la dama ha l' animo adirato E contra a tutti vo^lse vendicare. Come Ballano adunque fu voltato, Lei prende dietro a quello a speronare, Cridando: #_ Volta! volta! can fellone, Che/ oggi non giongi tu dentro al girone. $_ Cosi\ cridando il segue per il piano; Ma il forte Antifor de Albarossia Di drieto la ferisce ad ambe mano; Lei non mostra curare e tira via. Disposta e\ di pigliare il re Ballano, Che a spron battuti innanzi le fuggia; Vien di traverso Oberto a gran tempesta, E lei ferisce al mezo della testa. Non se ne cura la dama ni%ente, Che/ dietro al re Ballano in tutto e\ volta. Or Chiari%one a guisa di serpente Mena a due mani e ne l' elmo l' ha co\lta, Ma lei non cura il colpo e non lo sente; Tutta a seguir Ballano e\ lei disciolta. Lui, che a le spalle sente la regina, Voltasi e mena un colpo a gran ruina. Mena a due mano e le redine lassa, Gionse nel scudo alla dama rubesta; Come una pasta per traverso il passa, E mezo il tira a terra a gran tempesta. Lei gionse lui ne l' elmo e lo fraccassa, E ferillo aspramente nella testa; Si\ come morto l' abatte disteso, Dalle sue gente incontinente e\ preso. Ma non vi pone indugio la donzella, Per la campagna caccia Chiari%one; Ciascun de gli altri adosso a lei martella; Non gli stima lei tutti un vil bottone. Gia\ tolto Chiari%one ha fuor di sella, E via lo manda preso al paviglione; Questo veggendo quel de Albarossia, A piu\ poter davanti li fuggia. Ma lei lo gionse e ne l' elmo l' afferra; Al suo dispetto lo trasse de arcione, E poi tra le sue gente il getta a terra Come fusse una palla di cottone. Or comincia a finirse la gran guerra, Pero\ che 'l re Adri%ano e\ gia\ pregione; Re Sacripante qui non se ritrova, Altrove abatte e fa mirabil prova. Oberto dal Leon, quel sire arguto, Mette a sconfitta sol tutta una schiera. Marfisa da lontan l' ebbe veduto, Spronagli adosso la donzella fiera; Da cima al fondo gli divise il scuto, E fende sotto il sbergo ogni lamiera, E maglia e zuppa tutta disarmando Sino alla carne fie' toccare il brando. Quel cavallier, turbato oltra misura, Lascia a due mano un gran colpo di spata. Di cotal cosa la dama non cura, Ne/ parve aponto che fosse toccata: Che/ l' elmo che avea in capo e l' armatura Tutta era per incanto fabricata; Ma lei contra de Oberto s' abandona, Sopra de l' elmo un gran colpo gli dona. Con tal roina quel colpo discende, Che l' elmo non l' arresta de ni%ente; La fronte a mezo il naso tutta fende, Il brando calla giu\ tra dente e dente, E l' arme e busto taglia, e cio\ che prende. Mena a fraccasso la spada tagliente, Ne/ mai si ferma insino in su l' arcione: Cadde in due parte Oberto dal Leone. Re Sacripante col brando a due mano Fende e nemici e taglia per traverso; Tuttavia combattendo, di lontano Ebbe veduto quel colpo diverso, Quando Oberto in due parte cadde al piano. Non ha l' animo lui per questo perso, Ma, speronando con molta roina, Col brando in mano afronta la regina; E nella gionta un gran colpo li mena: Non ebbe mai la dama uno altro tale, Che quasi se stordi\ con grave pena. Par che il re Sacripante metta l' ale, Ne/ l' estrema possanza e l' alta lena Della regina a questo ponto vale; Tanto e\ veloce quel baron soprano, Che ciascun colpo della dama e\ vano. Egli era tanto presto quel guerrero, Che a lei girava intorno come occello, E schiffava e soi colpi de legiero, Ferendo spesso a lei con gran flagello. Frontalate avea nome quel destriero, Qual fu cotanto destro e tanto isnello, Che quando Sacripante a quello e\ in cima, Gli omini tutti e il mondo non istima. Quel bon destrier, che fu senza magagna, E si\ compito che nulla gli manca, Baglio era tutto a scorza di castagna, Ma sino al naso avea la fronte bianca. Nacque a Granata, nel regno di Spagna: La testa ha schietta e grossa ciascuna anca; La coda e co^me bionde a terra vano, E da tre piedi e\ quel destrier balzano. Quando gli e\ sopra Sacripante armato, De aspettar tutto il mondo si da\ vanto; Ben ha di lui bisogno in questo lato, Ne/ mai ne la sua vita ne ebbe tanto, Dapoi che con Marfisa e\ssi afrontato. La zuffa vi diro\ ne l' altro canto, Che per l' uno e per l' altro, a non mentire, Assai fu piu\ che far ch' io non so dire. Marfisa vi lasciai, ch' era affrontata Ne l' altro canto al re de Circasia. Benche/ sia forte la dama pregiata, Quel re circasso un tal destriero avia, Che non vi era vantaggio quella fiata. De ira Marfisa tutta se rodia, E mena colpi fieri ad ambe mano; Ma nulla tocca e ciascaduno e\ vano. Ecco il re che ne vien come un falcone, Gionge a traverso quella nel guanzale; Essa risponde a lui d' un riversone Quanto puote piu\ presto, ma non vale, Che/ via passa de un salto quel ronzone Da l' altro lato, come avesse l' ale. Mena a quel canto ancor la dama adorna: De un altro salto lui di qua ritorna. Il re percosse lei sopra una spalla, Ma non se attacca a quella piastra il brando, E giu\ nel scudo con fraccasso calla, Quanto ne prende a terra roi%nando. Or se Marfisa un sol colpo non falla, Per sempre il pone della vita in bando; Se una sol volta a suo modo l' afferra, Feso in due pezzi lo distende a terra. Come un castello in cima d' un gran sasso Intorno e\ d' ogni parte combattuto, Giu\ manda pietre e travi a gran fraccasso, Chiunche e\ di sotto sta ben proveduto; Mentre che la roina calla al basso, Ciascun cerca schiffando darsi aiuto: Questa battaglia avea cotal sembiante, Che e\ tra Marfisa e il forte Sacripante. Lei sembrava dal celo una saetta, Quando menava sua spada tagliente, E mettia nel ferir cotanta fretta, Che l' aria sibillava veramente. Ma giamai Sacripante non l' aspetta, Mai non e\ in terra quel destrier corrente; Di qua, di la\, da fronte e da le spalle, Quasi in un tempo col brando l' assalle. Tutto il cimier gli avea tagliato in testa E rotto il scudo a quella zuffa dura; Stracciata tutta avea la sopravesta, Ma non puotea falsar quella armatura. Intorno da ogni canto li tempesta: Lei di suo tempestar nulla si cura; Aspetta il tempo, e nel suo cor si spera Finire a un colpo quella guerra fiera. Tra loro il primo assalto era finito, Et era l' uno e l' altro retirato; Un messagier nel viso sbigotito Nel campo ariva et e\ molto affannato. Dove era Sacripante esso ne e\ gito, E stando a lui davanti ingenocchiato, Piangendo disse con grave sconforto: #_ Male novelle del tuo regno porto. Re Mandricardo, che fu de Agricane Primo figliol e del suo regno erede, Ha radunato le gente lontane E nella Circassia gia\ posto ha il piede, E morto ha il tuo fratel con le sue mane. Te solamente el tuo regno richiede; Come ti veda nel campo scoperto Re Mandricardo, fuggira\ di certo. Perche/ venne novella in quel paese Della tua morte, e gran malenconia. Quel re malvaso, come questo intese, Passo\ nel regno con molta zenia; Al fiume di Lovasi il ponte prese, Et arse la cita\ di Samachia; Quivi Olibandro, il tuo franco germano, Come io t' ho detto, occise di sua mano. Poi tutto il regno come una facella Mena a roina e mette a foco ardente; E tu combatti per una donzella, Ne/ te muove pieta\ della tua gente, Che sol te aspetta e sol di te favella, E de altro aiuto non spera ni%ente. La tua patria gentil per tutto fuma, Il fer la strazia e il foco la consuma. $_ Cangiosse il re gagliardo al viso altiero, E lacrimava di dolore e de ira, E rivoltava in piu\ parte il pensiero; Sdegno et amore il petto gli martira. L' uno a vendetta il muove de legiero, L' altro a diffesa di sua dama il tira; Al fin, voltando il core ad ogni guisa, Ripone il brando e va nanti a Marfisa. A lei raconta la cosa dolente Che questo messagier gli ha riportata, E la destruzi%on della sua gente, Contra a ragione a tal modo menata; Onde la prega ben piatosamente, Quanto giamai potesse esser pregata, Con dolce parolette e bel sermone, Che indi se parta e lasci quel girone. Marfisa li comincia a proferire Tutta sua gente e la propria persona; Ma de volerse quindi dipartire Non vo^l ch' altri, ne/ lui mai ne ragiona: Sin che non veda Angelica perire, Quella impresa giamai non abandona. Adunque mal d' acordo piu\ che prima, Ciascun de l' ira piu\ salisce in cima. E cominciarno assalto orrendo e fiero Piu\ che mai fosse stato ancor quel giorno. Re Sacripante ha quel presto destriero, A modo usato le volava intorno, E ben comprende lui che di legiero Potrebbe aver di tal zuffa gran scorno; Che/, se molta ventura non l' aita, Ad un sol colpo e\ sua guerra finita. Ma de straccarla al tutto se destina O ver morir per sua mala ventura, E ferisce la dama a gran roina; Ma non se attacca il brando a l' armatura, E non se move la forte regina, Come colei che tal cosa non cura. E' mena colpi orrendi ad ambe mano, Ma sempre falla e se affatica in vano. Tanto lunga tra lor fu la battaglia, Che altro tempo bisogna al ricontare. Adesso di saperla non ve incaglia, Che/ a loco e a tempo ve sapro\ tornare; Ma nel presente io torno alla travaglia Del re Agramante, che ha fatto cercare Il monte di Carena a ogni sentiero, E non si trova il paladin Rugiero. Mulabuferso, che e\ re di Fizano, Fier di persona e d' ogni cosa esperto, Cercato ha tutto quel gran monte invano, Qua verso il mare e la\ verso il deserto, Si\ che nel fuoco poneria la mano, Che in cotal loco non e\ lui di certo; Onde a Biserta torna ad Agramante, E con tal dire a lui si pone avante: #_ Segnor, per fare il tuo comandamento Cercato ho di Carena il monte altiero; Dopo lunga fatica e grave stento Visto ho l' ultimo di\ quel che il primiero. Onde io te acerto e affermo in iuramento, Che la\ non se ritrova alcun Rugiero; Quel gia\ fu morto a Rissa con gran guai, Ne/ altro credo io che sia piu\ nato mai. Si\ che, piacendo al re di Garamanta, Dove il dimori puote indovinare, Poi che quella arte di saper si vanta; Ma noi ben siam piu\ pacci ad aspettare Questo vecchiardo, che le serpe incanta, Che/ gia\ dovremmo aver passato il mare. Lui va cercando quel che non se trova, Perche/ tua gente a guerra non se mova. $_ Re Rodamonte, come l' ebbe odito, A gran fatica lo lascio\ finire. Forte ridendo, con sembiante ardito Disse: #_ Cio\ prima ben sapevo io dire, Che quello aveva il nostro re schernito, Volendo questa guerra differire. Mal aggia l' omo che da\ tanta fede Al ditto di altri e a quel che non si vede! Nova maniera al mondo e\ di mentire, E tanto e\ gia\ di cio\ poca vergogna, Che a misurare il celo han preso ardire Per far piu\ colorita sua menzogna, Annunzi%ando quel che die' venire. E' conta a ciascadun quel che si sogna, Dicendo che Mercurio e Iove e Marte Qua faran pace, e guerra in quelle parte. Se egli e\ alcun dio nel cel, ch' io nol so certo, La\ stassi ad alto, e di qua giu\ non cura: Omo non e\ che l' abbia visto esperto, Ma la vil gente crede per paura. Io de mia fede vi ragiono aperto Che solo il mio bon brando e l' armatura E la maza ch' io porto, e 'l destrier mio E l' animo ch' io ho, sono il mio dio. Ma il re di Garamanta, nella cenere Segnando cerchi con verga d' olivo, Dice che quando il sol fia gionto a Venere, Sara\ d' ogni malizia il mondo privo; E quando a primavera l' erbe tenere Seran fiorite nel tempo giolivo, Alor non debba il re passare in Franza, Ma stiasi queto e grattasi la panza. Del mio ardito segnor mi meraviglio, Che queste zanze possa supportare; Ma se questo vecchion nel zuffo piglio, Che qua ce tiene e non ce lascia andare, In Franza il ponero\ senza naviglio. Per l' aria lo traro\ di la\ dal mare; Non so che me ritenga, e manca poco Ch' io non vi mostri adesso questo ioco. $_ Sorrise alquanto quel vecchio canuto, Poi disse: #_ Le parole e il viso fiero Che mi dimostra quel giovane arguto, Non mi po^n spaventare a dirvi il vero. Come vedeti, egli ha il viso perduto, Benche/ mai tutto non l' avesse intiero, Ne/ se cura di Dio, ne/ Dio de lui; Lascia\nlo stare e ragionam d' altrui. Io ve dissi, segnore, e dico ancora, Che sopra la montagna di Carena Quel giovane fatato fa dimora, Che al mondo non ha par di forza e lena; Ne/ so se ve ricorda, io dissi alora Che se avrebbe a trovarlo molta pena, Pero\ che 'l suo maestro e\ negromante, E ben lo guarda, et ha nome Atalante. Questo ha un giardino al monte edificato, Quale ha di vetro tutto intorno il muro, Sopra un sasso tanto alto e rilevato Che senza tema vi puo\ star sicuro. Tutto d' incerco e\ quel sasso tagliato; Benche/ sia grande a maraviglia e duro, Da gli spirti de inferno tutto quanto Fu in un sol giorno fatto per incanto. Ne/ vi si puo\ salir, se nol concede Quel vecchio che la\ sopra e\ guardi%ano. Omo questo giardin giamai non vede, O stiali apresso o passi di lontano. Io so che Rodamonte cio\ non crede: Mirati come ride quell' insano! Ma se uno annel ch' io sazo, po^i avere, Questo giardino ancor potrai vedere. L' annello e\ fabricato a tal ragione (Come piu\ volte e\ gia\ fatto la prova) Che ogni opra finta de incantazi%one Convien che a sua presenzia se rimova. Questo ha la figlia del re Galafrone, Qual nel presente in India se ritrova, Presso al Cataio, intra un girone adorno, Et ha l' assedio di Marfisa intorno. Se questo annello in possanza non hai, Indarno quel giardin se puo\ cercare, Ma sii ben certo non trovarlo mai. Dunque senza Rugier convien passare, E tutti sosterriti estremi guai, Ne/ alcun ritornara\ di qua dal mare; Et io ben vedo come vo^l fortuna Che Africa tutta sia coperta a bruna. $_ Poi che ebbe il vecchio re cosi\ parlato Chino\ la faccia lacrimando forte. #_ Piu\ son $_ dicea #_ de gli altri sventurato, Che/ cognosco anzi il tempo la mia sorte; Per vera prova di quel che ho contato, Dico che gionta adesso e\ la mia morte: Come il sol entra in cancro a ponto a ponto, Al fine e\ il tempo di mia vita gionto. Prima fia cio\ che una ora sia passata; Se comandar volete altro a Macone, A lui riportaro\ vostra ambasciata. Tenete bene a mente il mio sermone, Ch' io l' aggio detto e dico un' altra fiata: Se andati in Franza senza quel barone Qual ve ho mostrato che e\ la nostra scorta, Tutta la gente fia sconfitta e morta. $_ Non fu piu\ lungo il termine o piu\ corto, Come avea detto quel vecchio scaltrito: Nel tempo che avea detto cadde morto. Il re Agramante ne fu sbigotito, E preseno ciascun molto sconforto; E qualunche di prima era piu\ ardito, Veggendo morto il re nanti al suo piede, Cio\ che quel disse, veramente crede. Ma sol de tutti Rodamonte il fiero Non se ebbe di tal cosa a spaventare, Dicendo: #_ Anco io, segnor, ben che legiero, Avria saputo questo indovinare; Che/ quel vecchio malvaggio e trecolero Piu\ lungamente non puotea campare. Lui, che era de anni e de magagne pieno, Sentia la vita sua che veni\a meno. Or par che egli abbi fatto una gran prova, Poi che egli ha detto che 'l debbe morire. E\ forse cosa istrana o tanto nova Vedere un vecchio la vita finire? Stative adunque, e non sia chi si mova; Di la\ dal mare io vo' soletto gire, E provaro\ se 'l celo ha tal possanza, Che me diveti incoronare in Franza. $_ E piu\ parole non disse ni%ente, Ma quindi se parti\ senza combiato. In Sarza ne va il re che ha il core ardente, E poco tempo vi fu dimorato, Che alla citta\ de Algier e\ con sua gente, Per travargare il mar da l' altro lato. Dipoi vi contaro\ del suo passaggio, E la guerra che 'l fece e il gran dannaggio. Li altri a Biserta sono al parlamento: Diverse cose se hanno a ragionare. Il re Agramante ha ripreso ardimento, E vole ad ogni modo trapassare. Ciascuno andar con esso e\ ben contento, Purche/ Rugier si possi ritrovare; Non si trovando, ogniom vi va dolente: Il re Agramante anco esso a questo assente. E nel consiglio fa promissi%one, Se alcun si trova che sia tanto ardito Che a quella figlia del re Galafrone Vada a levar l' annel che porta in dito, Re lo fara\ di molte regi%one, E ricco di tesor troppo infinito. Tutti han la cosa molto bene intesa, Ma non se vanta alcun di tale impresa. Il re de Fiessa, che e\ tutto canuto, Disse: #_ Segnor, io voglio un poco uscire, E spero che Macon mi doni aiuto: Un mio servente ti vuo' fare odire. $_ Gia\ lungo tempo non fu ritenuto, E fece un ribaldello entro venire, Che altri si\ presto non fu mai di mano; Brunello ha nome quel ladro soprano. Egli e\ ben piccioletto di persona, Ma di malicia a meraviglia pieno, E sempre in calmo e per zergo ragiona: Lungo e\ da cinque palmi, o poco meno, E la sua voce par corno che suona; Nel dire e nel robbare e\ senza freno. Va sol di notte, e il di\ non e\ veduto, Curti ha i capelli, et e\ negro e ricciuto. Come fu dentro, vidde zoie tante E tante lame d' o^r, come io contai; Ben se augura in suo core esser gigante Per poter via di quel portare assai. Poi che fu gionto al tribunale avante, Disse: #_ Segnore, io non possero\ mai, Sin che con l' arte, inganni, o con ingegno Io non acquisti il promettuto regno. Lo annello io l' avero\ ben senza errore, E presto il portaraggio in tua masone; Ma ben ti prego che in cosa maggiore Ti piaccia poi di me far parangone. Tuor la luna dal cel giu\ mi da\ il core, E robbare al demonio il suo forcone, E per sprezar la gente cristi%ana Robbero\ il Papa e 'l suon de la campana. $_ Il re se meraviglia ne la mente Veggendo un piccolin tanto sicuro; Lui ne va per dormire incontinente, Che poi gli piace de vegiare al scuro. Non se ne avide alcun di quella gente Che molte zoie dispicco\ del muro. Ben se lamenta di sua poca lena; Tante ne ha adosso, che le porta apena. Tutto il consiglio fu da poi lasciato, E fu finito il lungo parlamento; Ciascun nella sua terra e\ ritornato Per adoprarsi a l' alto guarnimento. Quel re cortese avea tanto donato, Che ciascadun de lui ne va contento; E zoie e vasi d' oro, arme e destrieri Donava, e a tutti cani e sparavieri. Ogni om zoioso se parte cantando, Coperti a veste de ari%ento e d' oro. Lasciogli gire e torno al conte Orlando, Lo qual lasciai con pena e con martoro Per la campagna ai piedi caminando, Poiche/ ha perduto il destrier Brigliadoro. Lamentase di se/ quel sire ardito, Poi che si trova a tal modo schernito, Dicendo: ## Quella dama io dispiccai Di tanta pena e della morte ria, E lei poi m' ha condutto in questi guai Et hamme usato tanta scortesia. Sia maledetto chi se fida mai Per tutto il mondo in femina che sia! Tutte son false a sostenir la prova: Una e\ leale, e mai non se ritrova. $# La bocca se percosse con la mano, Poi che ebbe detto questo, il sire ardito, A se/ dicendo: ## Cavallier villano, Chi te fa ragionare a tal partito? Eti scordato adunque il viso umano Di quella che d' amor te ha il cor ferito? Che/ per lei sola e per la sua bontate L' altre son degne d' esser tutte amate. $# Cosi\ dicendo vede di lontano Bandiere e lancie dritte con pennoni; Ver lui van quella gente per il piano, Parte sono a destrier, parte pedoni. Davanti a gli altri mena il capitano Duo cavallieri a guisa de prigioni, Di ferro catenati ambe le braccia. Ben presto il conte li cognobbe in faccia; Perche/ l' uno e\ Grifon, l' altro Aquilante, Che son condotti a morte da costoro. Una donzella, poco a quei davante, Era legata sopra a Brigliadoro. Pallida in viso e trista nel sembiante, Condutta e\ con questi altri al rio martoro: Orrigille e\ la dama, quella trista. Ben lei cognobbe il conte in prima vista; Ma nol dimostra, e va tra quella gente, E chiede di tal cosa la cagione. Un che avea la barbuta ruginente E cinto bene al dosso un pancirone, Disse: #_ Condutti son questi al serpente Il qual divora tutte le persone Che arrivan forastiere in quel paese, Dove fo^r questi et altre gente prese. Questo e\ il regno de Orgagna, se nol sai, E sei presso al giardin de Fallerina. Cosa piu\ strana al mondo non fu mai: Fatto l' ha per incanto la regina; E tu securo in queste parte vai? Ma serai preso con molta roina E dato al drago, come gli altri sono, Se presto non te fuggi in abandono. $_ Molto fu alegro alora il paladino, Poi che cognobbe in questo ragionare Che egli era pervenuto a quel giardino, Qual convenia per forza conquistare. Ma quel bravel, che ha viso di mastino, Disse: #_ Ancor, paccio, stai ad aspettare? Come qui t' abbia il capitano scorto, Incontinente serai preso e morto. $_ Finito non avea questo sermone, Che 'l capitano, che l' ebbe veduto, Grido\: #_ Piglia\ti presto quel bricone, Che in soa mala ventura e\ qui venuto. Adrieto il menarete alla pregione, Poi che 'l drago per oggi fia pasciuto De questi tre che or ne vanno alla morte: Domane ad esso toccara\ la sorte. $_ Ciascun presto pigliarlo se procura: Tutta se mosse la gente villana. Il conte, che de lor poco se cura, Imbraccio\ il scudo e trasse Durindana. Adosso li venian senza paura, Che/ non sapean sua forza si\ soprana; Ciascun s' affretta ben d' esservi in prima, Perche/ aver l' arme del guerrier se stima. Ma presto fe' cognoscer quel ch' egli era, Come fo gionto con seco alla prova, Tagliando questo e quello in tal maniera, Che dove e\ un pezzo, l' altro non si trova. Un grande, che portava la bandiera: #_ Saldo! $_ diceva #_ e non sia che si mova. Saldo, brigata! $_ a gran voce cridava; Ma lui di dietro e ben largo si stava. Per questo suo cridare alcun non resta, A furia tutti quanti se ne vano; Orlando e\ sempre in mezo a gran tempesta, E gambe, e teste, e braccie manda al piano. Gionse a quel grande, e da\gli in su la testa Un grave colpo col brando a due mano. Tutto lo fende insino alla cintura: Non domandar se gli altri avean paura. Il capitano fo il primo a fuggire, Perche/ degli altri avea meglior ronzone, E fuggendo al compagno prese a dire: #_ Questo e\ colui che occise Rubicone, E tutti quanti ce fara\ morire, Se Dio non ce da\ aiuto et il sperone. Tristo colui che in quel brando s' abatte! Gli omini e l' arme taglia come un latte. $_ Fu Rubicone da Ranaldo occiso; Non so, segnor, se piu\ vi ricordati, Che fu a traverso de un colpo diviso, Quando Iroldo e Prasildo fo^r campati. Or questo capitano ha preso aviso, Mirando quei gran colpi smisurati, Che quello una altra volta sia tornato; Sempre, fuggendo, pargli averlo a lato. Ma il conte Orlando non lo seguitava, Poi che sconfitta quella gente vede. #_ Via! Via, canaglia! $_ dietro li cridava; E poi tornava, si\ come era, a piede Verso e pregioni. Ciascun lacrimava, Ne/ apena esser campato alcun se crede. Ma la donzella, che cognobbe il conte, Morta divenne et abasso\ la fronte. Bella era, come io dissi, oltre misura, Et a beltate ogni cosa risponde, Si\ che ancor la vergogna e la paura La grazia del suo viso non asconde. Veggendo il conte sua bella figura, Dentro nel spirto tutto se confonde; Ne/ iniuria se ramenta ne/ l' inganno, Ma sol gli do^l che lei ne prende affanno. Or che bisogna dir? Tanto gli piace, Che prima che i nepoti la disciolse; Ma lei, ch' e\ tutta perfida e fallace, Come sapea ben fare, il tempo colse; Piangendo ingenocchion chiedea la pace. Il conte sostenir questo non volse Che ella piu\ stesse in quel dolente caso, Ma rilevolla e fie' pace de un baso. In questa forma repacificati, Il conte rimonto\ nel suo ronzone, Da poi quei duo guerreri ha desligati. La dama sol {add} tenia {/add; teni\a Z} gli occhi a Grifone, Che/ gia\ se erano insieme inamorati Nel tempo che fo^r messi alla prigione; Ne/ mancato era a l' uno o l' altro il foco, Ben che sian stati in separato loco. E non doveti avere a meraviglia Se, piu\ che 'l conte lei Grifone amava; Pero\ che Orlando avea folte le ciglia, E d' un de gli occhi alquanto stralunava. Grifon la faccia avea bianca e vermiglia, Ne/ pel di barba, o poco ne mostrava; Maggiore e\ bene Orlando e piu\ robusto, Ma a quella dama non andava al gusto. Sempre gli occhi a Grifon la dama tiene, E lui guardava lei con molto affetto, Con sembianze piatose e d' amor piene; Con sospir caldi da lei fende il petto; E si\ scoperta questa cosa viene, Che Orlando incontinente ebbe sospetto; E, per non vi tenire in piu\ sermoni, Il conte die\ licenzia a quei baroni, Dicendo che quel giorno convenia Condurre a fine un fatto smisurato, Dove non ha bisogno compagnia, Perche/ fornirlo solo avea giurato. Che bisogna piu\ dir? Lor ne van via; E gia\ non si parti^r senza combiato, E da tre volte in su, senza fallire, Il conte li ricorda il dipartire. Orlando giu\ dismonta della sella, Poi che e\ Grifon partito et Aquilante, E con la dama sol d' amor favella, Benche/ fosse mal scorto e sozzo amante. Eccoti alora ariva una donzella Sopra d' un palafren bianco et amblante. Poi che ebbe l' uno e l' altro salutato, Verso del conte disse: #_ Ahi sventurato! Disventurato! $_ disse #_ qual destino Te ha mai condutto a si\ malvaggia sorte? Non sai tu che de Orgagna e\ qui il giardino, Ne/ sei due miglia longe dalle porte? Fugge presto, per Dio! fugge, meschino, Che/ tu sei tanto presso dalla morte, Quanto sei presso a l' incantato muro; E tu qua zanzi e stai come sicuro! $_ Il conte a lei rispose sorridendo: #_ Voglioti sempre assai ringrazi%are, Perche/, al dir che me fai, chiaro comprendo Che a te dispiace il mio pericolare; Ma sappi che fuggirme io non intendo, Che/ dentro a quel giardino io voglio intrare. Amor, che ivi mi manda, me assicura Di trare al fine tanta alta aventura. Se mi puoi dar consiglio, o vero aiuto, Come aggia in cotal cosa fare, o dire, Estremamente ti sero\ tenuto. Quel che abbia a fare, io non posso sentire, Che/ omo non trovo che l' abbia veduto, Ne/ che me dica dove io debba gire; Si\ che per cortesia ti vo' pregare Che me consigli quel ch' io debba fare. $_ La damigella, ch' era grazi%osa, Smonto\ nel prato il bianco palafreno, Et a lui riconto\ tutta la cosa, Cio\ che dovea trovar, ne/ piu\, ne/ meno. Questa aventura fu maravigliosa, Come io vi contaro\ ben tutto apieno Nel canto che vien dietro, se a Dio piace; Bella brigata, rimanete in pace. Luce de gli occhi miei, spirto del core, Per cui cantar suolea si\ dolcemente Rime legiadre e bei versi d' amore, Spirami aiuto alla istoria presente. Tu sola al canto mio facesti onore, Quando di te parlai primeramente, Perche/ a qualunche che di te ragiona, Amor la voce e l' intelletto dona. Amor primo trovo\ le rime e' versi, I suoni, i canti et ogni melodia; E genti istrane e populi dispersi Congionse Amore in dolce compagnia. Il diletto e il piacer serian sumersi, Dove Amor non avesse signoria; Odio crudele e dispietata guerra, Se Amor non fusse, avrian tutta la terra. Lui pone l' avarizia e l' ira in bando, E il core accresce alle animose imprese, Ne/ tante prove piu\ mai fece Orlando, Quante nel tempo che de amor se accese. Di lui vi ragionava alora quando Con quella dama nel prato discese; Or questa cosa vi voglio seguire, Per dar diletto a cui piace de odire. La dama, che col conte era smontata, Gli dicea: #_ Cavalliero, in fede mia, Se non che messagiera io son mandata, Dentro a questo giardin teco verria; Ma non posso indugiare una giornata Del mio camino, et e\ lunga la via. Or quel ch' io te vo' dire, intendi bene: Esser gagliardo e saggio ti conviene. Se non vo^i esser di quel drago pasto, Che d' altra gente ha consumata assai, Convienti di tre giorni esser ben casto, Ne/ camparesti in altro modo mai. Questo dragone fia il primo contrasto Che alla primiera entrata trovarai: Un libro ti daro\, dove e\ depinto Tutto 'l giardino e cio\ ch' e\ dentro al cinto. $_ Il dragone che gli omini divora, E l' altre cose tutte quante dice, E descrive il palagio ove dimora Quella regina, brutta incantatrice. Ier entro\ dentro e dimoravi ancora, Perche/ con succo de erbe e de radice E con incanti fabrica una spata Che tagliar possa ogni cosa affatata. In questo non lavora se non quando Volta la luna e che tutto se oscura. #_ Or te vo' dir perche/ ha fatto quel brando E pone al temperarlo tanta cura. In Ponente e\ un baron, che ha nome Orlando, Che per sua forza al mondo fa paura: La incantatrice trova per destino Che costui desertar debbe il giardino. Come se dice, egli e\ tutto fatato In ogni canto, e non si puo\ ferire, E con molti guerreri e\ gia\ provato, E tutti quanti gli ha fatto morire; Percio\ la dama il brando ha fabricato, Perche/ il baron che io ho detto, abbia a perire, Benche/ lei dica che pur sa di certo Che il suo giardin da lui sera\ deserto. Ma quel che piu\ bisogna avea scordato, E speso ho il tempo con tante parole. Non se puo\ entrare in quel loco incantato Se non aponto quando leva il sole. Poi ch' io son quivi, e\ bon tempo passato: Piu\ teco star non posso, e me ne dole. Or piglia il libro e ponevi ben cura: Iddio te aiuti e doneti ventura. $_ Cosi\ dicendo gli da\ il libro in mano, E da lui tol combiato la fantina; Ben la ringrazia il cavallier soprano: Lei monta il palafreno e via camina. Va passeggiando il conte per il piano, Poi che indugiar conviene alla mattina; Ben gli rincresce il gioco che gli e\ guasto Ch' esser conviene a quella impresa casto: Perche/ Origille, quella damigella Che avea campata, seco dimorava. Amore e gran desio dentro il martella, Ma pur indugi%ar deliberava. La luna era nel celo et ogni stella, Il conte sopra a l' erba si posava, Col scudo sotto il capo e tutto armato; La damigella a lui stava da lato. Dormiva Orlando, e sornacchiava forte Senz' altra cura il franco cavalliero; Ma quella dama, che e\ di mala sorte Et a seguir Grifone avea il pensiero, Fra se/ delibero\ dargli la morte; E, rivolgendo cio\ l' animo fiero, Vien pianamente a lui se/ approssimando, E via dal fianco gli distacca il brando. Tutto e\ coperto il conte d' armatura: Non sa la dama il partito pigliare, Ne/ de ferirlo ponto se assicura, Onde destina di lasciarlo stare. Lei prende Brigliadoro alla pastura, E prestamente su vi ebbe a montare, E via camina e quindi s' alontana, E porta seco il brando Durindana. Orlando fu svegliato al matutino, E del brando s' accorse e del ronzone. Pensati se de questo fu tapino, Che 'l credette morir di passi%one; Ma in ogni modo entrar vo^le al giardino: E bench' egli abbia perduto il ronzone E il brando di valor tanto infinito, Non se spaventa il cavalliero ardito. Via caminando come disperato, Verso il giardino andava quel barone; Un ramo d' uno alto olmo avea sfrondato, E seco nel portava per bastone. Il sole aponto alora era levato, Quando lui gionse al passo del dragone; Fermossi alquanto il cavallier sicuro, Guardando intorno del giardino al muro. Quello era un sasso de una pietra viva, Che tutta integra atorno l' agirava; Da mille braccie verso il ciel saliva, E trenta miglia quel cerchio voltava. Ecco una porta a levante s' apriva: Il drago smisurato zuffellava, Battendo l' ale e menando la coda; Altro che lui non par che al mondo s' oda. Fuor della porta non esce ni%ente, Ma stavi sopra come guardi%ano; Il conte se avicina arditamente Col scudo in braccio e col bastone in mano. La bocca tutta aperse il gran serpente, Per ingiottire quel baron soprano; Lui, che di tal battaglia era ben uso, Mena il bastone e colse a mezo 'l muso. Per questo fu il serpente piu\ commosso, E verso Orlando furi%oso viene; Lui con quel ramo de olmo verde e grosso Menando gran percosse gli da\ pene. Al fin con molto ardir gli salta adosso, E cavalcando tra le coscie il tiene; Ferendo ad ambe mano, a gran tempesta Colpi radoppia a colpi in su la testa. Rotto avea l' osso, e il suo cervello appare, Quella bestia diversa, e cadde morta. Il sasso, che era aperto a questo intrare, S' accolse insieme, e chiuse questa porta. Or non sa il conte cio\ che debba fare, E nella mente alquanto se sconforta; Guardasi intorno e non sa dove gire, Che/ chiuso e\ dentro e non potrebbe uscire. Era alla sua man destra una fontana, Spargendo intorno a se/ molta acqua viva; Una figura di pietra soprana, A cui del petto fuor quella acqua usciva, Scritto avea in fronte: #+ Per questa fiumana Al bel palagio del giardin se ariva. $+ Per infrescarse se ne andava il conte Le man e 'l viso a quella chiara fonte. Avea da ciascun lato uno arboscello Quel fonte che era in mezo alla verdura, E facea da se stesso un fiumicello De una acqua troppo cristallina e pura; Tra' fiori andava il fiume, e proprio e\ quello Di cui contava aponto la scrittura, Che la imagine al capo avea d' intorno; Tutta la lesse il cavalliero adorno. Onde si mosse a gire a quel palaggio, Per pigliare in quel loco altro partito; E caminando sopra del rivaggio Mirava il bel paese sbigotito. Egli era aponto del mese di maggio, Si\ che per tutto intorno era fiorito, E rendeva quel loco un tanto odore, Che sol di questo se allegrava il core. Dolce pianure e lieti monticelli Con bei boschetti de pini e d' abeti, E sopr' a verdi rami erano occelli, Cantando in voce viva e versi queti. Conigli e caprioli e cervi isnelli, Piacevoli a guardare e mansueti, Lepore e daini correndo d' intorno, Pieno avean tutto quel giardino adorno. Orlando pur va drieto alla rivera, Et avendo gran pezzo caminato, A pie\ d' un monticello alla costera Vide un palagio a marmori intagliato; Ma non puotea veder ben quel che gli era, Perche/ de arbori intorno e\ circondato. Ma poi, quando li fu gionto dapresso, Per meraviglia usci\ for di se stesso. Perche/ non era marmoro il lavoro Ch' egli avea visto tra quella verdura, Ma smalti coloriti in lame d' oro Che coprian del palagio l' alte mura. Quivi e\ una porta di tanto tesoro, Quanto non vede al mondo creatura, Alta da diece e larga cinque passi, Coperta de smiraldi e de balassi. Non se trovava in quel ponto serrata, Pero\ vi passo\ dentro il conte Orlando. Come fu gionto nella prima entrata, Vide una dama che avea in mano un brando, Vestita a bianco e d' oro incoronata, In quella spada se stessa mirando. Come lei vide il cavallier venire, Tutta turbosse e posesi a fuggire. Fuor della porta fuggi\ per il piano; Sempre la segue Orlando tutto armato, Ne/ fu ducento passi ito lontano, Che l' ebbe gionta in mezo di quel prato. Presto quel brando gli tolse di mano, Che fu per dargli morte fabricato, Perche/ era fatto con tanta ragione, Che taglia incanto et ogni fatagione. Poi per le chiome la dama pigliava, Che le avea sparse per le spalle al vento, E di dargli la morte minacciava E grave pena con molto tormento, Se del giardino uscir non gl' insegnava. Lei, ben che tremi tutta di spavento, Per quella tema gia\ non se confonde, Anci sta queta e nulla vi risponde; Ne/ per minaccie che gli avesse a fare Il conte Orlando, ne/ per la paura Mai gli rispose, ne/ volse parlare, Ne/ pur di lui mostrava tenir cura. Lui le lusenghe ancor volse provare, Essa ostinata fo sempre e piu\ dura; Ne/ per piacevol dir ne/ per minaccia Puote impetrar che lei sempre non taccia. Turbossi il cavallier nel suo coraggio, Dicendo: #_ Ora me e\ forza esser fellone; Mia sera\ la vergogna e tuo il dannaggio, Benche/ di farlo io ho molta ragione. $_ Cosi\ dicendo la mena ad un faggio, E ben stretta la lega a quel troncone Con rame lunghe, tenere e ritorte, Dicendo a lei: #_ Or dove son le porte? $_ Lei non risponde al suo parlar ni%ente, E mostra del suo crucio aver diletto. #_ Ahi, $_ disse il conte #_ falsa e fraudolente! Ch' io lo posso sapere al tuo dispetto. Or mo di novo mi e\ tornato a mente Che in un libretto l' aggio scritto al petto, Qual mi mostrara\ il fatto tutto a pieno. $_ Cosi\ dicendo sel trasse di seno. Guardando nel libretto ove e\ depento Tutto il giardino e di fuore e d' intorno, Vede nel sasso, ch' e\ d' incerco acento, Una porta che n' esce a mezogiorno; Ma bisogna a l' uscir aver convento Un toro avanti, che ha di foco un corno, L' altro di ferro, et e\ tanto pongente, Che piastra o maglia non vi val ni%ente. Ma prima che vi ariva, un lago trova, Dove e\ molta fatica a trapassare, Per una cosa troppo strana e nova, Si\ come apresso vi voro\ contare; Ma il libro insegna vincer quella prova. Non avea il conte a ponto a indugi%are, Ma via camina per l' erba novella, Lasciando al faggio presa la donzella. Via ne va lui per quelle erbe odorose, E poi che alquanto via fu caminato, L' elmo a l' orecchie empi\ dentro di rose, Delle qual tutto adorno era quel prato. Chiuse l' orecchie, ad ascoltar si pose Gli occei, ch' erano intorno ad ogni lato: Mover li vede il collo e 'l becco aprire, Voce non ode e non potrebbe odire, Perche/ chiuso se aveva in tal maniera L' orecchie entrambe a quelle rose folte, Che non odiva, al loco dove egli era, Cosa del mondo, ben che attento ascolte; E caminando gionse alla rivera, Che ha molte gente al suo fondo sepolte. Questo era un lago piccolo e iocondo D' acque tranquille e chiare insino al fondo. Non gionse il conte in su la ripa apena, Che comincio\ quell' acqua a gorgoliare; Cantando venne a sommo la Sirena. Una donzella e\ quel che sopra appare, Ma quel che sotto l' acqua se dimena Tutto e\ di pesce e non si puo\ mirare, Che/ sta nel lago da la furca in gioso; E mostra il vago, e il brutto tiene ascoso. Lei comincia a cantar si\ dolcemente, Che uccelli e fiere vennero ad odire: Ma, come erano gionti, incontinente Per la dolcezza convenian dormire. Il conte non odi\a de cio\ ni%ente, Ma, stando attento, mostra di sentire. Come era dal libretto amaestrato, Sopra la riva se colco\ nel prato. E' mostrava dormir ronfando forte: La mala bestia il tratto non intese, E venne a terra per donarli morte; Ma il conte per le chiome ne la prese. Lei, quanto piu\ puotea, cantava forte, Che/ non sapeva fare altre diffese, Ma la sua voce al conte non attiene, Che ambe l' orecchie avea di rose piene. Per le chiome la prese il conte Orlando, Fuor di quel lago la trasse nel prato, E via la testa gli taglio\ col brando, Come gli aveva il libro dimostrato, Se/ tutto di quel sangue rossegiando, E l' arme e sopraveste in ogni lato. L' elmo se trasse e dislego\ le rose; Tinto di sangue poi tutto se 'l pose. Di quel sangue avea tocco in ogni loco, Perche/ altramente tutta l' armatura Avrebbe consumata a poco a poco Quel toro orrendo e fora di natura, Che avea un corno di ferro et un di foco. Al suo contrasto nulla cosa dura, Arde e consuma cio\ che tocca apena: Sol se diffende il sangue di sirena. Di questo toro sopra vi ho contato, Che verso mezogiorno e\ guardi%ano. Il conte a quella porta fu arivato, Poi che ebbe errato molto per il piano. Il sasso che 'l giardino ha circondato, S' aperse alla sua gionta a mano a mano, E una porta di bronzo si disserra: Fuora usci\ il toro a mezo della terra. Muggiando uscitte il toro alla battaglia, E ferro e foco nella fronte squassa, Ne/ contrastar vi puo\ piastra ne/ maglia, Ogni armatura con le corne passa. Il conte con quel brando che ben taglia, A lui ferisce ne la testa bassa, E proprio il gionse nel corno ferrato: Tutto di netto lo mando\ nel prato. Per questo la battaglia non s' arresta; Con l' altro corno, ch' e\ di foco, mena Con tanta furia e con tanta tempesta, Che il conte in piede si mantiene apena. Arso l' avria da le piante alla testa, Se non che il sangue di quella sirena Da questa fiamma lo {add} tenia {/add; teni\a Z} diffeso, Che avrebbe l' arme e il busto insieme acceso. Combatte arditamente il conte Orlando, Come colui che fu senza paura; Mena a due mano irato e fulminando Dritti e roversi fuor d' ogni misura. Egli ha gran forza et incantato ha il brando, Onde a' suoi colpi nulla cosa dura; Ferendo e spalle e testa et ogni fianco, Fece che 'l toro al fin pur venne manco. Le gambe taglio\ a quello e il collo ancora, Con gran fatica se fini\ la guerra. Il toro occiso senza altra dimora Tutto se ascose sotto della terra; La porta, che era aperta alora alora, A l' asconder di quel presto si serra; La pietra tutta insieme e\ ritornata, Porta non vi e\, ne/ segno ove sia stata. Il conte piu\ non sa quel che si fare. Che/ de l' uscita non vede ni%ente; Prende il libretto e comincia a guardare, D' intorno al cerchio va ponendo mente; Vede il vi%aggio che debbe pigliare Dietro ad un rivo che corre a ponente, Ove di zoie aperta e\ una gran porta; Uno asinello armato e\ la sua scorta. Ma presto narraro\ com' era fatto Questo asinello, e fu gran meraviglia. Dio guardi il conte Orlando a questo tratto, Che alla riva del fiume il camin piglia. Via ne va sempre caminando ratto, E seco nella mente se assotiglia, Perche/ 'l libro altro ancor gli avea mostrato, Prima che gionga a l' asinello armato. Cosi\ pensando, a mezo del camino Uno arbore atrovo\ fuor di misura: Tanto alto non fo mai faggio ne/ pino, Tutto fronzuto di bella verdura. Come da longe il vide il paladino, Ben si ricorda di quella scrittura Che gli mostrava il suo libretto aponto, Pero\ provede prima che sia gionto. Fermosse sopra il fiume il cavalliero, E 'l scudo prestamente desimbraccia, Da l' elmo tolse via tutto il cimiero, Alla fronte di quello il scudo allaccia, Si\ che 'l copria davanti tutto intiero, Verso la vista e sopra della faccia. Dinanti ai piedi aponto in terra guarda: Altro non vede e il suo camin non tarda. E come il loco avea prima avisato, Al tronco drittamente via camina. Un grande occello ai rami fu levato, Che avea la testa e faccia di regina, Coi capei biondi e il capo incoronato; La piuma al collo ha d' oro e purpurina, Ma il petto, il busto e le penne maggiore Vaghe e dipente son d' ogni colore. La coda ha verde e d' oro e di vermiglio, Et ambe l' ale ad occhi di pavone; Grande ha le branche e smisurato artiglio, Proprio assembra di ferro il forte ungione. Tristo quello omo a chi dona di piglio, Che/ lo divora con destruzi%one. Smaltisce questo occello una acqua molle, Qual, come tocca gli occhi, il veder tolle. Levosse dalle rame con fraccasso Quel grande occello, e verso il conte andava, Il qual veniva al tronco passo passo Col scudo in capo, e gli occhi non alciava, Ma sempre a terra aveva il viso basso; E l' occellaccio d' intorno agirava, E tal rumor faceva e tal cridare, Che quasi Orlando fie' pericolare. Che/ fu piu\ volte per guardare in suso; Ma pur se ricordava del libretto, E sotto il scudo se ne stava chiuso. Alcio\ la coda il monstro maledetto, E l' acqua avelenata smalti\ giuso. Quella cade nel scudo, e per il petto Calla stridendo, come uno oglio ardente; Ma nella vista non tocco\ ni%ente. Orlando se lascio\ cadere in terra, Tra l' erbe, come ceco, brancolando. Calla l' occello e nel sbergo l' afferra, E verso il tronco il tira strasinando. Il conte a man riversa un colpo serra; Proprio a traverso lo gionse del brando, E da l' un lato a l' altro lo divise, Si\ che, a dir breve, quel colpo l' occise. Poi che mirato ha il conte quello occello, Sotto il suo tronco a l' ombra morto il lassa, E raconcia il cimiero alto a pennello, E 'l scudo al braccio nel suo loco abassa. Verso la porta dove e\ l' asinello, Drieto a ponente, in ripa al fiume passa, E poco camino\ che ivi fu gionto, E vide aprir la porta in su quel ponto. Mai non fo visto si\ ricco lavoro Come e\ la porta nella prima faccia. Tutta e\ di zoie, e vale un gran tesoro; Non la diffende ne/ spata ne/ maccia Ma uno asino coperto a scaglie d' oro, Et ha l' orecchie lunghe da due braccia: Come coda di serpe quelle piega, E piglia e strenge a suo piacere e lega. Tutto e\ coperto di scaglia dorata, Come io vi ho detto, e non si puo\ passare; Ma la sua coda taglia come spata, Ne/ vi puo\ piastra ne/ maglia durare; Grande ha la voce e troppo smisurata, Si\ che la terra intorno fa tremare. Ora alla porta il conte s' avicina: La bestia venne a lui con gran roina. Orlando lo feri\ de un colpo crudo, Ne/ lo diffende l' incantata scaglia; Tutto il scoperse insino al fianco nudo, Perche/ ogni fatason quel brando taglia. L' asino prese con l' orecchie il scudo, E tanto dimenando lo travaglia, Di qua di la\ battendo in poco spaccio, Che al suo dispetto lo levo\ dal braccio. Turbosse oltra misura il conte Orlando, E mena un colpo furi%osamente; Ambe l' orecchie gli taglio\ col brando, Che/ quella scaglia vi giovo\ ni%ente. Esso le croppe rivolto\ cridando, E mena la sua coda, che e\ tagliente, E spezza al franco conte ogni armatura: Lui e\ fatato, e poco se ne cura; E de un gran colpo a quel colse ne l' anca Dal lato destro, e tutta l' ha tagliata, E dentro agionse nella coscia stanca. Non e\ riparo alcuno a quella spata; Quasi la taglio\ tutta, e poco manca. Cadde alla terra la bestia incantata, Cridando in voce di spavento piena, Ma il conte cio\ non cura e il brando mena. Mena a due mano il conte e non s' arresta, Benche/ cridi la bestia a gran terrore. Via de un sol colpo gli getto\ la testa Con tutto il collo, o la parte maggiore. Alor tutta tremo\ quella foresta, E la terra s' aperse con rumore, Dentro vi cadde quella mala fiera; Poi se ragionse, e ritorno\ com' era. Or fora il conte se ne vuole andare, Et alla ricca porta e\sse invi%ato, Ma dove quella fosse non appare: Il sasso tutto integro e\ riserrato. Lui prende il libro e comincia a mirare; Poi che ogni volta rimane ingannato E dura indarno cotanta fatica, Non sa piu\ che se facci o che se dica. Ciascuna uscita sempre e\ stata vana E con arisco grande di morire; Pur la scrittura del libretto spiana Che ad ogni modo non se puote uscire Per una porta volta a tramontana, Ma la\ non vi val forza, e non ardire, Ne/ 'l proprio senno ne/ l' altrui consiglio, Che/ troppo e\ quello estremo e gran periglio. Perche/ un gigante smisurato e forte Guarda la uscita con la spata in mano, E se egli advien che dato li sia morte, Duo nascon del suo sangue sopra il piano, E questi sono ancor de simil sorte: Ciascun quattro produce a mano a mano, Cosi\ multiplicando in infinito Il numero di lor forte et ardito. Ma prima ancor che se possa arivare A quella porta, che e\ tutta d' argento, Per quella serrata, vi e\ molto che fare, E bisognavi astuzia e sentimento. Ma il conte a questo non stette a pensare, Come colui che avea molto ardimento, Seco dicendo a sua mente animosa: ## Chi puo\ durare, al fin vince ogni cosa. $# Cosi\ fra se/ parlando il camin prese Giu\ per la costa verso tramontana, E vide, come al campo giu\ discese, Una valle fiorita e tutta piana, Ove tavole bianche eran distese, Tutte apparate intorno alla fontana; Con ricche coppe d' oro in ogni banda Eran coperti de optima vivanda. Ne/ quanto intorno se puote mirare, Disotto al piano e di sopra nel monte, Non vi e\ persona che possi guardare Quella ricchezza che e\ intorno alla fonte; E le vivande se vedean fumare. Gran voglia di mangiare aveva il conte; Ma prima il libracciol trasse del petto, E, quel leggendo, prese alto sospetto. Guardando quel libretto, il paladino Vide la cosa si\ pericolosa. Di la\ dal fonte e\ un boschetto di spino, Tutto fiorito di vermiglia rosa, Verde e fronzuto; e dentro al suo confino Una Fauna crudel vi sta nascosa: Viso di dama e petto e braccia avia, Ma tutto il resto d' una serpe ria. Questa teneva una catena al braccio, Che nascosa veni\a tra l' erba e' fiori, E facea intorno a quella fonte un laccio, Accio\, se alcun, tirato da li odori, Intrasse alla fontana dentro al spaccio, Fosse pigliato con gravi dolori; Essa, tirando poi quella catena, A suo mal grado nel boschetto il mena. Orlando dalla fonte si guardava, E verso il verde bosco prese a gire. Come la Fauna di questo si addava, Usci\ cridando e posesi a fuggire; Per l' erba, come biscia, sdrucellava, Ma presto il conte la fece morire De un colpo solo e senza altra contesa, Che/ quella bestia non facea diffesa. Poi che la Fauna fu nel prato morta, Ver tramontana via camina il conte, E poco longi vide la gran porta, Che avea davanti sopra un fiume un ponte. Su vi sta quel che ha tanta gente morta, Col scudo in braccio e con l' elmo alla fronte; Par che minacci con sembianza cruda, Armato e\ tutto et ha la spada nuda. Orlando se avicina a quel gigante, Ne/ de cotal battaglia dubitava, Perche/ in sua vita ne avea fatto tante, Che poca cura di questa si dava. Quello omo smisurato venne avante, Et un gran colpo de spata menava. Schifollo il conte e trassese da lato, E quel ferisce col brando affatato. Gionse al gigante sopra del gallone, Non lo diffese ne/ piastra ne/ maglia, Ma, fraccassando sbergo e pancirone, Insino a l' altra coscia tutto il taglia. Ora se allegra il figlio di Melone, Credendo aver finita ogni battaglia, E prese de l' uscir molto conforto, Poi che vide il gigante a terra morto. Quello era morto, e 'l sangue fuora usciva, Tanto che ne era pien tutto quel loco; Ma, come fuor del ponte in terra ariva, Intorno ad esso s' accendeva un foco. Crescendo ad alto quella fiamma viva Formava un gran gigante a poco a poco; Questo era armato e in vista furibondo, E dopo il primo ancor nasci\a il secondo. Figli parean di 'l foco veramente, Tanto era ciascun presto e furi%oso, Con vista accesa e con la faccia ardente. Ora ben stette il conte dubbi%oso; Non sa quel che far debba nella mente: Perder non vo^le, e 'l vincere e\ dannoso, Pero\, ben che li faccia a terra andare, Rinasceranno, e piu\ vi avra\ che fare. Ma de vincere al fin pur se conforta, Se ne nascesser ben mille migliara, Et animoso se driccia alla porta. Quei duo giganti avean presa la sbara; Ciascuno aveva una gran spada torta, Perche/ eran nati con la simitara. Ma il conte a suo mal grado dentro passa, Prende la sbarra e tutta la fraccassa. Unde ciascun di lor piu\ fulminando Percote adosso del barone ardito; Ma poca stima ne faceva Orlando, Che/ non puotea da loro esser ferito. Lui riposto teneva al fianco il brando, Perche/ avea preso in mente altro partito; Adosso ad un di lor ratto se caccia, E sotto l' anche ben stretto l' abbraccia. Aveano entrambi smisurata lena, Ma pur l' aveva il conte assai maggiore. Leval il conte ad alto e intorno il mena, Ne/ vi valse sua forza, o suo vigore, Che/ lo pose riverso in su l' arena. L' altro gigante con molto furore Di tempestare Orlando mai non resta Da ciascun lato e basso e nella testa. Lui lascia il primo, com' era disteso, E contra a questo tutto se disserra; Si\ come l' altro a ponto l' ebbe preso, E con fraccasso lo messe alla terra. L' altro e\ levato de grande ira acceso: Orlando lascia questo e quello afferra; E mentre che con esso fa battaglia, Levasi il primo e intorno lo travaglia. Ando\ gran tempo a quel modo la cosa, Ne/ se potea sperare il fin giamai; Non puo\ prendere il conte indugia o posa, Che/ sempre or l' uno or l' altro gli da\ guai. Durata e\ gia\ la zuffa dolorosa Piu\ che quattro ore, con tormento assai Per l' uno e l' altro; a benche/ 'l conte Orlando A duo combatte e non adopra il brando. Per non multiplicarli, il cavalliero Batteli a terra e non gli fa morire, Ma per questo non esce del verziero, Ch' e duo giganti il vetano a partire. Lui prese combattendo altro pensiero Subitamente, e mostra di fuggire; Per la campagna va correndo il conte, Ma quei due grandi ritornarno al ponte. Ciascun sopra del ponte ritornava, Come de Orlando non avesse cura; E lui, che spesso in dietro si voltava, Credette che restasser per paura; Ma quella fatason che li creava Quivi li tenea fermi per natura. Sol per diffesa stan di quella porta, E fanno al fiume et al suo ponte scorta. Il conte questo non aveva inteso, Ma via da lor correndo se alontana; Alla valletta se ne va disteso, Che ha 'l bel boschetto a lato alla fontana, Dove la Fauna avea quel laccio teso Per pascerse de sangue e carne umana. Tavole quivi son da tutte bande; Il laccio e\ teso intorno alle vivande. Era quel laccio tutto di catena Come di sopra ancora io v' ho contato. Orlando lo distacca e dietro il mena, Strasinando alle spalle, per il prato: Tanto era grosso, che lo tira appena. Con esso al ponte ne fu ritornato, E pose un de' giganti a forza a terra, E braccie e gambe a quel laccio gl' inferra. Benche/ a cio\ fare vi stesse buon spaccio, Perche/ l' altro gigante lo anoiava; Ma a suo mal grado usci\ di quello impaccio, Et ancora esso per forza atterrava; Come l' altro il lego\ proprio a quel laccio. Ora la porta piu\ non se serrava, E puote Orlando a suo diletto uscire; Quel che poi fece, tornati ad odire. Perche/ se dice che ogni bel cantare Sempre rincresce quando troppo dura, Et io diletto a tutti vi vo' dare Tanto che basta, e non fuor di misura; Ma se verreti ancora ad ascoltare, Racontarovi di questa ventura Che aveti odita, tutto quanto il fine, Et altre istorie belle e pellegrine. Vita zoiosa, e non finisca mai, A voi che con diletto me ascoltati. Segnori, io contaro\ dove io lasciai, Poi che ad odire sete ritornati, Si\ come Orlando con fatica assai Quei duo giganti al ponte avea legati. Vinto ha ogni cosa il franco paladino, Et a sua posta uscir puo\ del giardino. Ma lui tra se/ pensava nel suo core Che se a quel modo fuora se n' andava, Non era ben compito de l' onore, Ne/ satisfatto a quella che 'l mandava; Et era ancora al mondo un grande errore, Se quel giardino in tal forma durava, Che/ dame e cavallier d' ogni contrate Vi erano occisi con gran crudeltate. Pero\ si pose il barone a pensare Se in alcun modo, o per qualche maniera Questo verzier potesse disertare; Cosi\ la lode e la vittoria intiera Ben drittamente acquistata gli pare, Poi che l' usanza dispietata e fiera Che struggea tante gente pellegrine, Per sua virtute sia condutta a fine. Legge il libretto, e vede che una pianta Ha quel giardino in mezzo al tenimento, A cui se un ramo de cima se schianta, Sparisce quel verziero in un momento; Ma di salirvi alcun mai non si vanta, Che non guadagni morte o rio tormento. Orlando, che non sa che sia paura, Destina de compir questa ventura. Ritorna adietro per una vallata, Che proprio ariva sopra al bel palaggio Ove la dama prima avea trovata, Che mirandosi al brando stava ad aggio; E lui li\ presso la lascio\ legata, Come sentesti, a quel tronco di faggio; Cosi\ la ritrovo\ legata ancora: Ivi la lascia e non vi fa dimora. De gionger alla pianta avea gran fretta; Et ecco in mezo di quella pianura Ebbe veduta quella rama eletta, Bella da riguardare oltra misura. D' arco de Turco non esce saetta Che potesse salire a quella altura; Salendo e rami ad alto e' fa gran spaccio, Ne/ volta il tronco alla radice un braccio. Non e\ piu\ grosso, et ha li rami intorno Lunghi e sotili, et ha verde le fronde; Quelle getta e rinova in ciascun giorno, E dentro spine acute vi nasconde. Di vaghe pome d' oro e\ tutto adorno; Queste son grave e lucide e rotonde, E son sospese a un ramo piccolino: Grande e\ il periglio ad esser li\ vicino. Grosse son quanto uno omo abbia la testa, E come alcuno al tronco s' avicina, Pur sol battendo i piedi alla foresta, Trema la pianta lunga e tenerina; E cadendo le pome a gran tempesta, Qualunche e\ gionto da quella roina Morto alla terra se ne va disteso, Perche/ non e\ riparo a tanto peso. Alti li rami son quasi un' arcata; Il tronco da li\ in gioso e\ si\ polito, Che non vi salirebbe anima nata, E se alcun fosse di salire ardito, Non seri\a sostenuto alcuna fiata, Perche/ alla cima non e\ grosso un dito. Ogni cosa sapeva Orlando a ponto: Letto nel libro aveva cio\ che io conto. E lui prende nel cor tanto piu\ sticcia Quanto le cose son piu\ faticose, E per trar questo al fin la mente adriccia. Taglia de un faggio le rame frondose Subitamente, e fece una gradiccia; Crosta di prato e terra su vi pose, Poi sopra alle sue spalle e alla testa Stretta la lega, e va che non s' arresta. Aveva il conte una forza tamanta, Che gia\ portava, come Turpin dice, Una colonna integra tutta quanta D' Anglante a Brava per le sue pendice. Or, come gionto fu sotto la pianta, Tutta tremo\ per sino alla radice. Le sue gran pome, ciascuna piu\ greve, Vennero a terra e spesse come neve. Il conte va correndo tutta fiata, E de gionger al tronco ben s' appresta, Che/ gia\ tutta la terra e\ dissipata, Ne/ manca di cader l' aspra tempesta. Ora era carca tanto quella grata, Che sol di quel gran peso lo molesta, E se ben presto al tronco non ariva, Quella roina della vita il priva. Come fu gionto a quella pianta gaglia, Non vi crediati che voglia montare; Tutta a traverso de un colpo la taglia: La cima per quel modo ebbe a schiantare. Come fu in terra, tutta la prataglia D' intorno intorno comincio\ a tremare; Il sol tutto se asconde e il celo oscura, Coperse un fumo il monte e la pianura. Ove sia il conte non vede ni%ente, Trema la terra con molto romore. Eravi per quel fumo un fuoco ardente, Grande quanto una torre, ancor maggiore; Questo e\ un spirto d' abisso veramente, Che strugge quel giardino a gran furore, E, come al tutto fu venuto meno, Ritorno\ il giorno e fiesse il cel sereno. La pietra che 'l verzier suolea voltare, Tutta e\ sparita e piu\ non se vedia; Ora per tutto si puo\ caminare. Largo e\ il paese, aperto a prateria, Ne/ fonte ne/ palagio non appare; De cio\ che vi era, sol la dama ria, Io dico Falerina, ivi e\ restata, Si\ come prima a quel tronco legata. La qual piangendo forte lamentava, Poi che disfatto vidde il suo giardino. Ne/ come prima tacita si stava Negando dar risposta al paladino; Ma con voce pietosa lo pregava Che aggia {add} merce/ {/add; merce\ Z} del suo caso tapino, Dicendogli: #_ Baron, fior de ogni forte, Ben ti confesso ch' io merto la morte. Ma se al presente me farai morire, Si\ come io ne son degna in veritade, E dame e cavallier farai perire, Che son pregioni, e fia gran crudeltade. Accio\ che intendi quel che ti vo' dire, Sappi che io feci con gran falsitade Questo verziero e cio\ che gli era intorno, In sette mesi; ora e\ sfatto in un giorno. Per vendicarme sol de un cavallero E de una dama sua, falsa, putana, Io feci il bel giardin, che, a dirti il vero, Ha consumata molta gente umana; Ne/ ancora mi basto\ questo verzero: Io feci un ponte sopra a una fiumana, Dove son prese e dame e cavallieri, Quanti ne arivan per tutti e sentieri. Quel cavalliero e\ nomato Ariante, Origilla e\ la falsa che io contai. Or de costoro io non dico piu\ avante, A benche/ vi seri\a da dire assai. Per mia sventura tra gente cotante Alcun de questi duo non gionse mai, E gia\ piu\ gente e\ morta a tal dannaggio Che non ha rami o fronde questo faggio. Perche/ al giardin, che fu meraviglioso, Tutti eran morti quanti ne arivava; Ma il numero piu\ grande e copi%oso, Il ponte ch' io t' ho detto mi mandava, Perche/ avea in guardia un vecchio doloroso, Che molta gente sopra vi guidava. Il ponte non bisogna che io descriva, Ma per se stesso chiude chi ve ariva. Ne/ e\ molto tempo che una incantatrice, Quale e\ figliola del re Galafrone, Che ora col patre, si\ come se dice, Assedi%ata e\ dentro ad un girone, Passando alor di qua, quell' infelice, Al ponte fo condutta dal vecchione, E poi, con modo che io non sazo dire, Partisse, e tutti gli altri fie' fuggire. Ma molti vi ne sono ora al presente, Perche/ ne prende sempre il vecchio assai, E come io sero\ occisa, incontinente Il ponte e lor non si vedran piu\ mai, E meco perira\ cotanta gente: E tu cagion di tutto il mal serai. Ma se mi campi, io ti prometto e giuro Che lasciaro\ ciascun franco e sicuro. E se non da\i al mio parlar credenza, Menami teco, come io son, legata, (Presa o disciolta, io non fo differenza, Che/ ad ogni modo io son vituperata), E disfaro\ la torre in tua presenza, E tutta salvaro\ quella brigata. Piglia il partito, adunque, che ti pare, O fa l' altri morire, o mi campare. $_ Presto questo partito prese il conte, Che/ morta non l' avrebbe ad ogni guisa; Ni per grave dispetto ni per onte Avrebbe Orlando una donzella occisa. D' acordo adunque se ne vanno al ponte, Ma piu\ di lor la istoria non divisa, E torna ove lascio\, poco davante, Marfisa alla battaglia e Sacripante. La zuffa per quel modo era durata, Che io vi contai ne l' assalto primiero; Marfisa di tal arme era adobbata, Che di ferirla non facea mistiero Ponta di lancia ni taglio di spata; E Sacripante aveva il suo destriero Che e\ si\ veloce che si vede apena, Onde la dama indarno e colpi mena. Ma mentre che tra lor sopra quel piano E\ la battaglia de piu\ colpi spessa, A benche/ ciascadun al tutto e\ vano, Che/ essa non no^ce a lui ne/ lui ad essa, Brunello il ladro, il quale era Africano, E fo servente del gran re de Fiessa, Avea passate molte regi%one, E de improviso e\ gia\ gionto al girone. Agramante mando\ questo Brunello, Perche/ davanti a lui se era avantato Venire ad Albraca\ dentro al castello, Ove e\ la dama dal viso rosato, E tuore a lei di dito quello annello, Quale era per tale arte fabricato, Che ciascaduno incanto a sua presenza Perdea la possa con la appariscenza. Fatto era questo per trovar Rugiero, Che era nascoso al monte di Carena, E pero\ questo ladro tanto fiero Vien con tal fretta e tal tempesta mena. Sopra a quel sasso n' andava legiero, Che non vi avria salito un ragno a pena, Pero\ che quel castello in ogni lato A piombo, come muro, era tagliato. E sol da un canto vi era la salita, Tutta tagliata a botta di piccone, E sol da questa e\ la intrata e la uscita, Dove alla guarda stan molte persone; Ma verso il fiume e\ la pietra polita, Ne/ di guardarvi fasse menzi%one, Pero\ che con ingegno ne/ con scale, Ne/ se vi puo\ salir, se non con l' ale. Brunello e\ d' araparsi si\ maestro, Che su ne andava come per un laccio; Tutta quella alta ripa destro destro Montava, e gionse al muro in poco spaccio. A quello ancor se attacca il mal cavestro, Menando ambi dui piedi e ciascun braccio Come egli andasse per una acqua a no^to, Ne/ fu bisogno al suo periglio un voto; Perche/ montava cotanto sicuro, Come egli andasse per un prato erboso. Poi che passato fu sopra del muro, A guisa de una volpe andava ascoso; E non credati che cio\ fosse al scuro, Anci era il giorno chiaro e luminoso; Ma lui di qua e di la\ tanto si cella, Che gionto fu dove era la donzella. Sopra la porta quella dama gaglia Si stava ascesa riguardando il piano, E remirava attenta la battaglia Che avea Marfisa con quel re soprano. Gran gente intorno a lei facea serraglia: Chi parla, e chi fa cenno con la mano, Dicendo: #_ Ecco Marfisa il brando mena, Re Sacripante la campara\ apena. $_ Altri diceva: #_ E' fara\ gran diffese Contra quella crudele il buon guerrero, Pur che non venga con seco alle prese, E guardi che non pe\ra il suo destriero. $_ A questo dire il ladro era palese, Che alla notte aspettar non fa pensiero; Tra quella gente se ne va Brunello Tutto improviso, e prese quello annello. E non l' arebbe la dama sentito, Se non che sbigoti\ della sua faccia. Lui con l' anel che gli ha tolto de dito, Di fuggir prestamente si procaccia, Correndo al sasso dove era salito. Dietro tutta la gente e\ posta in caccia; Che/ Angelica piangendo se scapiglia Cridando: #_ Ahime\ tapina! piglia! piglia! Piglia! piglia! $_ cridava #_ ahime\ tapina! Che/ consumata son, s' el non e\ preso. $_ Ciascun per agradire alla regina A suo poter avrebbe il ladro offeso. Lui passa il muro e salta la roina, Per quella pietra se ne va sospeso, E per la ripa va mutando il passo Come per gradi, e gionge al fiume basso. Ne/ vi crediati che fusse confuso, Benche/ quella acqua sia grossa e corrente: Come un pesce a natare egli era aduso; Entra nel fiume, e di lui par ni%ente. Fuor de l' acqua teniva aponto il muso, E pareva una rana veramente; Quei del castel, guardando in ogni lato E nol veggendo, il credeno affocato. Angelica per questo se dispera, E ben se batte il viso la meschina. Brunello usci\ dapoi della rivera, Per la campagna via forte camina; Gionse dove era la battaglia fiera Tra il re circasso e la forte regina. Ivi firmosse alquanto per mirare, Ma l' uno e l' altro alor se vo^l posare; Perche/ il secondo assalto era bastato, E ciascadun di lor vo^l prender posa. Dicea Brunello: ## Io non sero\ firmato, Che io non guadagni vosco alcuna cosa. Se non vi spoglio, aveti bon mercato; Ma poi che seti gente valorosa, Io voglio usarvi alquanta cortesia: Cio\ che io vi lascio, e\ della robba mia. $# Cosi\ dicea Brunello in la sua mente, E vede a Sacripante quel destriero, Il qual da parte si stava dolente Avendo del suo regno gran pensiero, Che gli parea vedere in foco ardente, Come contato avea quel messaggiero; E tal doglia di questo ha Sacripante, Che non se avede quel che abbi davante. Diceva lo Africano: ## Or che omo e\ questo Che dorme in piede, et ha si\ bon ronzone? Per altra volta io lo faro\ piu\ desto. $# E prese in questo dire un gran troncone, E la cingia disciolse presto presto, E pose il legno sotto dello arcione; Ne/ prima Sacripante se ne avede, Che quel se parte, e lui rimane a piede. A questa cosa mirava Marfisa, Et avea preso tanta meraviglia, Che, come fosse dal spirto divisa, Stringea la bocca et alciava le ciglia. Il ladro la trovo\ tutta improvisa In tal pensiero, e la spata li piglia; Quella attamente li trasse di mano, E via spronando fugge per il piano. Marfisa il segue e cridando il minaccia, #_ Giotton, $_ dicendo #_ e' ti costara\ cara! $_ Ma lui si volta e fagli un fico in faccia; E fuggendo dicea: #_ Cosi\ se impara! $_ Il campo e\ tutto in arme e costui caccia, Cridando: #_ Piglia! piglia! para! para! $_ Ma lui, che si trovava un tal destriero, De lo esser preso avea poco pensiero. Or Sacripante rimase stordito Per meraviglia, e non avria saputo Dire a qual modo sia quel fatto gito, Se non che esso il destriero avea perduto. ## Dove e\ colui, $# dicea ## che m' ha schernito? Or come fece, ch' io non l' ho veduto? Esser non puote che uno inganno tanto Non sia da spirti fatto per incanto. E se gli e\ cio\, mia dama con l' annello Ancor farami avere il bon destriero. Ben mi e\ vergogna: ma quale omo e\ quello Che possa riparare a tal mestiero? $# Cosi\ dicendo tornasi al castello Pensoso, anzi turbato nel pensiero; Ma, come gionto fu dentro alla porta, Angelica trovo\ che e\ quasi morta: Quasi morta di doglia la donzella, Pensando che riceve un tal dannaggio. Re Sacripante per nome l' appella, Dicendo: #_ Anima mia, chi te fa oltraggio? $_ Lei sospirando, piangendo favella, Dicendo: #_ Ormai diffesa piu\ non aggio. Presto nelle sue man me avra\ Marfisa, E sero\ in pena e con tormento occisa. Aggio perduta tutta la diffesa Che aver suoleva a l' ultima speranza, E so che prestamente sero\ presa, E poco tempo de viver me avanza. E tanto questo danno piu\ mi pesa, Quanto io l' ho recevuto come a cianza, E piu\ non sazo, trista, dolorosa, Chi m' abbia tolta cosi\ cara cosa. $_ Non sapea il re di quel fatto ni%ente, Che/ era nel campo, come aveti odito; Ma detto gli fu poi da quella gente Come il ladro l' annel tolse de dito E fuggitte alla ripa prestamente, E fu impossibil de averlo seguito, Perche/ se era gettato giu\ del sasso, Si\ che egli era affocato al fiume basso. Il re diceva: #_ Se Macon mi vaglia, Che costui non deve esser affocato (Cosi\ foss' egli!), perche/ alla battaglia Il mio destrier di sotto m' ha robbato, E fuggito ne e\ via per la prataglia. Benche/ Marfisa l' abbia seguitato, Non sera\ preso, e ben lo so di certo, Che/ del destrier ch' egli ha ne sono esperto. $_ Mentre che tra costor se ragionava, E 'l dir de l' una cosa l' altra spiana, Colui che in guarda a l' alta rocca stava, #_ A l' arme! $_ crida, e suona la campana; E da\ risposta a chi lo dimandava, Che una gran gente ariva in su la piana, Con tante insegne grande e piccoline, Che ne stupisce e non ne vede il fine. Or questa gente che la\ giu\ veni\a, Perche/ sappiati il fatto ben certano, Venuta e\ tutta quanta de Turchia (Qua la conduce il forte Caramano): Ducento millia e piu\ quella zinia, Che con gran cridi se accampa nel piano. Torindo questa gente fa venire, Che/ vo^l vedere Angelica perire. Sono accampati sopra alla pianura, E ciascadun giurando se destina Mai non partirse, che di quella altura Vera\ la rocca al basso con roina. Angelica tremava di paura Veggendosi diserta la meschina, Che/ il campo de' nemici e\ si\ cresciuto; Lei de alcuno altro non aspetta aiuto. Or si va di quel tempo racordando Che la soccorse il franco paladino Con tanti bon guerreri, io dico Orlando, Che avea mandato a quel falso giardino; La fortuna e se stessa biastemando, E l' amor de Ranaldo e il rio destino, Qual l' ha tanto infiammata e tanto accesa, Che gli ha tolto ogni aiuto e ogni diffesa. Sol seco e\ Sacripante, il bon guerriero, Ma questo alla battaglia non uscia, Poi che perduto aveva quel destriero Che contra di Marfisa il mantenia, E stava del suo regno in gran pensiero, Che avea perduto, e in gran malenconia; Ma piu\ pena sentiva e piu\ dolore Veggendo quella dama in tanto errore. Del destriero e del regno che e\ perduto Non avrebbe quel re doglia ne/ cura, Pur che potesse dare alcuno aiuto A quella dama che e\ in tanta paura. Il castel per tre mesi e\ proveduto Di vittualia dentro a l' alte mura; Prima adunque che 'l tempo sia finito, Bisogno e\ di pigliare altro partito. Venne in consiglio lo re Galafrone Col re circasso e sua figlia soprana. Disse quel vecchio: #_ Oditi una ragione, Che/ ogni altra di soccorso mi par vana. Un mio parente tiene la regione Di la\ da l' India, detta Sericana, E lui Gradasso si fa nominare, Qual di prodezza al mondo non ha pare. Settanta dui reami in sua possanza Ha conquistato con la sua persona, E vinto ha tutto il mare e Spagna e Franza; Per lo universo il suo nome risuona. Ora di novo per molta arroganza Ha tolto dal suo capo la corona, Et ha giurato mai non la portare Se non compisce quel ch' egli ha da fare. Perche/ al tempo passato, alora quando Vinse la Franza e prese Carlo Mano, Quel gli promise de mandare un brando Che al mondo non e\ un altro piu\ soprano, Qual era de un baron che ha nome Orlando. Ora ha aspettato molto tempo in vano, Onde destina tornare in Ponente, E prender Carlo e tutta la sua gente. E dentro alla citta\ di Druantuna, Che e\ la sua sedia antiqua e stabilita, Per far passaggio gran gente raduna; E, secondo che intendo per odita, Tanta non ne fui mai sotto la luna Un' altra fiata ad arme insieme unita; Benche/ reputo quella gente a cianza, Dico a rispetto de la sua possanza. Si\ che a camparci de man di Marfisa, Questo serebbe lo optimo rimedio; Ma non ritrovo il modo ne/ la guisa A far sapere a lui di questo assedio; Ch' io so che lui verrebbe alla recisa, Ne/ mai mi lasciarebbe in tanto attedio: Ma non so trovar modo ne/ vedere Che questa cosa gli faccia asapere. $_ Seguiva Galafron con questo dire A Sacripante voltando le ciglia: #_ Tu sei, figliolo, uno omo di alto ardire, E tanto amor mi porti et a mia figlia, Che tu sei posto piu\ volte a morire, Ne/ Mandricardo, che 'l tuo regno piglia, Ne/ il tuo caro Olibandro, che hai perduto, Mai ti puote distor dal nostro aiuto. Dio faccia che una volta meritare Possiamo te con degno guidardone, Ben ch' io non credo mai poterlo fare; Ma cio\ che abbiamo e le proprie persone Seran disposte nel tuo comandare. Cio\ te giuro a la fede di Macone, Che la mia figlia e tutto il regno mio Seran disposti sempre al tuo desio. Ma questo proferirti fia perduto, Che/ sera\ il regno e noi seco diserti, Se non trovamo a qualche modo aiuto; Et io che tutti quanti li aggio esperti E lungamente ho il fatto proveduto E i soccorsi palesi e li coperti, Dico che siamo a l' ultimo perire, Se 'l re Gradasso non se fa venire. Si\ che, figlio mio caro, io te scongiuro Per nostro amore e tua virtu\ soprana, Che non ti para questo fatto duro Di ritrovar Gradasso in Sericana; E questa sera, come il cel sia scuro, Potrai callar nell' oste in su la piana, Che/ quella gente ne stima si\ poco, Che non fa guarda al campo in verun loco. $_ Sacripante non fie' molte parole, Come colui che ha voglia de servire, E de altro nella mente non si dole, Se non che presto non si puo\ partire; Ma come a ponto fu nascoso il sole, E cominciosse il celo ad oscurire, Iscognosciuto, come peregrino, Per mezo l' oste prese il suo camino. Ne/ mai sopra di lui fu riguardato; Va di gran passo e porta il suo bordone, Ma sotto la schiavina e\ bene armato Di bona piastra, et ha il brando al gallone. Rimase Galafrone assedi%ato Con la sua figlia nel forte girone; E Sacripante, che de andare ha cura, Trovo\ nel suo vi%aggio alta ventura. Questa odirete, come l' altre cose Che insieme tutte quante sono agionte. E seran ben delle meravigliose, Perche/ fu in India al Sasso della Fonte; Ma primamente, gente dilettose, Io ve voro\ contar di Rodamonte: Di Rodamonte vo' contarvi in prima, Che una vil foglia il suo Macon non stima, E meno ancor s' accosta ad altra fede: Tien per suo Dio l' ardire e la possanza, E non vo^le adorar quel che non vede. Questo superbo, che ha tanta arroganza, Pigliar soletto tutto il mondo crede, Et al presente vo^l passar in Franza, E prenderla in tre giorni si da\ vanto, Come odirete dir ne l' altro canto. Convienmi alciare al mio canto la voce, E versi piu\ superbi ritrovare; Convien ch' io meni l' arco piu\ veloce Sopra alla lira, perch' io vo' contare De un giovane tanto aspro e si\ feroce, Che quasi prese il mondo a disertare: Rodamonte fu questo, lo arrogante, Di cui parlato ve ho piu\ volte avante. Alla cita\ d' Algeri io lo lasciai, Che di passare in Franza se destina, E seco del suo regno ha gente assai: Tutta e\ alloggiata a canto alla marina. A lui non par quella ora veder mai Che pona il mondo a foco et a roina, E biastema chi fece il mare e il vento, Poi che passar non puote al suo talento. Piu\ de un mese di tempo avea gia\ perso De quindi in Sarza, che e\ terra lontana, E poi che e\ gionto, egli ha vento diverso, Sempre Greco o Maestro o Tramontana; Ma lui destina o ver di esser sumerso, O ver passare in terra cristi%ana, Dicendo a' marinari et al patrone Che vo^l passare, o voglia il vento, o none. #_ Soffia, vento, $_ dicea #_ se sai soffiare, Che/ questa notte pure ne vo' gire; Io non son tuo vassallo e non del mare, Che me possiati a forza retenire; Solo Agramante mi puo\ comandare, Et io contento son de l' obidire: Sol de obedire a lui sempre mi piace, Perche/ e\ guerrero, e mai non amo\ pace. $_ Cosi\ dicendo chiamo\ un suo parone Che e\ di Moroco et e\ tutto canuto; Scombrano chiamato era quel vecchione, Esperto di quella arte e proveduto. Rodamonte dicea: #_ Per qual cagione M' hai tu qua tanto tempo ritenuto? Gia\ son sei giorni, a te forse par poco, Ma sei Provenze avria gia\ posto in foco. Si\ che provedi alla sera presente Che queste nave sian poste a passaggio, Ne/ volere esser piu\ di me prudente, Che/, s' io me anego, mio sera\ il dannaggio; E se perisce tutta l' altra gente, Questo e\ il minor pensier che nel core aggio, Perche/, quando io sero\ del mare in fondo, Voria tirarmi adosso tutto il mondo. $_ Rispose a lui Scombrano: #_ Alto segnore, Alla partita abbiam contrario vento; Il mare e\ grosso e vien sempre maggiore. Ma io prendo de altri segni piu\ spavento, Che/ il sol callando perse il suo vigore, E dentro a i novaloni ha il lume spento; Or si fa rossa or pallida la luna, Che senza dubbio e\ segno di fortuna. La fulicetta, che nel mar non resta, Ma sopra al sciutto gioca ne l' arena, E le gavine che ho sopra alla testa, E quello alto aeron che io vedo apena, Mi da\nno annunzio certo di tempesta; Ma piu\ il delfin, che tanto se dimena, Di qua di la\ saltando in ogni lato, Dice che il mare al fondo e\ conturbato. E noi se partiremo al celo oscuro, Poi che ti piace; et io ben vedo aperto Che siamo morti, e de cio\ te assicuro; E tanto di questa arte io sono esperto, Che alla mia fede te prometto e giuro, Quando proprio Macon mi fe/sse certo Ch' io non restassi in cotal modo morto, #" Va tu, $" direbbi #" ch' io mi resto in porto. $" $_ Diceva Rodamonte: #_ O morto o vivo, Ad ogni modo io voglio oltra passare, E se con questo spirto in Franza arivo, Tutta in tre giorni la voglio pigliare; E se io vi giongo ancor di vita privo, Io credo per tal modo spaventare, Morto come io sero\, tutta la gente, Che fuggiranno, et io sero\ vincente. $_ Cosi\ de Algeri usci\ del porto fuore Il gran naviglio con le vele a l' orza; Maestro alor del mare era segnore, Ma Greco a poco a poco se rinforza; In ciascaduna nave e\ gran romore, Che/ in un momento convien che si torza: Ma Tramontana e Libezzo ad un tratto Urtarno il mare insieme a rio baratto. Allor se cominciarno e cridi a odire, E l' orribil stridor delle ritorte; Il mar comincio\ negro ad apparire, E lui e il celo avean color di morte; Grandine e pioggia comincia a venire, Or questo vento or quel si fa piu\ forte; Qua par che l' unda al cel vada di sopra, La\ che la terra al fondo se discopra. Eran quei legni di gran gente pieni, De vittuaglia, de arme e de destrieri, Si\ che al tranquillo e ne' tempi sereni Di bon governo avean molto mestieri; Or non vi e\ luce fuor che di baleni, Ne/ se ode altro che troni e venti fieri, E la nave e\ percossa in ogni banda: Nullo e\ obedito, e ciascadun comanda. Sol Rodamonte non e\ sbigotito, Ma sempre de aiutarse si procaccia; Ad ogni estremo caso egli e\ piu\ ardito, Ora tira le corde, or le dislaccia; A gran voce comanda et e\ obedito, Perche/ getta nel mare e non minaccia; Il cel profonda in acqua a gran tempesta, Lui sta di sopra e cosa non ha in testa. Le chiome intorno se gli odi\an suonare, Che erano apprese de l' acqua gelata; Lui non mostrava de cio\ piu\ curare, Come fusse alla ciambra ben serrata. Il suo naviglio e\ sparso per il mare, Che insieme era venuto di brigata, Ma non puote durare a quella prova: Dov' e\ una nave, l' altra non si trova. Lasciamo Rodamonte in questo mare, Che dentro vi e\ condutto a tal partito: Ben presto il tutto vi voro\ contare; Ma perche/ abbiati il fatto ben compito, Di Carlo Mano mi convien narrare, Che avea questo passaggio presentito, E benche/ poco ne tema o ni%ente, Avea chiamata in corte la sua gente. E disse a lor: #_ Segnori, io aggio nova Che guerra ci vuol fare il re Agramante. Ne/ lo spaventa la dolente prova, Ove fur morte de sue gente tante; Ne/ par che dalla impresa lo rimova L' esempio de suo patre e de Agolante, Che morti fur da noi con vigoria: Or ne viene esso a fargli compagnia. Ma pure in ogni forma ce bisogna Guarnir per tutto il regno a bona scorta, Perche/, oltra al vituperio e alla vergogna, La trista guarda spesso danno porta. Costor verranno o per terra in Guascogna, O per mare in Provenza, o ad Acquamorta, E pero\ voglio che con gente armata Ogni frontiera sia chiusa e guardata. $_ Poi che ebbe detto, chiama il duca Amone, Et a lui disse: #_ Poi che se ne e\ andato Quel tuo figliol, che fu sempre un giottone, Farai che Montealban sia ben guardato. Manda tua gente fore a ogni cantone, E fa che incontinente io sia avisato Cio\ che se faccia in terra et in marina Per tutta Spagna, dove te confina. La\ son toi figli; ogniuno e\ bon guerrero, Si\ che non te bisogna una gran gente; Se pure aiuto te fara\ mestiero, Io commetto ad Ivone, il tuo parente, E qui presente impono ad Angelero Che ciascadun te sia tanto obediente Come proprio {add} seriano {/add; seri\ano Z} a mia persona, Sotto a l' oltraggio di questa corona. Cosi\ Guielmo, il sir de Rosiglione, Et Ariccardo, quel di Perpignano, Con tutte le sue gente e sue persone Vengano ad aloggiare a Montealbano. $_ Di questo non si fece piu\ sermone; Lo imperator, rivolto a l' altra mano, Disse: #_ Segnori, or con piu\ providenza Convien guardarsi il mar verso Provenza. Pero\ voglio che il duca de Bavera Di quella regi%one abbia la impresa: In mare, in terra tutta la rivera Contra questi Africani abbia diffesa. Benche/ sia cosa facile e leggiera Vetare a' Saracin la prima scesa, La gran fatica fia de indovinare Il loco a ponto ove abbino a smontare. Per questo voglio che con seco mena Tutti quattro i suoi figli a quel riparo, Et oltra a questi il conte de Lorena, Dico Ansuardo, il mio paladin caro, E Bradiamante, la dama serena, Che/ di Ranaldo vi e\ poco divaro Di ardire e forza a questa sua germana; Cosi\ Dio sempre me la guardi sana! Et Amerigo, duca di Savoglia, E Guido il Borgognon vada in persona, E la sua gesta seco si raccoglia Roberto de Asti e Bovo de Dozona. Chi non obedira\, sia chi si voglia, Sera\ posto ribello alla corona. Ora, Naimo mio caro, intendi bene: Tenire aperti gli occhi ti conviene. In molte parte te convien guardare Per non essere accolto allo improviso, Che/, stu li lasci a terra dismontare, Non andara\ la cosa piu\ da riso. Tien la vedetta per terra e per mare, E fa che de ogni cosa io n' abbia aviso, Ch' io staro\ sempre in campo proveduto A dare, ove bisogni, presto aiuto. $_ Fu in cotal forma il consiglio fermato, Si\ come avea disposto Carlo Mano, E ciascadun da lui tolse combiato, Et ando\ il duca Amone a Montealbano, Da molti bon guerreri accompagnato; E il duca Naimo per monte e per piano, Con pedoni e cavalli in quantitade, Gionse in Marsiglia dentro alla citade. Trenta migliara avea de cavallieri, Et ha vinti migliara de pedoni; E tra lor cominciarno a far pensieri Qual terra ciascadun de quei baroni Tenesse al suo governo volentieri; Ne/ gia\ vi fo^r tra lor contenzi%oni, Ma ciascun, come a Naimo fu in talento, Prese la guarda e rimase contento. Torniamo a Rodamonte, che nel mare Ha gran travaglia contra alla fortuna; La notte e\ scura e lume non appare De alcuna stella, e manco della luna. Altro non se ode che legni spezzare L' un contra a l' altro per quella onda bruna, Con gran spaventi e con alto romore: Grandine e pioggia cade con furore. Il mar se rompe insieme a gran ruina, E 'l vento piu\ terribile e diverso Cresce d' ognor e mai non se raffina, Come volesse il mondo aver somerso. Non sa che farsi la gente tapina, Ogni parone e marinaro e\ perso; Ciascuno e\ morto e non sa che si faccia: Sol Rodamonte e\ quel che al cel minaccia. Gli altri fan voti con molte preghiere, Ma lui minaccia al mondo e la natura, E dice contra Dio parole altiere Da spaventare ogni anima sicura. Tre giorni con le notte tutte intiere Sterno abattuti in tal disaventura, Che non videro al cielo aria serena, Ma instabil vento e pioggia con gran pena. Al quarto giorno fu maggior periglio, Che/ stato tal fortuna ancor non era, Perche/ una parte di quel gran naviglio Condotta e\ sotto Monaco in rivera. Quivi non vale aiuto ne/ consiglio; Il vento e la tempesta ognior piu\ fiera Ne l' aspra rocca e nel cavato sasso Batte a traverso e legni a gran fracasso. Oltra di questo tutti e paesani, Che cognobber l' armata saracina, Cridando: #_ Adosso! adosso a questi cani! $_ Callarno tutti quanti alla marina, E ne' navigli non molto lontani Foco e gran pietre gettan con roina, Dardi e sagette con pegola accesa; Ma Rodamonte fa molta diffesa. Nella sua nave alla prora davante Sta quel superbo, e indosso ha l' armatura, E sopra a lui piovean saette tante E dardi e pietre grosse oltra a misura, Che sol dal peso avrian morto un gigante; Ma quel feroce, che e\ senza paura, Vo^l che 'l naviglio vada, o male o bene, A dare in terra con le vele piene. Aveano e suoi di lui tanto spavento, Che ciascaduno a gran furia se mosse, Et ogni nave al suo comandamento Sopra alla spiagia alla prora percosse. Traeva Mezodi\ terribil vento Con spessa pioggia e con grandine grosse; Altro non se ode che nave strusire Et alti cridi e pianti da morire. Di qua di la\ per l' acqua quei pagani Con l' arme indosso son per anegare, E gettan frezze e dardi in colpi vani; Mai non li lascia quella unda fermare. In terra stanno armati e paesani, Ne/ li concedon ponto a vicinare, E di Monico usci\, che piu\ non tarda, Conte Arcimbaldo e la gente lombarda. Questo Arcimbaldo e\ conte di Cremona, E del re Desiderio egli era figlio; Gagliardo a meraviglia di persona, Scaltrito, e della guerra ha bon consiglio. Costui la rocca a Monico abandona Sopra un destrier coperto di vermiglio, E con gran gente calla alla riviera, Ove apizzata e\ la battaglia fiera. A Monico il suo patre l' ha mandato, Ch' e\ sopra alle confine di Provenza, Perche/ intenda le cose in ogni lato, E da\lli avviso in ciascuna occorrenza. Il re dentro a Savona era fermato, Dov' ha condutta tutta sua potenza Con bella gente per terra e per mare, Che/ ad Agramante il passo vo^l vetare. Ora Arcimbaldo con molti guerrieri, Come io vi dico, sopra al mar discese, E fie' tre schiere de' suoi cavallieri, E sopra al litto aperto le distese. Esso con soi pedoni e ballestrieri Ando\ in soccorso a questi del paese, Dove e\ battaglia orribile e diversa, Benche/ l' armata sia rotta e somersa. Che/ Rodamonte, orrenda creatura, Fa piu\ lui sol che tutta l' altra gente; Egli e\ ne l' acqua fino alla centura, Adosso ha dardi e sassi e foco ardente. Ciascaduno ha di lui tanta paura, Che non se gli avicina per ni%ente, Ma da largo cridando con gran voce Con lancie e frizze quanto puo\ li no^ce. Esso rassembra in mezo al mar un scoglio, E con gran passo alla terra ne viene, E per molta superbia e per orgoglio Dove e\ piu\ dirupato il camin tiene. Or, bei Segnori, io gia\ non vi distoglio Ch' e Cristian non se adoprassen bene; Ma non vi fo remedio a quella guerra: Al lor dispetto lui discese in terra. Dietro vi viene di sua gente molta, Che da le nave e da i legni spezzati Mezo somersa insieme era ricolta, A benche/ molti ne erano affondati, Che/ non ne campo\ il terzo a questa volta; E questi che alla terra {add} e\no {/add; eno Z} arivati, Son sbalorditi si\ dalla fortuna, Che non san s' egli e\ giorno o notte bruna. Ma tanto e\ forte il figlio de Uli%eno, Che tutta la sua gente tien diffesa, Come fu gionto asciutto nel terreno, E comincia dapresso la contesa; Tra' Cristi%an facea ne/ piu\ ne/ meno Che faccia il foco nella paglia accesa, Con colpi si\ terribili e diversi Che in poco d' ora quei pedon dispersi. In quel tempo Arcimbaldo era tornato, Per condur sopra al litto e cavallieri, E giu\ callava in ordine avisato, Come colui che sa questi mestieri. Ogni penone al vento e\ dispiegato, Di qua di la\ se alciarno e cridi fieri; Il conte di Cremona avanti passa, Ver Rodamonte la sua lancia abassa. Fermo in due piedi aspetta lo Africante; Arcimbaldo lo giunse a mezo il scudo, E non lo mosse ove {add} tenia {/add; teni\a Z} le piante, Benche/ fu il colpo smisurato e crudo; Ma il Saracin, che ha forza de gigante, E teneva a due mane il brando nudo, Ferisce lui d' un colpo si\ diverso, Che taglio\ tutto il scudo per traverso. Ne/ ancor per questo il brando se arrestava, Benche/ abbia quel gran scudo dissipato, Ma piastra e maglia alla terra menava, E fecegli gran piaga nel costato. Certo Arcimbaldo alla terra n' andava, Se non che da sua gente fu aiutato, E fu portato a Monico alla rocca, Come se dice con la morte in bocca. Tutti quei paesani e ogni pedone Fo^r da' barbari occisi in su l' arena, Che eran sei miglia e seicento persone: Non ne campa^r quarantacinque apena. Li cavallier fuggi^r tutti al girone: Non dimandar s' ogniom le gambe mena; Ma se quei saracini avean destrieri, Perian con gli altri insieme e cavallieri. Sino al castel fu a lor data la caccia, Poi giu\ callarno quei pagani al mare, Il quale era tornato ora a bonaccia: Qua Rodamonte li fece aloggiare. Ciascun de aver la robba se procaccia Che somersa da l' onde al litto appare; Tavole e casse et ogni guarnimento Sopra a quella acqua va gettando il vento. Fo^r le sue nave intra grosse e minute Che se parti^r de Algier cento novanta; Meglio guarnite mai non fo^r vedute Di bella gente e vittuaglia tanta; Ma piu\ che le due parte eran perdute, Ne/ se atrovarno a Monico sessanta; E queste piu\ non son da pace o guerra, Che/ 'l piu\ de loro avean percosso in terra. Morti eran tutti quanti e lor destrieri, E perduta ogni robba e vittuaglia; Rodamonte al tornar non fa pensieri, Ne/ stima tutto il danno una vil paglia. Va confortando intorno e suoi guerreri Dicendo: #_ Compagnoni, or non vi incaglia Di quel che tolto ce ha fortuna o mare, Che/ per un perso, mille io vi vuo' dare. E quivi non farem lungo dimoro, Che/ povra gente son questi villani. Io vo' condurvi dove e\ il gran tesoro, Giu\ nella ricca Francia a i grassi piani. Tutti portano al collo un cerchio d' oro, Come vedreti, questi fraudi cani, Si\ che del perso non vi dati lagno, Che/ noi siam gionti al loco del guadagno. $_ Cosi\ la gente sua va confortando Re Rodamonte con parlare ardito; Questo e quello altro per nome chiamando, Gli invita a riposar sopra a quel lito. Or de Arcimbaldo vi verro\ contando, Che nel castel di Monico e\ fuggito, Rotto e sconfitto et a morte piagato, Come di sopra a ponto io ve ho contato. Come alla rocca fu dentro alle mura, Al patre un messaggiero ebbe mandato, Che gli contasse di questa sciagura El fatto tutto, come era passato. De avvisar Naimo ancora ha preso cura, Qual gia\ dentro a Marsilia era arivato, E mando\ ad esso un altro messaggiero, Che gli raconta il fatto tutto intero. Re Desiderio fu molto dolente, Quando egli intese la novella fiera; Uscitte de Savona incontinente, Spiegando al vento sua real bandiera; A Monico ne vien con la sua gente. Da l' altra parte il duca di Bavera Si mosse di Marsilia con gran fretta, Per far de' Saracini aspra vendetta. Ciascuna schiera a gran furia camina, Dico Francesi e gente itali%ana, E l' una vidde l' altra una matina Da due vallette non molto lontana. In mezo e\ Rodamonte alla marina, Dove accampata ha sua gente africana. Quel forte saracin dal crudo guardo Vidde nel monte gionto il re lombardo, Con tante lancie e con tante bandiere Che una selva de abeti se mostrava; Tutta coperta di piastre e lamiere La bella gente il poggio alluminava. Cridando Rodamonte in voce altiere Chiama sua gente e l' armi dimandava, E in un momento fu tutto guarnito Di piastra e maglia il giovanetto ardito. Fuor salta a piedi, e non avea destriero, Che/ per fortuna l' ha perso nel mare. Or se leva a sue spalle il crido fiero Per l' altra gente che nel poggio appare, Io dico Naimo, Ottone e Belengiero, Che d' altra parte vengono arivare, Roberto de Asti e 'l conte di Lorena Con Bradamante, che la schiera mena. Avanti a gli altri vien quella donzella, E bene al suo german tutta assomiglia; Proprio assembra Ranaldo in su la sella, E di bellezza e\ piena a meraviglia. Costei mena la schiera a gran flagella; Ma Rodamonte, levando le ciglia, Gionta la gente vede in ogni lato, Che quasi intorno l' ha chiuso e serrato. A' suoi rivolto con la faccia oscura, Disse: #_ Prendeti qual schiera vi piace, O questa o quella, ch' io non ne do cura; L' altra soletto, per lo Dio verace, Voglio mandare in pezzi alla pianura. $_ Cosi\ parlava quel giovane audace, Ma la sua gente, che ha per lui gran core, Verso e Lombardi e\ mossa con furore. Trombe e tamburi a un tratto e cridi altieri Oditi fo^rno intorno ad ogni lato; Re Desiderio e' soi bon cavallieri Mena a roina il popol rinegato; A benche/ e Saracin eran si\ fieri Per la prodezza del suo re appregiato, Che, ancor che fusser de' Lombardi meno, Perdiano a palmo a palmo il suo terreno. Ma in questo loco e\ la battaglia zanza, Dico a rispetto de l' altra vicina, Dove contra ai baron che eran di Franza Combatte Rodamonte a gran roina. Costui ben certo di prodezza avanza Quanti fo^r mai di gente saracina; In guerra non fu mai tanto fraccasso, Pero\ contar lo voglio a passo a passo. Il duca Naimo, che e\ saggio e prudente, Come vede e nemici alla pianura, Fermo\ sopra del monte la sua gente, E divisela in terzo per misura. La schiera che veni\a primeramente, Fu Bradiamante, ch' e\ senza paura; La figliola de Amon, quella rubesta, Veni\a spronando con la lancia a resta. E seco al paro il conte de Lorena, Cio\ fu Ansuardo, de battaglia esperto, Che giu\ callando gran tempesta mena, E 'l conte de Asti, quel franco Roberto. Questa e\ la prima schiera, che e\ ben piena: Sedeci millia e piu\ son per il certo. Poi mosse la seconda con gran crido, Sotto il duca Americo e il duca Guido. L' un di Savoia e l' altro e\ di Bergogna, Ciascadun d' essi ha piu\ franca persona. Contarvi e capitani mi bisogna: Con loro e\ gionto Bovo di Dozona; Per fare a' Saracini onta e vergogna, Questa schiera seconda s' abandona; La terza guida Naimo il bon vecchione, E Avorio e Avino e Belengiero e Ottone. Il padre e' quatro figli a questa schiera Son posti di quel campo al retroguardo, Con tutta la sua gente di Baviera. Ora tornamo al saracin gagliardo, Che non avea stendardo ne/ bandiera, Ma tutto solo a mover non fu tardo Contra alla gente che il monte discende; Solo et a piede la battaglia prende. Piacciavi, bei segnor, di ritornare Ad ascoltar la zuffa che io vo' dire, Che/ se mai prove odesti racontare E colpi orrendi e diverso ferire, E gente rotte a terra trabuccare, Tutto e\ ni%ente a quel ch' io vo' seguire. Nel fin del canto tornero\ ad Orlando: Adio, segnori; a voi mi racomando. Non fu, signor, contato piu\ giamai Battaglia si\ diversa e tanto orribile, Perche/, come di sopra io vi contai, Rodamonte di Sarza, quel terribile, Contra de Naimo, che avea gente assai, Solo e\ afrontato, che e\ cosa incredibile; Ma Turpin, che dal ver non se diparte, Per fatto certo il scrisse alle sue carte. Ne/ so se 'l fu piacer del celo eterno Donar tanta prodezza ad un Pagano, O se 'l demonio, uscito dell' inferno, Combattesse per lui quel giorno al piano; E' pose nostra gente in tal squaderno, Che non fu data, al ricordare umano, Cotal sconfitta a nostra gente santa, Quale in quel giorno che il mio dir vi canta. Tutte le schiere, come io ve ho contato, Giu\ della costa son callate al basso; Da l' altra parte Rodamonte armato Ha fesa la battaglia a gran fraccasso. La nostra gente come erba di prato Taglia a traverso e manda morta al basso; Pedoni e cavallier, debili e forti L' un sopra a l' altro van spezzati e morti. Sempre ferendo va quello africante Dritti e roversi, e cridando minaccia; Egli ha i nemici di dietro e davante, Ma lui col brando se fa ben far piaccia. Ecco gionta alla zuffa Bradamante, Quella donzella ch' e\ di bona raccia; Come fu\lgor del cielo, o ver saetta, Ver Rodamonte la sua lancia assetta. Dal lato manco il gionse nel traverso E passo\ il scudo questa dama ardita, E quasi a terra lo mando\ riverso, Benche/ non fece a quel colpo ferita; Che/ 'l saracin, che fu tanto diverso, Et avea forza incredibile e infinita, Portava sempre alla battaglia indosso Un cor di serpe, mezo palmo grosso. Ma non di manco pur fo per cadere, Come io ve dissi, per quella incontrata, Quando la dama che ha tanto potere Lo feri\ al fianco con lancia arrestata; Tutta la gente che l' ebbe a vedere, Levo\ gran crido e voce smisurata; Ne/ gia\ per questo al pagan se avicina, Ma sol cridando aiuta la fantina. Lei gia\ rivolto ha il suo destrier coperto, E torna adosso a quel saracin crudo. Or fuor de schiera usci\ il conte Roberto E feri\ Rodamonte sopra il scudo, Et Ansuardo de battaglia esperto, Egli sprona anco adosso a brando nudo; Onde la gente, che ha ripreso core, Tutta se mosse insieme a gran furore, #_ Adosso! adosso! $_ ciascadun cridando, Con sassi e lancie e dardi oltra misura. Rideva il saracin questo mirando, Come colui che fu senza paura; Mena a traverso il furi%oso brando, E gionse proprio a loco di cintura Quello Ansuardo, conte di Lorena, E morto a terra il pose con gran pena. Mezo alla terra e mezo nell' arcione Rimase il busto di quel paladino: Non fu mai vista tal destruzi%one. A Brandimante mena il saracino; Lei non accolse, ma gionse il ronzone, Che era coperto de usbergo acciarino; Non giova usbergo ne/ piastra ne/ maglia, Che/ col e spalle a quel colpo li taglia. Onde rimase a terra la donzella, Che/ 'l suo destriero e\ in duo pezi partito. Adosso a gli altri il saracin martella; Roberto, il conte de Asti, ebbe cernito: De un colpo il fende insino in su la sella. Alor fu ciascaduno sbigotito, Mirando il colpo di tanta tempesta: Chi puo\ fuggire, in quel campo non resta. Rimase, com' io dico, Brandimante Col destrier morto adosso in su l' arena Tra quelle genti occise, che eran tante, Che piu\ morta che viva era con pena. E Rodamonte, busto de gigante, Col brando tutto il resto a morte mena; Sempre alla folta in mezzo e\ il gran pagano, E manda pezzi da ogni banda al piano. Pezzi de omini armati e de destrieri Da ciascun canto in su la terra manda: Contarvi e colpi non vi fa mestieri, Ne/ quanto sangue per terra si spanda. Vanno a fraccasso e nostri cavallieri, Ciascun fuggendo a Dio si racomanda; Et a dir presto e ben la cosa intera, Tutta a roina e\ gia\ la prima schiera. E gionto e\ quel pagano alla seconda, E rinovata e\ qui l' aspra battaglia, Che/ gente sopra a gente piu\ ve abonda, E fatto ha intorno al saracin serraglia; Ma lui col brando tutti li profonda, E men gli stima che un covon de paglia. Il duca Naimo, che ogni cosa vede, Per la gran doglia di morir se crede. #_ Segnor del cel, $_ dicea #_ se alcun peccato Contra de noi la tua iustizia inchina, Non dar l' onore a questo rinegato, Che cosi\ strazia tua gente meschina! $_ Questo dicendo, un messo ebbe mandato, Che racontasse a Carlo la roina Che era incontrata, e dimandasse aiuto, Benche/ se tenga ormai morto e perduto, Poi che 'l pagano ha si\ franca persona, Che non trova riparo a sua possanza. Ecco scontrato ha Bovo de Dozona, E tutto feso l' ha fin nella panza. Sua gente morto in terra lo abandona, E ciascadun che avea prima baldanza, Veggendo il colpo orrendo oltra al dovere, Volta le spalle e fugge a piu\ potere. Ma sempre a loro e\ in mezo il pagan fiero: Tutti li occide senza alcun riguardo. Chi fugge a piede, e chi fugge a destriero, Ma nanti al saracin ciascuno e\ tardo, Che/ Rodamonte e\ si\ presto e legiero, Che al corso avea piu\ volte gionto un pardo. Non vi giova fuggire e non diffesa: Tutti li manda morti alla distesa. Come al decembre il vento che s' invoglia, Quando comincia prima la freddura: L' arbor se sfronda e non vi riman foglia; Cosi\ van spessi e morti a la pianura. Ecco Americo, il duca di Savoglia, Ch' e\ rivoltato in sua mala ventura, E gionse a mezo il petto lo Africano, Roppe sua lancia, e fu quel colpo vano; Che/ a lui feri\ il pagan sopra la testa, E tutto il parte insin sotto al gallone. Or fugge ciascaduno e non se arresta; Mai non se vidde tal confusi%one. Il duca Naimo una grossa asta arresta, E move la sua schiera il bon vecchione, E seco ha quattro figli, ogniom piu\ fiero, Avino, Avorio, Ottone e Belengiero. Cresce la zuffa e il crido se rinova, E levasi il rumore e 'l gran polvino. Primeramente Avorio il pagan trova, E ben rompe sua lancia il paladino; Ma Rodamonte sta fermo alla prova, E non se piega il forte saracino; E similmente nel colpir de Ottone Stette in duo piedi saldo al parangone. L' un dopo l' altro Avino e Belengero A lui feriano adosso arditamente, E scontro\ Naimo ancora, il buon guerriero; Ma, come gli altri, pur fece ni%ente. Al quinto colpo quel saracin fiero Alcio\ la faccia a guisa de serpente; Crollando il capo disse: #_ Via, canaglia! Che/ tutti non valeti un fil di paglia. $_ Ne/ piu\ parole; ma del brando mena, E gionse nella testa al franco Ottone. Come a Dio piacque e sua Matre serena, Voltosse il brando e colse de piattone, E fo quel colpo di cotanta pena, Che tramortito lo trasse d' arzone; Ne/ sopra a questo il saracin se arresta, Ma da\ tra gli altri e mena gran tempesta. E misse a terra duo de quei gagliardi, Avorio e Belengier, feriti a morte; E gli altri tutti, e nobili e codardi, Seriano occisi da quel pagan forte, Se Desiderio e' suoi franchi Lombardi Non avesser turbata quella sorte, Perche/ a quel tempo con sua gente scorta La ria canaglia avea sconfitta e morta; E gionto era alle spalle al saracino, Che roi%nando gli altri avanti caccia E gia\ per terra avea disteso Avino, Ferito crudelmente nella faccia. Come un gran vento nel litto marino Leva l' arena e il campo avanti spaccia, Cosi\ quel crudo con la spada in mano Tutta la gente manda morta al piano. Per l' aria van balzando maglie e scudi, Et elmi pien di teste, e braccie armate, Ma benche/ taglia come corpi nudi Sbergi e lameri e le piastre ferrate, Pur rivoltava spesso gli occhi crudi Alle sue gente rotte e dissipate, E tutta via mirando alla sua schiera, Facea battaglia avanti orrenda e fiera. Quale il forte leone alla foresta, Che sente alle sue spalle il cacciatore, Squassando e crini e torzendo la testa Mostra le zanne e rugge con terrore; Tal Rodamonte, odendo la tempesta Che faceano e Lombardi, e 'l gran furore Della sua gente rotta e posta in caccia, Rivolta a dietro la superba faccia. Sua gente fugge, e chi piu\ puo\ sperona: Beato se {add} tenia {/add; teni\a Z} chi era il primiero. Re Desiderio mai non li abandona, Anci li caccia per stretto sentiero. A lui davanti e\ il conte di Cremona, Qual fu suo figlio e fu bon cavalliero, Dico Arcimbaldo, e seco a mano a mano Vien Rigonzone, il forte parmesano. Era costui feroce oltra a misura, Ma legier di cervel come una paglia; O ver guarnito, o senza l' armatura, Battendo gli occhi intrava alla battaglia; Ne/ della vita ne/ de onor si cura, Che/ sua ballestra non avea serraglia, Dico, perche/ scoccava al primo tratto: A dire in summa, el fu gagliardo e matto. Or questi duo la gente saracina, Dico Arcimbaldo insieme e Rigonzone, Cacciano in rotta con molta roina. Del re di Sarza in terra e\ 'l confalone, Ch' era vermiglio, e dentro una regina, Quale avea posto il freno ad un leone: Questa era Doralice de Granata, Da Rodamonte piu\ che il core amata. Pero\ ritratta nella sua bandiera La portava quel re cotanto atroce, Si\ naturale e proprio come ella era, Che altro non li manca che la voce. E lei mirando, alla battaglia fiera Piu\ ritornava ardito e piu\ feroce, Che/ per tal guardo sua virtu\ fioriva, Come l' avesse avante a gli occhi viva. Quando la vidde alla terra caduta, Mai fu nella sua vita piu\ dolente; La fiera faccia di color si muta, Or bianca ne vien tutta, or foco ardente. Se Dio per sua pietate non ce aiuta, Perduto e\ Desiderio e la sua gente, Perche/ il pagano ha furia si\ diversa, Che nostra gente fia sconfitta e persa. Questa battaglia tanto sterminata Tutta per ponto vi verro\ contando, Ma piu\ non ne vo' dire in questa fiata, Perche/ tornar conviene al conte Orlando, Quale era gionto al fiume della fata, Si\ come io vi lasciai alora quando Con Falerina se pose a camino, Poi che disfatto fu quel bel giardino: Quel bel giardino ove era guardi%ano Il drago, il toro e l' asinello armato, E quel gigante, che era ucciso in vano Come di sopra vi fu racontato. Tutto il disfece il senator romano, Benche/ per arte fosse fabricato, Et alla dama poi dette perdono, Per trar dal ponte quei che presi sono: Quei cavallier, che presi erano al ponte Dal vecchio ingannator, come io contai. Quivi n' andava drittamente il conte, Per trar cotanta gente di tal guai, Via caminando per piani e per monte; Con seco e\ Falerina sempre mai, A piede, come lui, ne/ piu\ ne/ meno, Che/ non avean destrier ne/ palafreno. Perduto aveva il conte Brigliadoro, Come sapiti, e insieme Durindana; Or, cosi\ andando a pie\ ciascun de loro, Gionsero un giorno sopra alla fiumana, Ove la falsa Fata del Tesoro Avea ordinata quella cosa strana, Piu\ strana e piu\ crudel che avesse il mondo, Perche/ il fior de' baroni andasse al fondo. Fu profondato quivi il fio de Amone, Come di sopra odesti raccontare, E seco Iroldo e l' altro compagnone, Che ancor mi fa pietate a ricordare; Ne/ dopo molto vi gionse Dudone, Il qual veni\a questi altri a ricercare, Che/ comandato li avea Carlo Mano Che trovi Orlando e il sir de Montealbano. Caminando il baron senza paura, Cercato ha quasi il mondo tutto quanto; E, come volse la mala ventura, Gionse a quel lago fatto per incanto, Ove Aridano, orrenda creatura, Cotanta gente avea condutta in pianto, Perche/ ogni cavalliero e damigella Getta nel lago la persona fella. Cosi\ fu preso e nel lago gettato Dudone il franco, e non vi ebbe diffesa, Perche/ Aridano in tal modo e\ fatato, Che ciascadun che avea seco contesa, Sei volte era di forza superchiato, Onde veniva ogni persona presa; Perche/, se alcun baron ha ben possanza, E lui sei tanta di poter lo avanza. Tanta fortezza avea quel disperato Che, come spesso se potea vedere, Natava per quel lago tutto armato, E tornava dal fondo a suo piacere; E quando alcuno avesse profondato, Giu\ se callava senz' altro temere, E poi, notando per quella acqua scura, Di lor portava a soma l' armatura. E tanto era superbo et arrogante, Che delle gente occise e da lui prese L' arme che avea spogliate tutte quante A se/ d' intorno le tenea suspese; Ma a tutte l' altre se vedea davante, Sopra a un cipresso bene alto e palese, La sopravesta e l' arme de Ranaldo, Che avea spogliato il saracin ribaldo. Or, come io dissi, in su questa riviera Ne gionge il conte caminando a piede, E Falerina sempre a canto gli era; Ma quando quella dama il ponte vede, Tutta se turba e cangia ne la ciera, Biastemando Macone e chi li crede; Poi dice: #_ Cavallier, con duol amaro Tutti siam morti, e piu\ non c' e\ riparo. Questo voluto ha il perfido Apollino (Cosi\ poss' el cader dal celo al basso!) Che ce ha guidato per questo camino, Per roi%narce a quel dolente passo. Or, perche/ intendi, quivi e\ un malandrino Che gia\ robbava ogniomo a gran fraccasso, Crudele, omicidiale et inumano, E fu il suo nome, et e\ ancora, Aridano. Ma non avea possanza e non ardire, Che/ e\ de rio sangue e de gesta villana; Or tanto e\ forte, e il perche/ ti vo' dire, Che/ cosa non fu mai cotanto strana. Dentro a quel lago che vedi apparire, Stavi una fata, che ha nome Morgana, Qual per mala arte fabrico\ gia\ un corno, Che avria disfatto il mondo tutto intorno. Perche/ qualunche il bel corno suonava, Era condutto alla morte palese. Si\ lunga istoria dirti ora mi grava, Come le gente fusser morte, o prese. In poco tempo un barone arivava (Il nome suo non so, ne/ il suo paese): Lui vinse e tori, il drago e la gran guerra Di quella gente uscita della terra. Quel cavallier, persona valorosa, Cosi\ disfece il tenebroso incanto, Onde la fata vien si\ desdignosa Che mai potesse alcun darsi tal vanto; E fie' questa opra si\ meravigliosa, Che, ricercando il mondo tutto quanto, Non sera\ cavallier di tanto ardire, Qual non convenga a quel ponte perire. Ella si pensa che quel campi%one Che suono\ il corno, quindi abbia a passare, O ver che per ardir, come e\ ragione, Venga questa aventura a ritrovare; Cosi\ l' avera\ {t} morto, {/t S; morte, Z} o ver pregione, Che/ omo del mondo non potria durare. Per far perir quel cavallier Morgana Fatto ha quel lago, il ponte e la fiumana. E ricercando tutte le contrate De uno om crudel, malvaggio e traditore, Trovo\ Arridano senza pi%etate Che gia\ la terra non avea peggiore, E ben guarnito l' ha de arme affatate E d' una maraviglia ancor maggiore, Che qualunche baron seco s' affronta, Sei tanta forza a lui vien sempre agionta. Onde io mi stimo il vero, anci son certa Che a tale impresa non potria durare; Et io con teco, misera, diserta Dentro a quella acqua me vedo affogare, Che/ noi siam gionti troppo a la scoperta, E non c' e\ tempo o modo di campare. Non e\ rimedio ormai: noi siam perduti, Come Aridano il fier ce abbia veduti. $_ Il conte, sorridendo a tal parole, Disse alla dama ragionando basso: #_ Tutta la gente dove scalda il sole, Non mi faria tornare adietro un passo. Sasselo Idio di te quanto mi dole, Poi che soletta in tal loco te lasso; Ma sta pur salda e non aver temanza: Il ferro e\ il mezo a l' om che ha gran possanza. $_ La dama ancor piangendo pur dicia: #_ Fuggi per Dio, baron, campa la morte! Che/ il conte Orlando qua non valeria, Ne/ Carlo Mano e tutta la sua corte. Lasciar m' incresce assai la vita mia, Ma de la morte tua mi do^l piu\ forte, Che/ io son da poco e son femmina vile, Tu prodo, ardito e cavallier gentile. $_ Il franco conte a quel dolce parlare A poco a poco si veni\a piegando, E destinava dietro ritornare. Oltra quel ponte d' intorno guardando L' arme cognobbe che suolea portare Il suo cugin Ranaldo, e lacrimando: #_ Chi mi ha fatto $_ dicea #_ cotanto torto? O fior d' ogni baron, chi te me ha morto? A tradimento qua sei stato occiso Dal falso malandrin sopra quel ponte, Che/ tutto il mondo non te avria conquiso, Se teco avesse combattuto a fronte. Ascoltami, baron; dal paradiso, Ove or tu dimori, odi il tuo conte, Qual tanto amavi gia\, benche/ uno errore Commesse a torto per soperchio amore. Io te chiedo {add} merce/, {/add; merce\, Z} damme perdono, Se io te offesi mai, dolce germano, Ch' io fui pur sempre tuo, come ora sono, Benche/ falso suspetto et amor vano A battaglia ce trasse in abandono, E l' arme zelosia ce pose in mano. Ma sempre io te amai et ancor amo; Torto ebbi io teco, et or tutto me 'l chiamo. Che fu quel traditor, lupo rapace, Qual ce ha vetato insieme a ritornare Alla dolce concordia e dolce pace, A i dolci baci, al dolce lacrimare? Questo e\ l' aspro dolor che mi disface, Ch' io non posso con teco ragionare E chiederti perdon prima ch' io mora; Questo e\ l' affanno e doglia che me accora. $_ Cosi\ dicendo Orlando con gran pianto Tra' for la spada, e il forte scudo imbraccia: La spada a cui non vale arme ne/ incanto, Ma sempre dove gionge il camin spaccia. Il fatto gia\ vi contai tutto quanto, Si\ che non credo che mistier vi faccia Tornarvi a mente con quale arte e quando Da Falerina fusse fatto il brando. Il conte, de ira e de doglia avampato, Salta nel ponte con quel brando in mano; Spezza il serraglio e via passa nel prato, Ove iaceva il perfido Aridano. Sotto al cipresso stava il renegato, Quelle arme del segnor de Montealbano, Che erano al tronco de intorno, mirando, Quando li gionse sopra 'l conte Orlando. Smarrisse alquanto il malandrino in viso, Quando a se/ vide sopra quel barone, Pero\ che adosso gli gionse improviso; Pur salto\ in piede e prese il suo bastone, E poi dicea: #_ Se tutto il paradiso Te volesse aiutare e idio Macone, E' non avrian possanza e non ardire, Che/ in ogni modo ti convien morire. $_ Al fin delle parole un colpo lassa Con quel baston di ferro il can fellone; Gionse nel scudo e tutto lo fraccassa, E cadde Orlando in terra ingenocchione. A braccia aperte il saracin se abassa, Credendolo portar sotto al gallone, Come portar quelli altri era sempre uso E poi nel lago profondarli giuso. Ma il conte cosi\ presto non si rese, Benche/ cadesse, e non fu spaventato; Per il traverso un gran colpo distese, E gionse a mezo del scudo afatato. A terra ne meno\ quanto ne prese, E cadde il brando nel gallone armato, Rompendo piastre e il sbergo tutto quanto, Che/ a quella spada non vi vale incanto. E se non era il saracin chinato, Che/ ben non gionse quella spata a pieno, Tutto l' avrebbe per mezo tagliato, Come un pezzo di latte, piu\ ne/ meno; Pur fu Aridano alquanto vulnerato, Onde li crebbe al cor alto veleno, E mena del bastone in molta fretta; Ma il conte l' ha assaggiato, e non l' aspetta. Gettosse Orlando in salto de traverso E meno\ il brando per le gambe al basso, Et a quel tempo il saracin perverso Callava il suo bastone a gran fraccasso. Tirando l' uno e l' altro di roverso Ben se gionsero insieme al contrapasso, Ma il brando, che non cura fatasone, Duo palmi e piu\ taglio\ di quel bastone. Mosse Aridano un crido besti%ale, E salta adosso al conte, d' ira acceso. Nulla diffesa al franco Orlando vale, Con tanta furia l' ha quel pagan preso, E vien correndo, come avesse l' ale. Alla riviera nel porto\ di peso, E cosi\ seco, come era abracciato, Giu\ nel gran lago se profonda armato. Da l' alta ripa con molta roina Caderno insieme per quella acqua scura. Quivi piu\ non aspetta Falerina, Ma via fuggendo su per la pianura Giva tremando come una tapina, Guardando spesso adietro con paura, E cio\ che sente e vede di lontano, Sempre alle spalle aver crede Aridano. Ma lui bon tempo stette a ritornare, Che/ gionse con Orlando insino al fondo. Piu\ nel presente non voglio cantare, Che/ al tanto dir parole me confondo: Piacciavi a l' altro canto ritornare, Che la piu\ strana cosa che abbia il mondo E la piu\ dilettosa e piu\ verace Vi contaro\, se Dio ce dona pace. Quando la terra piu\ verde e\ fiorita, E piu\ sereno il cielo e grazi%oso, Alor cantando il rosignol se aita La notte e il giorno a l' arboscello ombroso; Cosi\ lieta stagione ora me invita A seguitare il canto dilettoso, E racontare il pregio e 'l grand' onore Che donan l' arme gionte con amore. Dame legiadre e cavallier pregiati, Che onorati la corte e gentilezza, Tiratevi davanti et ascoltati Delli antiqui baron l' alta prodezza, Che seran sempre in terra nominati: Tristano e Isotta dalla bionda trezza, Genevra e Lancilotto del re Bando; Ma sopra tutti il franco conte Orlando, Qual per amor de Angelica la bella Fece prodezze e meraviglie tante, Che 'l mondo sol di lui canta e favella. E pur mo vi narrai poco davante Come abracciato alla battaglia fella Con Aridano, il perfido gigante, Cadde in quel lago nel profondo seno; Ora ascoltati il fatto tutto a pieno. Cadendo della ripa a gran fraccasso Callarno entrambi per quella acqua scura, Dico Aridano e lui tutti in un fasso. Gia\ giuso erano un miglio per misura, E, roi%nando tutta fiata a basso, Comincio\ l' acqua a farsi chiara e pura, E cominciarno di vedersi intorno: Un altro sol trovarno e un altro giorno. Come nasciuto fosse un novo mondo, Se ritrovarno al sciutto in mezo a un prato, E sopra se/ vedean del lago il fondo, Il qual, dal sol di suso aluminato, Facea parere il luogo piu\ iocondo; Et era poi d' intorno circondato Quel loco d' una grotta marmorina Tutta di pietra relucente e fina. Era la bella grotta a piede al monte: Tre miglia circondava questo spaccio. Ora torniamo a ragionar del conte, Ch' e\ qui caduto col gigante in braccio, Seco sempre ristretto a fronte a fronte, E ben se aiuta per uscir de impaccio, Ma pur se sbatte e se dimena invano: Sei tanto e\ piu\ de lui forte Aridano. Ne/ l' un da l' altro si potean spiccare, Sin che fur gionti in sul campo fiorito. Quivi Aridano il volse disarmare, Credendo averlo tanto sbigotito, Che piu\ diffesa non dovesse fare; A benche/ tal pensier li ando\ fallito, Pero\ che non l' avea lasciato a pena, Che 'l conte imbraccia il scudo e il brando mena. Alor se incomincio\ l' aspra tencione E l' assalto crudele e dispietato. Il saracino adopra quel bastone Che avrebbe a un colpo un monte dissipato. Da l' altra parte il fio di Melone Avea quel brando ad arte fabricato, Che cosa non fu mai cotanto fina, E cio\ che trova taglia con roina. Orlando a lui feri\ primeramente, Come li uscitte a ponto delle braccia, E roppe avanti l' elmo relucente, Benche/ non gionse il colpo nella faccia. Diceva il saracin tra dente e dente: #_ A questo modo la mosca se caccia, A questo modo al naso si fa vento; Ma ben ti pagaro\, s' io non mi pento. $_ Tra le parole un gran colpo disserra, Ma gia\ non gionse il conte a suo talento, Che/ ben lo avria disteso morto a terra, E tutto rotto con grave tormento. Or se rinforza la stupenda guerra: Quello ha possa maggior, questo ardimento, E ciascadun de vincer se procura: Battaglia non fu mai piu\ orrenda e scura. Benche/ gran colpi menasse Aridano, Non avea ponto Orlando danneggiato, E giva sempre il suo bastone invano. Ma il conte, che e\ di guerra amaestrato, Menava bene il gioco d' altra mano, E gia\ l' aveva in tre parte impiagato, Nel ventre, nella testa, nel gallone: Fuora uscia il sangue a grande effusi%one. E, per non vi tenire a notte scura, L' ultimo colpo che Orlando li dona, Tutto lo parte, insino alla centura, Onde la vita e il spirto lo abandona, E cadde morto sopra a la pianura. Quivi d' intorno non era persona; Altro che il monte e il sasso non appare, Pur guarda il conte e non sa che si fare. La bianca ripa che girava intorno, Non lasciava salire al monticello, Quale era verde e de arboscelli adorno, Tutto fiorito a meraviglia e bello. E dalla parte ove apparisce il giorno, Era tagliata a punta di scarpello Una porta patente, alta e reale: Piu\ mai ne vidde il mondo un' altra tale. Guardando, come ho detto, intorno Orlando {add} Scorse {/add; Sco\rse Z} nel sasso la porta tagliata, E verso quella a piede caminando Vien prestamente e gionse su l' intrata; E de ogni lato quella remirando, Vide una istoria in quella lavorata Tutta di pietre preci%ose e d' oro, Con perle e smalti di sotil lavoro. Vedeasi un loco cento volte cinto De una muraglia smisurata e forte; Chiamavasi quel cerchio il Labirinto, Che avea cento serraglie e cento porte; Cosi\ scritto era in quel smalto e depinto. E tutto parea pieno a gente morte, Che/ ogni persona che e\ d' intrare ardita, Vi more errando e non trova la uscita. Mai non tornava alcuno ove era entrato, E, come e\ detto, errando si moria; O ver, dalla fortuna al fin guidato, Dopo l' affanno della mala via, Era nel fondo occiso e divorato Dal Minotauro, bestia orrenda e ria, Che avea sembianza d' un bove cornuto: Piu\ crudel monstro mai non fu veduto. Ritratta era in disparte una donzella, Che era ferita nel petto de amore De un giovanetto, e l' arte gli rivella Come potesse uscir di tanto errore. Tutta depinta vi e\ questa novella, Ma il conte, che a tal cosa non ha il core, Alle sue spalle quella porta lassa, E per la tomba caminando passa. Via per la grotta va senza paura, Et era gito avante da tre miglia Senza alcun lume per la strata oscura, Alor che gl' incontro\ gran meraviglia; Perche/ una pietra relucente e pura, Che drittamente a foco se assimiglia, Gli fece luce mostrandoli intorno, Come un sol fosse in cielo a mezo giorno. Questa davanti gli scoperse un fiume Largo da vinte braccia, o poco meno; Di la\ da lui rendea la pietra il lume, In mezo a un campo si\ de zoie pieno, Che solo a dir di lor seri\a un volume; E non ha tante stelle il cel sereno, Ne/ primavera tanti fiori e rose, Quante ivi ha perle e pietre preci%ose. Avea quel fiume ch' e\ sopra contato, Di sopra un ponte di poca largura, Che non e\ mezo palmo misurato. Da ciascun lato stava una figura Tutta di ferro, a guisa d' omo armato. Di la\ dal fiume aponto e\ la pianura, Ove posto il tesoro e\ di Morgana; Ora ascoltati questa cosa strana. Non avea posto il piede su la intrata Del ponticello il figlio di Melone, Che la figura ad arte fabricata Levo\ da l' alto capo un gran bastone. Bene avea il conte sua spata fatata Per incontrare il colpo di ragione; Ma non bisogna che a questo risponda, Che da\ nel ponte e tutto lo profonda. A questa cosa riguardava il conte Meravigliando assai nel suo pensiero, Et ecco a poco a poco uno altro ponte Nasce nel loco dove era il primiero. Su vi entra Orlando con ardita fronte, Ma de quindi varcar non e\ mistiero, Che/ la figura mai passar non lassa Qual da\ nel ponte, e sempre lo fraccassa. Il conte avea de cio\ gran meraviglia, Fra se/ dicendo: ## Or che voglio aspettare? Se il fiume fusse largo diece miglia, In ogni modo voglio oltra passare. $# Al fin delle parole un salto piglia: Vero e\ che indietro alquanto ebbe a tornare A prender corso; e, come avesse piume, D' un salto armato ando\ di la\ dal fiume. Come fu gionto alla ripa nel prato Ove Morgana ha posto il gran tesoro, A se/ davante vidde edificato Un re con molta gente a concistoro. Ciascun sta in piede, et esso era assettato; Tutte le membre avean formato d' oro, Ma sopra eran coperti tutti quanti Di perle, de robini e de diamanti. Parea quel re da tutti riverito; Avanti avea la mensa apparecchiata Con piu\ vivande, a mostra di convito, Ma ciascadun di smalto e\ fabricata. Sopra al suo capo avea un brando forbito, Che morte li minaccia tutta fiata; Et al sinistro fianco, a men d' un varco, Un che avea pesto la saetta a l' arco. Avea da lato un altro suo germano, Che lo rasomigliava di figura, E tenea un breve scritto nella mano. Cosi\ diceva a ponto la scrittura: #+ Stato e ricchezza e tutto il mondo e\ vano Qual se possede con tanta paura; Ne/ la possanza giova, ne/ il diletto, Quando se tiene o prende con sospetto. $+ Pero\ stava quel re con trista ciera, Guardando intorno per suspizi%one. A lui davanti, ne la mensa altiera, Sopra de un ziglio d' oro era il carbone, Che dava luce a guisa de lumiera, Facendo lume per ogni cantone; Et era il quadro di quella gran {t} piazza {/t Z; piaccia S} Per ciascun lato cinquecento {t} brazza. {/t Z; braccia. S} Tutta coperta de una pietra viva Era la piazza e d' intorno serrata; Per quattro porte di quella se usciva, Ciascuna riccamente lavorata. Non vi ha fenestra e d' ogni luce e\ priva, Se non che e\ dal carbone aluminata, Qual rendeva la\ giu\ tanto splendore, Che a pena il sole al giorno l' ha maggiore. Il conte, che di questo non ha cura, Verso una porta prese il suo camino, Ma quella nella entrata e\ tanto scura, Che non sa dove andare il paladino. Ritorna adietro e d' intorno procura De l' altre uscite per ogni confino; Tutte le cerca senza alcuna posa: Ciascuna e\ piu\ dolente e tenebrosa. Mentre che pensa e sta tutto suspeso, {add} Andogli {/add; Ando\gli Z} il core a quella pietra eletta, Che nella mente parea foco acceso, Onde a pigliarla corse con gran fretta; Ma la figura che avea l' arco teso, Subitamente scocca la saetta, E gionse drittamente nel carbone, Spargendo il lume a gran confusi%one. Comincio\ incontinente un terremoto, Scotendo intorno con molto rumore. Mugiava in ogni lato il sasso voto: Odita non fu mai voce maggiore. Fermosse il conte stabile et immoto, Come colui che fu senza terrore: Ecco il carbone al ziglio torna in cima, E rende il lume adorno come in prima. Orlando per pigliarlo torna ancora, Ma, come a ponto con la mano il tocca, Lo arcier che e\ a lato al re, senza dimora Una saetta d' oro a l' arco scocca; E duro\ il terremoto piu\ d' un' ora, Squassando con rumor tutta la rocca; Poi cesso\ al tutto, e il bel lume vermiglio Torno\ come era avanti in cima al ziglio. Or fa pensiero il bon conte de Anglante Avere al tutto quella pietra fina. Trasse a se/ il scudo e quel pose davante Ove l' arciero il suo colpo destina; Poi prese il bel carbone, e 'n quello istante Gionse la frizza al scudo con roina, Ma non puote passarlo il colpo vano: Via ne va Orlando col carbone in mano. E come lo guidava la fortuna, Non prese a destra mano il suo vi%aggio, Che seri\a uscito de la grotta bruna Salendo sempre suso, il baron saggio. La\ gioso ove non splende sol ne/ luna, Ne/ se puo\ ritornar senza dannaggio, Callava il conte, verso la pregione Ove Ranaldo stava con Dudone. Fo^r questi presi sopra la rivera, Si\ come gia\ davanti io vi contai, E Brandimarte ancora con questi era, Et altri cavallieri e dame assai, Ch' eran piu\ de settanta in una schiera, Che non avean speranza uscir giamai Di quello incanto orribile e diverso, Ma ciascadun si tiene al tutto perso. E sappiati che il franco Brandimarte Non fu per forza, come gli altri, preso; Ma Morgana la fata con mala arte L' avea d' amor con falsa vista acceso; E seguendola lui per molte parte, Non fu da alcun giamai con arme offeso, Ma con carezze e con viso iocondo Fu trabuccato a quel dolente fondo. Or, come io dissi, il bon conte di Brava Giu\ nella tomba alla sinistra mano Per una scala di marmo callava Piu\ de un gran miglio, e poi gionse nel piano; E col carbone avanti alluminava, Perche/ altramente seri\a gito invano, Che/ quel camino e\ si\ malvaggio e torto, Che mille fiate errando seri\a morto. Poi che fu gionto in su la terra piana Il conte, che a quel lume si governa, Parbe vedere a lui molto lontana Una fissura in capo alla caverna; E, caminando per la strata strana, A poco a poco pur par che discerna, Che quella era una porta al fin del sasso, Qual dava uscita al tenebroso passo. L' aspra cornice di quel sasso altiero Con tal parole a lettre era tagliata: #+ Tu che sei gionto, o dama, o cavalliero, Sappi che quivi facile e\ la entrata, Ma il risalir da poi non e\ legiero A cui non prende quella bona fata, Qual sempre fugge intorno e mai non resta, E dietro ha il calvo alla crinuta testa. $+ Il conte le parole non intese, Ma passa dentro quella anima ardita, E, come a ponto nel prato discese, Voltando gli occhi per l' erba fiorita Alto diletto riguardando prese; Perche/ mai non se intese per odita, Ne/ per veduta in tutto quanto il mondo Piu\ vago loco, nobile e iocondo. Splendeva quivi il ciel tanto sereno, Che nul zaffiro a quel termino ariva, Et era d' arboscelli il prato pieno, Che ciascun avea frutti e ancor fioriva. Longe alla porta un miglio, o poco meno, Uno alto muro il campo dipartiva, De pietre trasparente e tanto chiare, Che oltra di quello il bel giardino appare. Orlando dalla porta se alontana, E mentre che per l' erba via camina, Vidde da lato adorna una fontana D' oro e di perle e de ogni pietra fina. Quivi distesa stavasi Morgana Col viso al cielo e dormiva supina, Tanto suave e con si\ bella vista Che rallegrata avrebbe ogni alma trista. Le sue fattezze riguardava il conte Per non svegliarla, e sta tacitamente. Lei tutti e crini avea sopra la fronte, E faccia lieta, mobile e ridente; Atte a fuggire avea le membre pronte, Poca trezza di dietro, anzi ni%ente; Il vestimento candido e vermiglio, Che sempre scappa a cui li da\ de piglio. #_ Se tu non prendi chi te giace avante, Prima che la se sveglia, o paladino, Frustarai a' tuoi piedi ambe le piante Seguendola da poi per mal camino; E portarai fatiche e pene tante, Prima che tu la tenghi per il crino, Che serai reputato un santo in terra Se in pace soffrirai cotanta guerra. $_ Queste parole fur dette ad Orlando, Mentre che attento alla fata mirava, Onde se volse adietro, et ascoltando Verso la voce tacito ne andava; E forse trenta passi caminando A pie\ de l' alto mur presto arivava, Qual tutto di cristallo e\ tanto chiaro, Che oltra si vede senza alcun divaro. Cosi\ cognobbe lo ardito barone Come colui che avanti avea parlato, Di la\ da quel cristallo era pregione, E prestamente l' ha rafigurato, Perche/ quello era il suo franco Dudone; Et ora l' un da l' altro e\ separato Forse tre piedi, o poco meno, o tanto: Pensati che ciascun facea gran pianto. Ben distendevan l' una e l' altra mano Per abracciarse insieme ad ogni parte. Dice a Dudone: #_ Io me affatico invano, Che/ in nulla forma mai potria toccarte. $_ In quello giunse il sir de Montealbano, Che a braccio ne veni\a con Brandimarte, E non sapevan del conte ni%ente; Ciascun di lor piangendo fu dolente. Disse Ranaldo: #_ Egli ha pur l' armi in dosso, E tiene al fianco ancor la spata cinta: Ciascun de noi, per Dio! verra\ riscosso, Che/ sua prodezza non sera\ mai vinta; Abenche/ rallegrar pur non mi posso, Perche/ io non so se l' ira ancora e\ estinta, Quando per colpa mia quasi fui morto, Alor che seco combatteva a torto. Ch' io non doveva per nulla cagione Prender con seco alcuna differenza; Egli e\ di me maggiore, e di ragione Lo debbo sempre avere in riverenza. $_ Diceva Brandimarte al fio d' Amone: #_ Di questo ditto non aver temenza; Cosi\ quindi te tragga Dio verace, Come tra voi faro\ presto la pace. $_ E cosi\ l' un con l' altro ragionando, Come vi dico, assai pietosamente, Per caso allor se volse il conte Orlando, Et ambi li cognobbe incontinente; E piangendo di doglia e sospirando, Con parlar basso e con voce dolente Li adimandava con qual modo e quanto Fusser gia\ stati presi a quello incanto. E poi che intese la fortuna loro, Che ciascadun piangendo la dicia, Prese dentro dal core alto martoro, Perche/ forza ne/ ingegno non vali\a A romper quel castello e il gran lavoro, Qual chiudea intorno quella pregionia; E tanto piu\ se turba il conte arguto, Che gli ha davanti e non puo\ darli aiuto. Avanti a gli occhi suoi vedea Ranaldo E gli altri tutti che cotanto amava, Onde di doglia e di grande ira caldo Per dar nel mur col brando il braccio alzava; Ma cridarno e prigion tutti: #_ Sta saldo! Sta, per Dio! queto, $_ ciascadun cridava, #_ Che/, come ponto si spezzasse il muro, Giu\ nella grotta caderemo al scuro. $_ Seguiva poi parlando una donzella, La qual di doglia in viso parea morta, E cosi\ scolorita era ancor bella; Costei parlava al conte in voce scorta: #_ Se trar ce vuoi di questa pregion fella, Conviente gir, baron, a quella porta Che de smiraldi e de diamanti pare; Per altro loco non potresti entrare. Ma non per senno, forza, o per ardire, Non per minaccie, o per parlar soave Potresti quella pietra fare aprire, Se non te dona Morgana la chiave; Ma prima se fara\ tanto seguire, Che ti parrebbe ogni pena men grave Che seguir quella fata nel deserto Con speranza fallace e dolor certo. Ogni cosa virtute vince al fine: Chi segue vince, pur che abbia virtute; Vedi qua tante gente peregrine, Che speran per te solo aver salute. Tutte noi altre misere, tapine, Prese per forza al fondo sia\n cadute: Tu sol, sopra ad ogni altro appregi%ato, In questo loco sei venuto armato. Si che bona speranza ce conforta Che avrai di questa impresa ancor l' onore, Et aprirai quella dolente porta, Qual tutti ce tien chiusi in tal dolore. Or piu\ non indugiar, che/ forse accorta Non se e\ di te la fata, bel segnore; Volgite presto e torna alla fontana, Che/ forse ancor vi trovarai Morgana. $_ Il conte, che d' entrare avea gran voglia, Subitamente al fonte ritornava; Quivi trovo\ Morgana, che con zoglia Danzava intorno e danzando cantava. Ne/ piu\ legier se move al vento foglia, Come ella senza sosta si voltava, Mirando ora alla terra et ora al sole, Et al suo canto usava tal parole: #_ Qualunche cerca al mondo aver tesoro, O ver diletto, o segue onore e stato, Ponga la mano a questa chioma d' oro Ch' io porto in fronte, e quel faro\ beato; Ma quando ha il destro a far cotal lavoro, Non prenda indugia, che/ il tempo passato Piu\ non ritorna e non se ariva mai, Et io mi volto, e lui lascio con guai. $_ Cosi\ cantava de intorno girando La bella fata a quella fresca fonte, Ma come gionto vidde il conte Orlando, Subitamente rivolto\ la fronte. Il prato e la fontana abandonando, Prese il vi%aggio suo verso de un monte, Qual chiudea la valletta piccolina; Quivi fuggendo Morgana camina. Oltra quel monte Orlando la seguia, Che/ al tutto di pigliarla e\ destinato, Et essendoli dietro tutta via, Se avidde in un deserto essere entrato, Che strata non fu mai cotanto ria, Pero\ che era sassosa in ogni lato; Ora alta, or bassa e\ nelle sue confine, Piena de bronchi e de malvaggie spine. Del rio vi%aggio Orlando non se cura, Che/ la fatica e\ pasto a l' animoso. Ora ecco alle sue spalle il cel se oscura, E levasi un gran vento furi%oso; Pioggia mischiata di grandine dura Batte per tutto il campo doloroso; Perito e\ il sole e non si vede il giorno, Se il ciel non s' apre fulgorando intorno. Tuoni e saette e fu\lgori e baleni E nebbia e pioggia e vento con tempesta Aveano il cielo e i piani e i monti pieni: Sempre cresce il furore e mai non resta. Quivi la serpe e tutti i suoi veleni Son dal mal tempo occisi alla foresta, Volpe e colombi et ogni altro animale: Contra a fortuna alcun schermo non vale. Lasciati Orlando in quel tempo malvaggio, Ne/ ve impacciati de sua mala sorte, Voi che ascoltando qua sedeti ad aggio: Fuggir se vo^le il mal sino alla morte; Abenche/ lui tornasse in bon vi%aggio, Perche/ ogni cosa vince l' omo forte; Ma chi puo\, scampar debbe al tempo rio. Bella brigata, io ve acomando a Dio. Odeti et ascoltati il mio consiglio, Voi che di corte seguite la traccia: Se alla Ventura non dati de piglio, Ella si turba e voltavi la faccia; Alor convien tenire alciato il ciglio, Ne/ se smarir per fronte che minaccia, E chiudersi le orecchie al dir de altrui, Servendo sempre, e non guardare a cui. A che da voi Fortuna e\ biastemata, Che/ la colpa e\ di lei, ma il danno e\ vostro? Il tempo viene a noi solo una fiata, Come al presente nel mio dir vi mostro; Perche/, essendo Morgana adormentata Presso alla fonte nel fiorito chiostro, Non seppe Orlando al zuffo dar di mano, Et or la segue nel diserto in vano, Con tanta pena e con fatiche tante, Che ad ogni passo convien che si torza. La fata sempre fugge a lui davante; Alle sue spalle il vento se rinforza E la tempesta, che sfronda le piante Giu\ diramando fin sotto la scorza. Fuggon le fiere e il mal tempo li caccia, E par che il celo in pioggia si disfaccia. Ne l' aspro monte e ne' valloni ombrosi Condutto e\ il conte a perigliosi passi. Callano rivi grossi e roi%nosi, Tirando giu\ le ripe, arbori e sassi, E per quei boschi oscuri e tenebrosi S' odon alti rumori e gran fraccassi, Pero\ che 'l vento, il trono e la tempesta Dalle radici schianta la foresta. Pur segue Orlando e fortuna non cura, E prender vo^l Morgana a la finita, Ma sempre cresce sua disaventura, Perche/ una dama de una grotta uscita, Pallida in faccia e magra di figura, Che di color di terra era vestita, Prese un flagello in mano aspero e grosso, Battendo a se/ le spalle e tutto il dosso. Piangendo se battea quella tapina, Si\ come fosse astretta per sentenzia A flagellarsi da sera e matina. Turbosse il conte a tal appariscenzia, E dimando\ chi fosse la meschina. Ella rispose: #_ Io son la Penitenzia, De ogni diletto e de allegrezza cassa, E sempre seguo chi ventura lassa. E pero\ vengo a farte compagnia, Poi che lasciasti Morgana nel prato, E quanto durara\ la mala via, Da me serai battuto e flagellato, Ne/ ti varra\ lo ardire o vigoria, Se non serai di paci%enza armato. $_ Presto rispose il figlio di Melone: #_ La paci%enza e\ pasto da poltrone. Ne/ te venga talento a farmi oltraggio, Che/ paci%ente non sero\ di certo. Se a me fai onta, a te faro\ dannaggio, E se mi servi ancor, ne avrai buon merto: Dico de accompagnarme nel vi%aggio Dove io camino per questo diserto. $_ Cosi\ parlava Orlando, e pur Morgana Tuttavia fugge et a lui se alontana. Onde, lasciando mezo il ragionare, Dietro alla fata se pose a seguire, E nel suo cor se afferma a non mancare Sin che vinca la prova, o de morire. Ma l' altra, di cui mo vi ebbi a contare, Qual per compagna se ebbe a proferire, Se accosta a lui con atti si\ villani, Che de cucina avria cacciati i cani. Perche/, giongendo col flagello in mano, Disconciamente dietro lo battia. Forte turbosse il senator romano, E con mal viso verso lei dicia: #_ Gia\ non farai ch' io sia tanto villano, Ch' io traga contra a te la spata mia; Ma se a la trezza ti dono di piglio, Io te traro\ di sopra al celo un miglio. $_ La dama, come fuor di sentimento, Nulla risponde, et anco non lo ascolta; Il conte, a lei voltato in mal talento, Gli mena un pugno alla sinestra golta. Ma, come gionto avesse a mezo il vento, O ver nel fumo, o nella nebbia folta, Via passo\ il pugno per mezo la testa De un lato ad altro, e cosa non l' arresta. Et a lei no^ce quel colpo ni%ente, E sempre intorno il suo flagello mena. Ben se stupisce il conte nella mente, E cio\ veggendo non lo crede apena. Ma pur, sendo battuto e de ira ardente, Radoppia pugni e calci con piu\ lena; Qua sua possanza e forza nulla vale, Come pistasse l' acqua nel mortale. Poi che bon pezzo ha combattuto in vano Con quella dama che una ombra sembrava, Lasciolla al fine il cavallier soprano, Che/ tuttavia Morgana se ne andava, Onde prese a seguirla a mano a mano. Ora quest' altra gia\ non dimorava, Ma col flagello intorno lo ribuffa, E lui se volta, e pur a lei s' azuffa. Ma, come l' altra volta, il franco conte Toccar non puote quella cosa vana, Onde lasciolla ancora, e per il monte Se puose al tutto a seguitar Morgana; Ma sempre dietro con oltraggio et onte Forte lo batte la dama villana. Il conte, che ha provato il fatto a pieno, Piu\ non se volta e va rodendo il freno. ## Se a Dio piace, $# diceva ## on al demonio Ch' io abbi paci%enza, et io me l' abbia: Ma siame il mondo tutto testimonio Ch' io la tragualcio con sapor di rabbia. Qual frenesia di mente o quale insonio Me ha qua giuso condutto in questa gabbia? Dove entrai io qua dentro, o come e quando? Son fatto un altro, o sono ancora Orlando? $# Cosi\ diceva, e con molta roina Sempre seguia Morgana il cavalliero. Fiacca ogni bronco et ogni mala spina, Lasciando dietro a se/ largo il sentiero; Et alla fata molto se avicina, E gia\ de averla presa e\ il suo pensiero; Ma quel pensiero e\ ben fallace e vano, Pero\ che presa ancor scappa di mano. Oh quante volte gli dette di piglio Ora ne' panni et or nella persona! Ma il vestimento, ch' e\ bianco e vermiglio, Ne la speranza presto l' abandona. Pure una fiata rivoltando il ciglio, Come Dio volse e la ventura buona, Volgendo il viso quella fata al conte, Lui ben la prese al zuffo ne la fronte. Alor cangiosse il tempo, e l' aria scura Divenne chiara e il cel tutto sereno; E l' aspro monte si fece pianura, E dove prima fo di spine pieno, Se coperse de fiore e de verdura; E 'l flagellar de l' altra venne meno, La qual, con meglior viso che non suole, Verso del conte usava tal parole: #_ Attienti, cavalliero, a quella chioma, Che nella mano hai volta, de Ventura, E guarda de iustar si\ ben la soma, Che la non caggia per mala misura. Quando costei par piu\ qui%eta e doma, Alor del suo fuggire abbi paura, Che/ ben resta gabbato chi li crede, Perche/ fermezza in lei non e\, ne/ fede. $_ Cosi\ parlo\ la dama scolorita, E dipartisse al fin del ragionare; A ritrovar sua grotta se n' e\ gita, Ove se batte e stasse a lamentare. Ma il conte Orlando l' altra avea gremita, Come io vi dissi, e, senza dimorare, Or con minaccie or con parlar suave De la pregion domanda a lei la chiave. Ella con riso e con falso sembiante Diceva: #_ Cavalliero, al tuo piacere Son quelle gente prese tutte quante, E me con seco ancor potrai avere; Ma sol de un figlio del re Manodante Te prego che me vogli compiacere; O mename con seco, o quel mi lassa, Che/ senza lui seri\a de vita cassa. Quel giovanetto m' ha ferito il core, Et e\ tutto il mio bene e 'l mio disio, Si\ che io te prego per lo tuo valore Che hai tanto al mondo, e per lo vero Dio, Se a dama alcuna mai portasti amore, Non trar di quel giardin l' amante mio. Mena con teco gli altri, quanti sono, Che/ a te tutti li lascio in abandono. $_ Rispose il conte ad essa: #_ Io te prometto, Se mi doni la chiave in mia bali\a, Qua teco restara\ quel giovanetto, Poi che averlo il tuo cor tanto desia; Ma non te vo' lasciar, che/ aggio sospetto De ritornare a quella mala via Ove io son stato; e pero\, se 'l te piace, Dammi la chiave, e lasciarotti in pace. $_ Avea Morgana aperto il vestimento Dal destro lato e dal sinistro ancora, Onde la chiave, che e\ tutta d' argento, Trasse di sotto a quel senza dimora, E disse: #_ Cavallier de alto ardimento, Vanne alla porta e si\ aconcio lavora, Che non se rompa quella serratura, Che/ caderesti nella tomba oscura, E teco insieme tutti e cavallieri, Si\ che seresti in eterno perduto, Che/ trarti quindi non seri\a mestieri, Ne/ l' arte mia varrebbe, on altro aiuto. $_ Per questo intrato e\ il conte in gran pensieri, Da poi che per ragione avea veduto, Che mal se trova alcun sotto la luna Che adopri ben la chiave di Fortuna. Tenendo al zuffo tuttavia Morgana, Verso al giardino al fin se fu invi%ato, E traversando la campagna piana A quella porta fu presto arivato. Con poco impaccio la serraglia strana Aperse, come piacque a Dio beato, Perche/ qualunche ha seco la Ventura, Volta la chiave a ponto per misura. Gia\ Brandimarte e il sir de Montealbano E tutti gli altri che fo^r presi al ponte, Avean veduto Orlando di lontano, Che tenea presa quella fata in fronte; Onde ogni saracino e cristi%ano Ringraziava il suo dio con le man gionte. Or ciascadun de uscir ben si conforta, Sentendo gia\ la chiave nella porta. Da poi che aperto fu il ricco portello, Tutta la gente uscitte al verde prato. Il conte adimando\ del damigello Quale era tanto da Morgana amato, E vide il giovanetto bianco e bello, Nel viso colorito e delicato, Ne gli atti e nel parlar dolce e iocondo, E fo il suo nome Zili%ante il biondo. Costui rimase dentro lagrimando, Veggendo tutti gli altri indi partire, E ben che ne dolesse al conte Orlando, Pur sua promessa volse mantenire; Ma ancor tempo sara\ che sospirando Se converra\ di tal cosa pentire, E forza li sera\ tornare ancora, Per trar del loco il giovanetto fuora. Ivi il lasciarno, e gli altri tutti quanti Uscirno del giardino alla ventura; Facea quel bel garzone estremi pianti, E biastemava sua disaventura. Ora alla porta che io dissi davanti, Che ritornava nella tomba scura, Intrarno tutti, e 'l conte andava prima; Monta^r la scala e presto fo^rno in cima. E dentro a l' altra porta eran passati, Ove sta ne la piazza il gran tesoro: Quel re che siede e gli altri fabricati De robini e diamanti e perle et oro. Tutti color che furno impregionati Miravan con stupore il gran lavoro; Ma non ardisce alcun porve la mano Temendo incanto o qualche caso istrano. Ranaldo, che non sa che sia dotanza, Prese una sedia, che e\ tutta d' o^r fino, Dicendo: #_ Questa io vo' portare in Franza, Che/ io non feci giamai piu\ bel bottino. A' miei soldati io donaro\ prestanza, Poi non affido amico, ne/ vicino, O prete, o mercatante, o messaggero; Qualunche io trova, io mandero\ legiero. $_ Il conte li dicea che era viltate A girne carco a guisa de somiero. Disse Ranaldo: #_ E' mi ricordo un frate Che predicava, et era suo mestiero Contar della astinenza la bontate, Mostrandola a parole de legiero; Ma egli era si\ panzuto e tanto grasso, Che a gran fatica potea trare il passo. E tu fai nel presente piu\ ne/ meno, E drittamente sei quel fratacchione, Che lodava il degiuno a corpo pieno, E sol ne l' oche avea devozi%one. Carlo ti dono\ sempre senza freno, E datti il Papa gran provisi%one, Et hai tante castelle e ville tante, E sei conte di Brava e sir de Anglante. Io tengo, poverello! un monte apena, Che/ altro al mondo non ho che Montealbano, Onde ben spesso non trovo che cena, S' io non descendo a guadagnarlo al piano; Quando ventura o qual cosa mi mena, Et io me aiuto con ciascuna mano, Perch' io mi stimo che 'l non sia vergogna Pigliar la robba, quando la bisogna. $_ Cosi\ parlando gionsero al portone, Che era la uscita fuor di quella piaccia; Quivi un gran vento dette al fio de Amone Dritto nel petto e per mezo la faccia, E dietro il pinse a gran confusi%one, Longi alla porta piu\ de vinte braccia. Quel vento agli altri non tocca ni%ente, E sol Ranaldo e\ quel che il fiato sente. Lui salta in piede e pur torna a la porta, Ma come gionto fu sopra alla soglia, Di novo il vento adietro lo riporta, Soffiandolo da se/ come una foglia. Ciascun de gli altri assai si disconforta, E sopra a tutti Orlando avea gran doglia, Pero\ che de Ranaldo temea forte Che ivi non resti, o riceva la morte. Il fio de Amone senza altro spavento Pone giu\ l' oro e ritorna alla uscita; Passa per mezo, e piu\ non soffia il vento, E via poteva andare alla polita. Ma lui portar quello oro avea talento, Per dar le paghe a sua brigata ardita; Benche/ piu\ volte sia provato in vano, Pur vo^l portarlo in tutto a Montealbano. Ma poi che indarno assai fu riprovato, Ne/ carco puote uscir di quella tomba, Trasse la sedia contra di quel fiato Che dalla porta a gran furia rimbomba. La sedia d' o^r, di cui sopra ho parlato, Sembrava un sasso uscito de una fromba, Benche/ e\ seicento libbre, o poco manco: Cotanta forza avea quel baron franco. Trasse la sedia, come io ve ragiono, Credendola gettar del porton fore, Ma il vento furi%oso in abandono La spense adietro con molto rumore. Gli altri a Ranaldo tutti intorno sono, E ciascadun lo prega per suo amore Ch' egli esca for con essi di pregione, Lasciando l' oro e quella fatasone. Si\ che alla fine abandono\ la impresa, E con questi altri de la porta usciva. Era la strata un gran miglio distesa, Sin che alla scala del petron se ariva, Et e\ trea miglia la malvaggia ascesa. Sempre montando per la pietra viva, E con gran pena, uscirno al cel sereno, In mezo a un prato de cipressi pieno. Ciascun cognobbe incontinente il prato E gli cipressi e 'l ponte e la riviera Ove stava Aridano il disperato; Ma quivi nel presente piu\ non era, Anzi e\ nel fondo, de un colpo tagliato Da cima al capo insino alla ventrera, E piu\ non tornara\ suso in eterno: La\ giuso e\ il corpo, e l' anima allo inferno. Quivi eran l' armi de ciascun barone Ne' verdi rami d' intorno distese. Roverse le avea poste quel fellone, Per far la lor vergogna piu\ palese; Ranaldo incontinente e poi Dudone E insieme ogniom de gli altri le sue prese, E tutti quanti se furno guarniti De' loro arnesi e cavallieri arditi. Tutti quei gran baroni e re pagani, Che fo^rno presi all' incantato ponte, Ne andarno chi vicini e chi lontani, Ma prima molto ringraziarno il conte; E sol restarno quivi e Cri%stiani, Ove Dudone con parole pronte Espose che Agramante e sua possanza Eran guarniti per passare in Franza. E come lui, mandato da Carlone, Avea cercate diverse contrate Per ritrovar lor duo franche persone, Che eran il fior de corte e la bontate, E per condurle, come era ragione, Alla diffesa de Cristianitate. Cio\ de Ranaldo diceva e de Orlando, Et a lor proprio lo veni\a contando. Ranaldo incontinente se dispose Senza altra indugia in Francia ritornare. Il conte a quel parlar nulla rispose, Stando sospeso e tacito a pensare, Che/ il core ardente e le voglie amorose Nol lasciavan se stesso governare; L' amor, l' onore, il debito e 'l diletto Facean battaglia dentro dal suo petto. Ben lo stringeva il debito e l' onore De ritrovarse alla reale impresa; E tanto piu\ ch' egli era senatore E campi%on della Romana Chiesa. Ma quel che vince ogni omo, io dico Amore, Gli avea di tal furor l' anima accesa, Che stimava ogni cosa una vil fronda, Fuor che vedere Angelica la bionda. Ne/ dir sapria che scusa ritrovasse, Ma da' compagni si fu dispartito; E non stimar che Brandimarte il lasse, Tanto l' amava quel barone ardito. Or di lor duo convien che oltra mi passe, Perch' io vo' ricontare a qual partito Ranaldo ritornasse a Montealbano: Lunga e\ la istoria, et il camin lontano. E prima cercara\ molte contrate, Strane aventure e diversi paesi; Ma il tutto contaremo in brevitate E con tal modo che seremo intesi; E mostraremo il pregio e la bontate De Iroldo e de Prasildo, e duo cortesi, La possa de Dudone, il baron saldo, Che tutti son compagni di Ranaldo. Erano a piedi quei quattro baroni, De piastre e maglia tutti quanti armati, (Perduti aveano al ponte e lor ronzoni, Quando nel lago fo^rno trabuccati), Onde ridendo e con dolci sermoni Tra lor scherzando se fo^rno invi%ati, E la fatica de la lunga via Minor li pare essendo in compagnia. Et era gia\ passato il quinto giorno Poi che lasciarno quel loco incantato, Quando da lunge odi^r suonare un corno Sopra ad un castello alto e ben murato. Nel monte era il castello, e poi d' intorno Avea gran piano, e tutto era de un prato; Intorno al prato un bel fiume circonda: Mai non se vidde cosa piu\ ioconda. L' acqua era chiara a meraviglia e bella, Ma non si puo\ vargar, tanto e\ corrente. A l' altra ripa stava una donzella Vestita a bianco e con faccia ridente; Sopra a la poppa d' una navicella Diceva: #_ O cavallieri, o bella gente, Se vi piace passare, entrati in barca, Pero\ che altrove il fiume non si varca. $_ E cavallier, che avean molto desire Di passare oltra e prender suo vi%aggio, La ringraziarno di tal proferire, E travargarno il fiume a quel passaggio. Disse la dama nel lor dipartire: #_ Da l' altro lato si paga il pedaggio, Ne/ mai de quindi uscir se puo\, se prima A quella rocca non saliti in cima. Perche/ questa acqua che qua giu\ discende Vien da due fonte da quel poggio altano, E da l' un lato a l' altro se distende, Tanto che cinge intorno questo piano; Si\ che uscir non si puo\ chi non ascende A far prima ragion col castellano, Ove bisogna avere ardita fronte: Eccovi lui, che fuora esce del ponte. $_ Cosi\ dicendo li mostrava a dito Una gran gente che del ponte usciva. Alcun de' nostri non fo sbigotito; La gente armata sopra al piano ariva. Ranaldo e\ avanti, il cavalliero ardito, E ben ciascun de gli altri lo seguiva; Con le spade impugnate e' scudi in braccio Ben se apprestarno uscir de tal impaccio. Era tra quella gente un bel vecchione, Che a tutti gli altri ne veni\a davante, Senza arme in dosso, sopra a un gran ronzone. Costui con voce queta e bon sembiante Disse: #_ Sappiati voi, gentil persone, Che questa e\ terra del re Manodante, Ove ora entrasti, e non potresti uscire Se non volesti un giorno a lui servire. E quel servigio e\ di cotal manera Quale io vi contaro\, se me ascoltati. Ove discende al mar questa rivera Son duo castelli a un ponte edificati; Ivi dimora una persona fiera, Che molti cavallieri ha dissipati: Balisardo se appella quel gigante, Malvaggio, incantatore e negromante. Re Manodante lo voria pregione, Perche/ al suo regno ha fatto assai dannaggio, Et ha ordinato che ciascun barone Che varca al passo di quel bel rivaggio, Promette stare un giorno al parangone, Sin che sia preso o prenda quel malvaggio; Onde anco a voi la\ giuso convien gire, O in questo prato di fame morire. $_ Disse Ranaldo: #_ La\ vogliamo andare, Ne/ andiamo cercando altro che battaglia; Et io questo gigante vo' pigliare, E manco il stimo che un fascio de paglia; E incanti incanta pur, se sa incantare, Che/ non trovara\ verso che li vaglia. Or facce pur guidar via senza tardo, Si\ che io me azuffi a questo Balisardo. $_ Il castellano senza altra risposta Chiamo\ la dama de bianco vestita, Et a lei disse: #_ Fa che senza sosta Tu porti al ponte questa gente ardita. $_ Ella ben presto alla ripa s' accosta, E sorridendo quei baroni invita Ad entrar ne la nave picciolina: Lor salta^r dentro, e lei gioso camina. Giu\ per quella acqua come una saetta Fo giu\ la barca dal fiume portata, Di qua di la\ girando la isoletta; Pur se piegarno al mar l' ultima fiata, La\ dove del gran ponte ebber vedetta, Che avea tra due castelle alta murata, E sopra a l' arco di quella gran foce Sta Balisardo, saracin feroce. Proprio un fuste de torre a mezo il ponte Sembrava quel pagan di cui ragiono, Barbuto in faccia e crudo nella fronte; Il crido de sua voce parea un trono. Convien che altrove il tutto ve raconte, Che/ al presente al fin del canto sono; Ne l' altro contaro\ tal meraviglia, Che altra nel mondo a quella non somiglia. Se onor di corte e di cavalleria Puo\ dar diletto a l' animo virile, A voi dilettara\ l' istoria mia, Gente legiadra, nobile e gentile, Che seguite ardimento e cortesia, La qual mai non dimora in petto vile. Venite et ascoltati lo mio canto, De li antiqui baroni il pregio e il vanto. Tirative davanti et ascoltate Le ecelse prove de' bon cavallieri, Che avean cotanto ardire e tal bontate Che ne' perigli devenian piu\ fieri. Vince ogni cosa la animositate, E la fortuna aiuta volentieri Qualunche cerca de aiutar se stesso, Come veduto abbiam lo esempio spesso. E nel presente dico de Ranaldo, Che, essendo apena de un periglio uscito, A sotto entrare a l' altro era piu\ caldo, Ne/ se fu per incanto sbigotito. Benche/ Aridano, il saracin ribaldo, Lo avesse gia\ per tale arte schernito, Con Balisardo or torna al parangone, Spezzando incanto et ogni fatasone. Come io ve dissi nel canto passato, La\ giu\ per l' acqua il paladin sicuro Alla foce del fiume fu portato, Ove tra due castella e\ lo gran muro; E come vidde quel dismisurato, Qual sopra 'l ponte con sembiante scuro Strideva in voce di tanta roina, Che ne tremava il fiume e la marina. Ciascun de quei baron che lo han veduto, De azuffarse con lui prese disio, Benche/ fusse tanto alto e si\ membruto, E nel sembiante si\ superbo e rio. Sopra l' arco del ponte era venuto Quel maledetto e sprezzator di Dio, Sol per veder chi fusse questa gente Che giu\ callava per l' acqua corrente. Quando la dama il vide da lontano, Pallida in viso venne come terra, E dal timone abandono\ la mano, Tanta paura l' animo li afferra; Ma Dudon franco e il sir di Montealbano E gli altri dui, che han voglia di far guerra, Lascia^r la dama ne/ morta ne/ viva, E for di barca uscirno in su la riva. Longi al primo castel forse una arcata Smontarno a terra e franchi campi%oni, E caminando gionsero all' entrata, Che avea a tre porte grossi torri%oni: Ma dentro non appare anima nata, Giu\ ne la strata, o sopra nei balconi; Senza trovar persone andarno avante Sino al gran ponte; e quivi era il gigante. Entro le due castelle il fiume corre, L' arco del ponte sopra a lui voltava, Et avea ad ogni lato una alta torre; In mezzo Balisardo aponto stava, Ne/ se potrebbe a sua persona apporre, Ne/ a l' armatura che in dosso portava. Gigante non fu mai di meglior taglia, Coperto e\ a piastre et a minuta maglia. Forbite eran le piastre e luminose, E questa maglia relucente e d' oro, Con tante perle e pietre prezi%ose, Che 'l mondo non avea piu\ bel tesoro. Ora torniamo alle gente animose, Dico a' nostri baron, che ogniom di loro, Volontaroso e di animo piu\ fiero, Vo^le azuffarse et esser il primiero. Ma in fine Iroldo ottenne il primo loco, E fo percosso dal gigante e preso, E Prasildo ancor lui pur duro\ poco, E fu nel fine a Balisardo reso. Or ben sembrava il bon Ranaldo un foco, D' ira nel core e di furore acceso; Ma quel gigante ne meno\ prigioni Di la\ dal ponte e duo franchi baroni. Poi torno\ fuora squassando il bastone, E minacciando pugna adimandava. Allor se mosse il franco fio de Amone, E con roina adosso a lui ne andava; Ma avanti ingenocchiato avea Dudone, Che per mercede e grazia dimandava De gir primo de lui nel ponte avante A far battaglia contra a quel gigante. Ranaldo consenti\ mal volentiera, Ma pur non seppe a' soi colpi disdire. Questa baruffa fia d' altra maniera Che le passate, e de un altro ferire, Ne/ passara\ la cosa si\ legiera Come le due davante, vi so dire; Pero\ che 'l giovanetto de cui parlo, E\ di gran pregio nei baron di Carlo. Turpin loda Dudone in sua scrittura Tra' primi cavallier di quella corte; E quasi era gigante di statura, Destro e legiero, a meraviglia forte, E con sua mazza ponderosa e dura A molti saracin dette la morte: Ma poi di tal bonta\ si dava il vanto, Che era appellato in sopranome il Santo. Or sopra il ponte il campi%on se caccia, Di piastra e maglia armato e ben coperto; E Balisardo il forte scudo imbraccia, Come colui che e\ di battaglia esperto. L' uno e l' altro di loro avea la maccia, Si\ che un bel gioco comincia^r di certo, Menando botte de si\ gran fraccasso Che 'l fiume risuonava al fondo basso. Feritte a lui Dudon sopra la testa, E ruppe il cerchio a quello elmo forbito, E fu il gran colpo di tanta tempesta, Che Balisardo cadde sbalordito. Dudon mena a due mane, e non s' arresta Sopra il pagano il giovanetto ardito; Gionse nel scudo, che e\ d' argento fino, Tutto lo aperse il franco paladino. Ma, come fusse dal sonno svegliato Per l' altro colpo, il saracino altiero Salta di terra, e subito e\ dricciato Et alla zuffa ritorno\ primiero. Mena a Dudone, e gionselo al costato Col suo baston, che gia\ non e\ ligiero, Anci e\ ben cento libre e piu\ de peso: Cadde alla terra il giovane disteso. Per quel gran colpo ando\ Dudone a terra, E non poteva trare il fiato apena, Ma non per questo abandono\ la guerra, Come colui che avea soperchia lena; Presto se riccia e la sua mazza afferra, Sopra de l' elmo a Balisardo mena, E la farsata al capo ben gli accosta, Poi che adocchiato ha sempre quella posta. Sempre alla testa toccava Dudone, Sopra alle tempie, in fronte e nella faccia; E quel menava ancora il suo bastone, Or sopra al collo, or sopra ambe le braccia. Risuona il celo alla cruda tenzone, E par che 'l mondo a foco se disfaccia: Quando l' un l' altro ben fermo se ariva, Tra ferro e ferro accende fiama viva. Tira Dudone adosso a quel malvaso, Sopra il frontale ad ambe mani il tocca; Roppe ad un colpo tutto quanto il naso, E ben tre denti li caccio\ di bocca. Senza sapone il mento gli ebbe raso, Perche/ la barba al petto gli dirocca, E meno\ il tratto si\ dolce e ligiero, Che seco trasse il zuffo tutto intiero. Quando se vidde il falso Balisardo De una percossa tanto danneggiare, Poi che il franco Dudone e\ si\ gagliardo Che a sua prodezza non puotea durare, Verso l' alto castel fece riguardo, E prestamente se ebbe a rivoltare; Getta il bastone e 'l scudo in terra lassa, E per il ponte via fuggendo passa. Segue Dudone e nel castel se caccia, Che/ non temeva il giovane altro scorno. Come fu dentro, gionse entro una piaccia Edificata di colonne intorno, Con volte alte e dorate in ogni faccia. Il so^l di sotto e\ di marmoro adorno, Ne/ persona si vede in verun lato Fuor che 'l gigante, che e\ gia\ disarmato. Poste avea l' arme e' pagni il fraudolente, E tutto quanto ignudo se mostrava, Et avea il collo e il capo di serpente, E 'l resto a poco a poco tramutava. Ambe le braccia fece ale patente, E l' una gamba e l' altra se avingiava, E fiersi coda; e poi d' ogni gallone Uscirno branche armate e grande ongione. Mutato, come io dico, a poco a poco, Tutto era drago il perfido gigante, Gettando per l' orecchie e bocca foco, Con tal romore e con fiaccole tante, Che le muraglie intorno di quel loco Pareano incese a fiamma tutte quante. Ben puotea fare a ciascadun paura, Perche/ era grande e sozzo oltra misura. Ma non smarritte la persona franca Del giovanetto, degno d' ogni loda. Viensene il drago e nel scudo lo branca, E per le gambe volta la gran coda, Si\ che, prendendo intorno ciascuna anca, Giu\ per le coscie insino ai pie\ l' annoda; Non se spaventa per questo Dudone, Getta la mazza e prende quel dragone. Nel collo il prese, a presso de la testa, Ad ambe mani, e si\ forte l' afferra, Che a quella bestia, che e\ tanto robesta, Il fiato quasi e l' anima gli serra. Da se/ lo spicca, e poi con gran tempesta Lo gira ad alto e trallo in su la terra, Che era la strata a pietra marmorina; Sopra vi batte il drago a gran roina. La\ dove gionse, se aperse la piaccia, Tutto si fese il marmo da quel lato; Sotto la terra il serpente se caccia, Benche/ di fora e\ subito tornato. Ma gia\ cangiata avea persona e faccia, Et era istranamente trasformato, Che/ il busto ha d' orso e 'l capo de cingiale: Mai non se vidde il piu\ crudo animale. Fatto avea il capo de porco salvatico Costui, che in ogni forma sapea vivere, E non seri\a poeta, ne/ grammatico Che lo sapesse a ponto ben descrivere. Ora, ben che de cio\ poco sia pratico, Dal muso al pie\ convien che tutto il livere: Poi che io cominciai sua forma a dire, Come era fatto vi voglio seguire. Lunghi duo palmi avea ciascadun dente E gli occhi accesi de una luce rossa, Piloso il busto e d' orso veramente, Con le zampe adongiate e di gran possa; La coda ritenuta ha di serpente, Sei braccia lunga et a bastanza grossa; L' ale avea grande e la testa cornuta: Piu\ strana bestia mai non fu veduta. Venne mugiando adosso al giovanetto, Ne/ lui per tema le spalle rivolse, Ma ben coperse sotto il scudo il petto, E prestamente in man sua mazza tolse. Or gionse il negromante maledetto, E con le corne a mezo il scudo acolse; Tutto il fraccassa, e rompe usbergo e piastre, E lui disteso abatte in su le lastre. Subitamente si fu rilevato, Si\ come cadde il giovanetto franco; Ma quel malvagio che era tramutato, Per lo traverso lo feri\ nel fianco. Con uno dente il gionse nel costato, Si\ che gli fece il fiato venir manco; Il fiato venne manco e crebbe l' ira: Alcia la mazza ad ambe mane e tira. Sopra del capo a l' animal diverso Tira sua mazza il paladino adorno; Dal destro lato il gionse de roverso, E con fraccasso manda a terra un corno. Or ben si tiene Balisardo perso, E per la loggia va fuggendo intorno; Per le colonne d' intorno alla piazza Ne va fuggendo, e il bon Dudone il cazza. Battendo l' ale basso basso giva, Ne/ mai spiccava da terra le piante; Cosi\ fuggendo, a la marina usciva Fuor del castello; et ecco in quello istante Una alta nave dentro al porto ariva. Sopra di quella il falso negromante Fu prestamente de un salto passato; E Dudon dietro, et e\gli sempre a lato. Sopra la nave, qual ch' io v' ho contato, Proprio alla prora stava un laccio teso, Ove Dudone intrando fu incappato, Ne/ so a qual modo subito fu preso; E per ambe le braccia incatenato, Sotto la poppa fu posto di peso Da molti marinari e dal parone; Or piu\ di lui non dico, che e\ pregione. De Balisardo voglio racontare, Che nella forma sua presto torno\, E fece il giovanetto disarmare, Poi di quelle arme tutto se adobbo\. Proprio Dudone alla sembianza pare; Prese la mazza e il suo baston lascio\, E se cambio\ la voce e la fazione, Che ogniom direbbe: #" Egli e\ proprio Dudone. $" Con tal fazione il perfido ribaldo Passo\ il primo castello, e nel secondo Vicino al ponte ritrovo\ Ranaldo, Che lo aspettava irato e furibondo. Ma, come il vidde, il dimando\ di saldo Se Balisardo avea tratto del mondo, Perche/ lui crede senza altra mancanza Ch' el sia Dudone a l' arme e alla sembianza. E quel rispose: #_ Il gigante e\ fuggito, Et io gli ho dato tre miglia la caccia. Prima l' aveva nel capo ferito, E rotto il muso e 'l mento con la faccia: Fuor della rocca l' ho sempre seguito, Sino ad un fiume largo cento braccia. Dentro a quella acqua se getto\ il malvaso, Ove ogni altro che lui seri\a rimaso. Ma non te sapria dir per qual ragione A l' altra ripa lo viddi passato, La\ dove stava Iroldo, che e\ pregione, E Prasildo, che apresso era legato. Ambo gli viddi sotto al pavaglione, La\ dove Balisardo era fermato, Ma non mi dette il core a trapassare L' acqua, che al corso una roina pare. $_ Ranaldo non lascio\ piu\ oltra dire, Ma sopra il ponte subito e\ passato, A lui dicendo: #_ Io voglio anzi morire, Che vivo rimaner vituperato; Ne/ mai nel mondo se puotra\ sentire Ch' io abbi un mio compagno abandonato, Si\ come tu facesti, omo da poco, Che temi l' acqua; or che faresti 'l foco ? $_ Mostro\ il gigante in forma de Dudone Forte adirarse per queste parole, Onde rispose: #_ Paccio da bastone! Che/ sempre alla tua vita fusti un fole, E stimi esser tenuto un campi%one Con questo tuo zanzare; altro ci vo^le Che per se stesso tenersi valente Stimando gli altri poco e da ni%ente. Or vanne tu, ch' io non voglio venire, E varca il fiume, poi che sai natare. $_ Ranaldo, non curando del suo dire, Subitamente il ponte ebbe a passare. Lasciollo Balisardo alquanto gire, Mostrando a quella porta riposare; Poi di nascoso il falso malandrino Per darli morte prese il mal camino. Per l' altra strata lui gionse improviso, E feri\ del bastone ad ambe mano; Ne/ gia\ se gli mostro\ davanti al viso, Anci alle spalle il perfido pagano, E ben credette de averlo conquiso, E roi%narlo a quel sol colpo al piano; Ma lui, che avea possanza smisurata, Non ando\ a terra per quella mazzata. Anci se volse, e con voce cortese Dicea: #_ Fanciullo, ora che credi fare? Se io non guardassi al tuo padre Danese, Sotto la terra ti farebbi entrare. Vanne in malora e cerca altro paese! $_ Cosi\ dicendo s' ebbe a rivoltare, Ma nel voltarsi il saracin fellone Sopra la coppa il gionse del bastone. Ranaldo se avampo\ nel viso de ira, E disse: #_ Testimonio il ciel mi sia, Che contra al mio voler costui mi tira A darli morte sol per sua foli\a. $_ Cosi\ parlando di pieta\ sospira, Tanto lo stringe amore e cortesia; Benche/ dritta ragione e sua diffesa Lo riscaldasse alla mortal impresa. Trasse Fusberta e comincio\ la zuffa, Com' quel che crede che lui sia Dudone. Or s' io vi conto come se ribuffa L' un colla spata e l' altro col bastone, E tutti e colpi di quella baruffa, Che ben duro\ cinque ore alla tenzone, A ricontarvi tutto io staria tanto, Che avria finito questo e un altro canto. Ma per conclusi%on vi dico in breve: Benche/ il gigante sia de ardire acceso, E l' abbi quel baston cotanto greve, Che un altro non fu mai de cotal peso, Pure alla fine, come un om di neve, Serebbe da Ranaldo morto o preso, Se per incanto o per negromanzia Non ritrovasse al suo scampo altra via. Perche/ in cento maniere Balisardo Se tramutava per incantamento; Fiesse pantera con terribil guardo, Et altre bestie assai di gran spavento. Tramutosse in i%ena, in camelpardo, E in tigro, ch' e\ si\ fiero e si\ depento, E fie' battaglia in forma de griffone, De cocodrillo e in mille altre fazone. E dimostrosse ancor tutto de foco, Qual sfavillava come de fornace. Ranaldo, in cui dotanza non ha loco, Salto\ nel mezo, il paladino audace, E la rovente fiamma estima poco, Ma con Fusberta tutta la disface; E gia\ trenta ferite ha quel pagano, Benche/ piu\ volte e\ tramutato invano. Al fin tutto deserto e sanguinoso Fuor della porta se pose a fuggire; Or sendo occello, ora animal peloso, E in tante forme ch' io non saprei dire. Ranaldo sempre il segue furi%oso, Che destinato e\ di farlo morire. Gia\ sono alla marina; senza tardo Sopra alla nave salta Balisardo. Dalla ripa alla nave e\ poco spaccio, De un salto Balisardo fu passato; E 'l fio de Amon, che non teme altro impaccio, Dietro gli salta tutto quanto armato; E nella intrata se incappo\ nel laccio, Ove Dudone prima fu pigliato. Sue braccie e gambe avengia una catena; Ben se dibatte invano e si dimena. Non valse il dimenar, che/ preso fu Da duo poltron coperti de pedocchi, E sotto poppa lo menarno giu\, La\ dove il sole gli abagliava gli occhi. Tre onze avra\ Ranaldo e non gia\ piu\ De biscotella, che e\ senza fenocchi, Vivendo a pasto come un Fiorentino, Ne/ bri%aco sera\ per troppo vino. In cotal modo stette un mezo mese, Incatenato per piedi e per mane, Con altre gente che seco eran prese, Dico e compagni e piu\ persone istrane; Sin che arivarno a l' ultimo paese De Manodante, a l' Isole Lontane, Ove furno alloggiati a una pregione Prasildo, Iroldo, Ranaldo e Dudone. Ben forte il guardi%an dentro gli serra, Ma ciascuno avea prima dislegato. Molta altra gente quivi eran per terra Giacendo e in piede, d' intorno e da lato; Tra questi stava Astolfo de Anghilterra, Che pur da Balisardo fu pigliato; El modo a dir seri\a lunga novella, Perche/ lo prese in forma de donzella. Quando partisse la\ dove Aridano Cadette con Ranaldo a quel profondo, Lui con Baiardo e il destrier Rabicano E con due dame ando\ cercando il mondo, Sempre piangendo e sospirando invano, Poi che ha perduto il suo cugin iocondo; E cosi\ caminando gionse un giorno Ove al castello odi\ suonare il corno: A quel castello ove era la riviera Che al verde piano intorno lo girava; E quella dama, che era passaggiera, Da Balisardo al ponte lo guidava. Quivi fu preso per strana maniera, Che/ in forma de donzella lo gabbava: Or non vi e\ tempo racontarvi il tutto Come in la nave al laccio fu condutto. Pero\ che mi conviene ora tornare Al conte Orlando, qual, come io contai, Volse questi compagni abandonare, Sol per colei che gli dona tal guai, Che giorni e notte nol lascia posare; E quel pensier non l' abandona mai, Ma sempre a rivederla lo retira: Sol di lei pensa e sol per lei sospira. Con Brandimarte il franco paladino A rivedere Angelica tornava, E per contar che strutto avea il giardino, Et esser presto se altro comandava. Al terzo giorno di questo camino, Che 'l sole a ponto alora si levava, Trovarno a lato un fiume una pianura Tutta di prato e di bella verdura. Stative queti, se voleti odire De' duo che ritrovarno in questo loco, Che l' un sapea cacciar, l' altro fuggire: A riguardarli mai non fu tal gioco. Or chi fosser costoro io vo' dire, Se ve amentati della istoria un poco, Quando a Marfisa quel ladro africano Tolse, Brunello, il bon brando di mano. E lei {add} seguito {/add; segui\to Z} l' ha sino a quel giorno, E de impiccarlo sempre lo minaccia. Lui la beffava ogniora con gran scorno, E cento fiche gli avea fatto in faccia. A suo diletto la menava intorno, Gia\ sei giornate gli ha dato la caccia; Esso, per darle piu\ battaglia e pena, Sol per gabbarla dietro se la mena. Lui ben seri\a scampato de legiero, Che a gran fatica pur l' avria veduto, Pero\ che egli era sopra quel destriero Che un altro non fu mai cotanto arguto; Ne/ credo che a contarvi sia mestiero, Come l' avesse l' Africano avuto: Alor che ad Albraca\ se fu condotto, A Sacripante lo involo\ di sotto. Or, come io dico, sempre intorno giva, Beffando con piu\ scherni la regina; E lei di mal talento lo seguiva, Perche/ pigliarlo al tutto se destina. Trista sua vita se adosso gli ariva! Che/ lo fraccassera\ con tal ruina, Che il capo, il collo, il petto e la corata Tutte fian peste sol de una guanzata. A questa cosa sopragionse Orlando, Come io vi dissi, insieme e Brandimarte, E l' uno e l' altro alquanto remirando, Senza fare altro, se tirarno in parte. Or, bei segnori, a voi mi racomando, Compi\to ha questo canto le sue carte, Et io per veritate aggio compreso Che il troppo lungo dir sempre e\ ripreso. Gente cortese, che quivi de intorno Seti adunati sol per ascoltare, Dio vi dia zoia a tutti, e ciascun giorno Vostra ventura venga a megliorare; Et io cantando a ricontar ritorno La bella istoria, e voglio seguitare Ove io lasciai Marfisa sopra al piano, Che e\ posta in caccia dietro allo Africano: Dietro a quel ladro, io dico, de Brunello, Che gia\ dal re Agramante fu mandato Per involar de Angelica lo annello; Ma lui piu\ fie' che non fu comandato, Perche/ un destriero il falso ribaldello De sotto a Sacripante avea levato, Et a Marfisa di man tolse il brando; So che sapeti il tutto, e come, e quando. E lei, che a meraviglia era superba, Si\ come gia\ piu\ volte aveti inteso, L' avea seguito in quel gran prato de erba Gia\ da sei giorni, et anco non l' ha preso; Onde di sdegno la donzella acerba Se consumava ne l' animo acceso, Poi che con tante beffe e tanto scorno Li agira il capo quel giottone intorno. Perche/, fuggendo e mostrando paura, Gli stava avanti e non si dilungava; Et or, voltando per quella pianura, Spesso alle spalle ancor se gli trovava; E per mostrar di lei piu\ poca cura, La giuppa sopra al capo rivoltava, E poi se alciava (intenditime bene) Mostrando il nudo sotto dalle rene. Il conte Orlando, che stava da parte E cognosciuta avea prima Marfisa, Mirando l' atto, et esso e Brandimarte Di quel giottone insieme fier' gran risa; Ma la regina per forza o per arte Pigliar pur vo^l Brunello ad ogni guisa, Per far de tanti oltraggi alfin vendetta: E lui fuggendo sembra una saetta. Fuggeva, spesso il capo rivoltando, E truffava di lengua e delle ciglia. Nel passar di traverso vidde Orlando, E di torli qualcosa se assotiglia. L' occhio gli corse incontinenti al brando, Che fu gia\ fatto con tal meraviglia Da Falerina de Orgagna al giardino: Brando nel mondo mai fu tanto fino. Egli era bello e tutto lavorato D' oro e de perle e de diamanti intorno: Ben si serebbe il ladro disperato, Se avuto non avesse il brando adorno. Subitamente lo trasse da lato; Mai non se vidde al mondo maggior scorno, Che/ 'l ladro passa e crida al conte: #_ Ascolta, Io torno per il corno a l' altra volta. $_ Del brando non se avidde alora il conte, Ma alla minaccia sol del corno attese. Quel corno de cui parlo, fu de Almonte, Che il trasse a uno elefante in suo paese, Poi lo perse morendo in Aspramonte (Si\ come io credo che vi sia palese), Allor che Brigliadoro e Durindana Acquisto\ Orlando sopra alla fontana. Come la vita il conte l' avea caro, Pero\ lo prese prestamente in mano; Ma non valse a tenerlo alcun riparo, Tanto e\ malvaggio quel ladro Africano. E ben che aponto io non sappia dir chiaro Come passasse il fatto in su quel piano, Pur vi concludo senza diceria Che 'l ladro tolse il corno e fuggi\ via. Benche/ Marfisa l' ha sempre seguito, Lui ne va via col corno e con la spata. Quivi rimase il conte sbigotito, Ne/ sa come la cosa sia passata. Gia\ de sua vista e\ quel ladro partito, Con Marfisa alle spalle tutta fiata; Ne/ lui, ne/ Brandimarte ormai lo vede, Ne/ lo posson seguir, che/ sono a piede. Onde, biasmando tal disaventura, Via se ne vanno, e non san che se fare. Ciascuno aveva indosso l' armatura, Che a piede e\ mala cosa da portare. Or, caminando per quella pianura, Sopra de un fiume vennero arivare. Oltre a quella acqua, in un bel prato piano, Stava una dama col destriero a mano. Da l' altra ripa, aponto ove si varca, Era la dama del destrier discesa; In mezo il fiume, sopra de una barca, Un' altra dama avea seco contesa. Quella di la\ quest' altra molto incarca De biasmi, e de ogni inganno l' ha ripresa, #_ Perfida, $_ a lei dicendo #_ a che cagione M' hai qua passata a ponermi in pregione? $_ Altre parole usarno ancor tra loro, Si\ come l' una dama a l' altra dice. Mentre che contendeano a tal lavoro, Orlando gionse in su quella pendice, Et ebbe visto il destrier Brigliadoro, Che gia\ gli tolse quella traditrice; Non so se aveti alla istoria il pensiero, Quando Origilla a lui tolse il destriero. Quella Origilla che gia\ sopra al pino Si stava impesa per le chiome al vento, E poi, campata dal bon paladino, Gli tolse Brigliadoro a tradimento; Ne/ molto dopo in Orgagna al giardino, Ove fu l' opra dello incantamento, Di novo ancor la perfida villana Li tolse il bon destriero e Durindana. Orlando quivi la trovo\ contendere Con l' altra, come io ho detto pur mo. Or, bei segnor, voi doveti comprendere Che la fiumana di cui parlato ho, E\ quella ove Ranaldo volse scendere Con tre compagni, e mai non ritorno\, Ma fu ad inganno ne la nave preso Da Balisardo, come aveti inteso. Si\ come il conte vidde la donzella Che col destriero a l' altra ripa stava, Amor di novo ancora lo martella, Ne/ il doppio inganno piu\ si ramentava, Che gli avea fatto quella anima fella; Lui fuor di modo piu\ che inanzi amava. Chiese di grazia a quella passaggiera Che per {add} merce/ {/add; merce\ Z} lo varca la riviera. Et Origilla, che cognobbe il conte, Ben se credette alora de morire; Pallida viene et abassa la fronte, E per vergogna non sa che se dire. Intorno ha il fiume senza varco o ponte, E gionta e\ in loco che non puo\ fuggire; Ma non bisogna a lei questa paura, Che/ Orlando l' ama fuor d' ogni misura. E ben ne fece presto dimostranza, Come a lei gionse, con dolci parole. Essa piangendo, o facendo sembianza, Si\ come far ciascuna donna suole, Al conte dimandava perdonanza, E tanto invilupo\ frasche e vi%ole, Come colei che a frascheggiare era usa, Che al suo fallire aritrovo\ la scusa. Mentre che fu tra loro il ragionare Alla riviera sopra al verde piano, Odirno ad alto un corno risuonare Del castelletto sopra al poggio altano; E poi vidderno al ponte giu\ callare E scendere alla costa il castellano. Senz' arme quel vecchione in arcion era, Ma seco avea d' armati una gran schiera. Come fu gionto, al conte fie' riguardo, E salutollo assai cortesemente; Poi, si\ come era usato, quel vecchiardo Narro\ la loro usanza e conveniente Del ponte ove dimora Balisardo, Qual consumata avea cotanta gente; Come era incantator, falso e ribaldo, E cio\ che prima avea detto a Ranaldo. Senza longare in piu\ parole il fatto, Giu\ per quel fiume Orlando fu portato, E seco in nave Brandimarte adatto, Et Origilla gli sedea da lato; E volse il conte sopra ad ogni patto Che Brigliador ben fusse governato. Il castellano il tolse, a giuramento Cio\ promettendo; e 'l conte fu contento. Gionti alla foce, ove il fiume entra in mare E sotto il ponte roi%noso corre, Gia\ sotto a l' arco Balisardo appare, Che quasi pareggiava quella torre. A questo ponto vi sera\ che fare, Perche/ tutto l' inferno all' un soccorre, E l' altro e\ si\ gagliardo di natura, Che omo del mondo contra a lui non dura. Voi doveti, segnori, avere a mente Come era fabricata la muraglia Ove se varca quella acqua corrente: Quivi discese Orlando alla battaglia. Sopra alla entrata non era altra gente, Ne/ porta chiusa avanti, ne/ serraglia. Poi che fu tutto quel castel passato, Trovarno al ponte Balisardo armato. Benche/ pregasse Brandimarte assai Di poter gire alla battaglia avante, Non volse Orlando aconsentir giamai, Ma trasse il brando et isfido\ il gigante. Sua Durindana, come io vi contai, Ha racquistata il bon conte d' Anglante, E comencion battaglia aspra e feroce A mezo il ponte sopra quella foce. Or chi sentesse la destruzi%one De l' arme rotte, e l' elmi risuonare, E vedesse il gigante col bastone, Con Durindana il conte martellare, E piastre e maglia a gran confusi%one Tirare a terra e per l' aria volare, Il mondo non ha cor cotanto ardito, Che a tal furor non fusse sbigotito. Ambi gli scudi a quello assalto fiero Per la piu\ parte a terra erano andati, Ne/ l' un ne/ l' altro avea in capo cimiero, Li usberghi in dosso han rotti e fraccassati; Ne/ contar ve potrebbi de legiero Tutti per ponto e colpi smisurati, Ma sempre al conte cresce ardire e possa, A l' altro ormai la lena e il fiato ingrossa; Et e\ ferito ancora in molte parte, Ma piu\ disconciamente nel costato, Onde malvaggio torna alle sue arte Per tramutarse, come era adusato; L' arme, che intorno avea tagliate e sparte, Gettarno foco e fiamma in ogni lato, Facendo sopra loro un fumo scuro; Tremo\ la terra in cerco e tutto il muro. Lui si fece demonio a poco a poco: Come un biscione avea la pelle atorno, Da nove parte fuor gettava il foco, E sopra ad ogni orecchia avea un gran corno; Tutte le membre avea nel primo loco, Ma sfigurato dalla notte al giorno, Perche/ ha la faccia orrenda e tanto scura, Che puotea porre a ciascadun paura. E l' ale grande avea di pipastrello, E le mane agriffate come uncino, Li piedi d' oca e le gambe de ocello, La coda lunga come un babui%no. Un gran forcato prese in mano il fello, Con esso vien adosso al paladino, Soffiando il foco e degrignando e denti, Con cridi et urli pien d' alti spaventi. Fecesi il conte il segno della croce, Poi sorridendo disse: #_ Io me credetti Gia\ piu\ brutto il demonio e piu\ feroce. Via nell' inferno va, tra' maledetti, La\ dove e\ il fuoco eterno che vi coce; E certo io provaro\, se tu me aspetti Alla battaglia, come sei gagliardo, O vogli esser demonio, o Balisardo. $_ Cosi\ ricomincio\ nuova tenzone, Ne/ l' un da l' altro poco s' allontana. Orlando gionse un colpo nel forcone, E tutto lo taglio\ con Durindana. Or ben se avidde il perfido giottone Che non gli puo\ giovar quella arte vana, Onde si volta e fugge verso il mare; Battendo l' ale par che aggia a volare. Orlando il segue, et e\gli ancor ben presso, Perche/ a seguirlo ogni sua forza aguzza; E Balisardo se afrettava anco esso: Trista sua vita se ponto scapuzza! La coda alciava per la strata spesso, Lasciando vento e foco con gran puzza; Soffia per tutto, tal spavento il tocca, La lingua piu\ d' un palmo ha fuor di bocca. Brandimarte ancor lui dietro si andava, Sol per veder di questa cosa il fine. L' un dopo l' altro correndo arivava Sopra al bel porto; e tra l' onde marine Presso la ripa la nave si stava, Che l' altre gente avea fatte tapine. Sopra di quella Balisardo passa, E il conte apresso, che giammai nol lassa. Il negromante, che e\ di mala mena, D' un salto sopra il laccio fu passato, Ma il conte trabucco\ ne la catena, E tutto intorno fu presto legato; Ne/ fu disteso in su la prora apena, Che e marinari uscirno ad ogni lato. Tutti cridano insieme col parone: #_ Sta saldo, cavallier, tu sei pregione. $_ Lui se scotteva e gia\ non stava in posa, Perche/ esser preso da tal gente agogna, Morta di fame, nuda e pedocchiosa; Ma quel che vo^l Fortuna, esser bisogna. Vermiglia avea la faccia come rosa Il conte Orlando per cotal vergogna; Due galiofardi grandi l' ebber preso Sopra alle spalle, e lo porta^r di peso. Ma Brandimarte gionse in su la riva, Che, come io dissi, avea questi seguiti; Quando la voce del suo conte odiva, Non fo^r bisogno a quel soccorso inviti; Sopra alla nave de un salto saliva, E quei ribaldi, tutti sbigotiti, Lasciano Orlando e non san che si fare: Chi fugge a poppa, e chi salta nel mare. E certo di ragione avean paura, Che/ come al libro de Turpino io lezo, Duo pezzi fece de uno alla centura, E parti\ uno altro nel petto per mezo, Si\ come avesse a ponto la misura. Lor, cio\ mirando e temendo di pezo, Fuggian ciascun tremando e sbigotito; Or fuor di novo e\ Balisardo uscito. Fuor della poppa usci\ l' alto gigante, Che in la sua propria forma era tornato; Le gente della zurma, che eran tante, Chi se pose a sue spalle, e chi da lato. L' arme avean ruginente tutte quante, Quale e\ discalcio, e quale era strazato, Ben che sian gente al navicar maestre; E tutti han tarche e dardi e gran balestre. Per Balisardo avean ripreso core, Cridando tutti insieme la canaglia, Che non se odi\ giamai tanto romore. Nel mezo della nave e\ la battaglia; Tra lor da\ Brandimarte a gran furore, Che/ tutti non li stima una vil paglia; Man roverso e man dritto il brando mena: Tutta la nave e\ gia\ di sangue piena. Cosi\ menava Brandimarte ardito, Fendendo a chi la testa a chi la panza. Ora ecco Balisardo ebbe cernito, Che de una torre armata avea sembianza. Gia\ non bisogna che si mostri a dito, Che/ undeci palmi sopra gli altri avanza; E Brandimarte verso lui s' accosta, E dietro a meza coscia il colpo aposta. Piu\ basso alquanto il brando fu disceso, Che/ e colpi non si ponno indovinare; Taglio\ le gambe, e cadde. Di quel peso La nave se piego\ per affondare. Il busto sopra il legno ando\ disteso, Et ambe due le gambe andarno in mare; Qua non vale arte de negromanzia, Che/ Brandimarte il tocca tuttavia. Lui chiamava il demonio con tempesta, Ali%el, Libicocco e Calcabrina; Ma Brandimarte gli taglio\ la testa, E via nel mar la trasse con roina. Or se incomincia de' morti la festa Tra la zurmaglia misera e tapina: Chi salta in mare, e chi nella carena, Chi per le corde scappa in su l' antena. Tutta la gente misera e diserta Fu dissipata, come io vi ho contato, E non rimase sopra la coperta Se non il conte, che era incatenato, E Balisardo, concio come il merta, E Brandimarte, che era gia\ montato Sopra la poppa, e la\ trovo\ il parone, Che avante a lui se pose ingenocchione, Misericordia sempre dimandando, Et acquisto\ perdono umanamente; E torno\ Brandimarte al conte Orlando E tutto il dislego\ subitamente. Poi col parone entrambi ragionando, E fatta ritornar quella altra gente, De cio\ che e\ fatto, non se da\nno affanno: Quei che son morti, lor se ne hanno il danno. E poi che insieme fo^r pacificati, Come io ho detto, incomincio\ il parone: #_ Segnori, io so che ve meravigliati, Che/ da meravigliare e\ ben ragione, De questo loco ove seti arivati, Quando per forza de incantazi%one Se facea Balisardo trasformare, Ch' e\ quivi occiso, e gettarenlo in mare. Perche/ intendiati il fatto meglio avante, Il tutto vi faro\ palese e piano. Un vecchio re, nomato Manodante, A Damogir se sta, ne l' occea\no, Ove adunate ha gia\ ricchezze tante, Che stimar nol potria lo ingegno umano; Ma la Fortuna in tutto a compimento Ne/ lui ne/ altrui giamai fece contento. Pero\ che per duo figli il re meschino E\ stato e stanne ancora in gran dolore; Il primo fu involato piccolino Da un suo schiavo malvaggio e traditore. Io viddi il schiavo, e nomase Bardino, Picchiato in faccia e rosso di colore, Coi denti radi e col naso schiazato: Porto\ il fanciullo, e mai non e\ tornato. A l' altro giovanetto e\ne incontrata, Come odireti, una sventura strana, Perche/ pregione e\ fatto de una fata. Non so se odesti mai nomar Morgana; Quella del giovanetto e\ inamorata, Quale ha beltate angelica e soprana, Per cio\ l' ha chiuso in un loco profondo: Di fuor per forza nol trarebbe il mondo. Ma lei fatto have al re promissi%one Lasciare il giovanetto salvo e sano, Se un cavallier gli puo\ donar pregione, Che Orlando e\ nominato, il Cristi%ano; Pero\ che un' opra de incantazi%one, Fabricata in un corno troppo istrano, Che serebbe a contar molta lunghezza, Disfece il cavallier per sua prodezza. Onde lo vo^l pregione a ogni partito La fata, e ben lo avra\, s' io non me inganno; Ma, perche/ egli e\ feroce e tanto ardito, Se avrebbe nel pigliarlo molto affanno; Per cio\ quel Balisardo che e\ perito (Cosi\ se n' abbi in sua malora il danno), Presente il nostro re se dette il vanto De dargli Orlando preso per incanto. Ma sino ad or non gli e\ venuto fatto, Benche/ ha pigliate gia\ gente cotante, Che io non potrei contarle a verun patto. Fovi preso un Grifone e uno Aquilante, Et uno Astolfo a quel laccio fu tratto, E fu preso un Ranaldo poco avante, E seco un altro giovane garzone; Se ben ramento, egli ha nome Dudone. L' altra gente ch' e\ presa, e\ molta troppa, Ne/ mi basta a contarli lo argumento; Tutti son scritti la\ sotto la poppa, E legger vi si po^n, chi n' ha talento. Ma tante foglie non lascia una pioppa La\ nel novembre, quando soffia il vento, Quanti e\nno e cavallier che quel gigante Fatto ha condur pregioni a Manodante. $_ Mentre che quel paron cosi\ parlava, Orlando dentro se turbo\ nel core, Perche/ color che costui nominava Della Cristianitate erano il fiore, Et egli ad uno ad un tutti gli amava, Et avea di sua presa gran dolore; E destino\ tra se/ quel franco sire De trargli di prigione, o de morire. E poi che quel paron si stette queto, Che alcun di lor piu\ non stava ascoltare, Parlo\ con Brandimarte di secreto, A lui dicendo cio\ che voglia fare; Poi mostrandosi il conte in volto lieto Prega il paron che lo voglia portare Avanti al re, pero\ che al suo comando Gli dava il cor de appresentargli Orlando. E cosi\, navicando con bon vento, Fo^rno condutti a l' Isole Lontane; E quei duo cavallier pien de ardimento Al re s' appresentarno una dimane Sopra una sala, che d' oro e d' argento Era coperta de figure strane; Che/ cio\ che e\ in terra e in mare e nel celo alto, La\ dentro era intagliato e posto a smalto. Lor fierno la proposta a Manodante, Contando che per sua deffensi%one Balisardo avean morto, il fier gigante, Promettendoli Orlando dar pregione. Per questo gli fu fatto bon sembiante Et alloggiati fo^rno a una maggione Ricca, adobbata, li\ presso al palagio, Ove si sterno con diletto ad agio. Era con seco la falsa donzella, Che/ 'l conte non la volse mai lasciare, Qual e\ tanto fallace e tanto bella, Quanto di sopra odesti racontare. Or questa intese tutta la novella Dal conte Orlando, e cio\ che dovea fare, Perche/ qualunche a cui se porta amore Tra' gli secreti insin de mezo il core. Or questa dama assai Grifone amava (So che il sapeti, che/ gia\ lo contai), E di vederlo tutta sfavillava, Ne/ d' altro pensa giorno e notte mai; E ben sa che in pregione ora si stava. Ma questo canto e\ stato lungo assai: Posati alquanto e non fati contese, Che a dir nell' altro io vi sero\ cortese. Stella de amor, che 'l terzo cel governi, E tu, quinto splendor si\ rubicondo, Che, girando in duo anni e cerchi eterni, De ogni pigrizia fai digiuno il mondo, Venga da' corpi vostri alti e superni Grazia e virtute al mio cantar iocondo, Si\ che lo influsso vostro ora mi vaglia, Poi ch' io canto de amor e di battaglia. L' uno e l' altro esercizio e\ giovenile, Nemico di riposo, atto allo affanno; L' un e l' altro e\ mestier de omo gentile, Qual non rifuti la fatica, o il danno; E questo e quel fa l' animo virile, A benche/ al di\ de {add} anco\i, {/add; ancoi, Z} se io non m' inganno, Per verita\ de l' arme dir vi posso Che meglio e\ il ragionar che averle in dosso, Poi che quella arte degna et onorata Al nostro tempo e\ gionta tra villani; Ne/ l' opra piu\ de amore anco e\ lodata, Poscia che in tanti affanni e pensier vani, Senza aver de diletto una giornata, Si pasce di bel viso e guardi umani; Come sa dir chi n' ha fatto la prova, Poca fermezza in donna se ritrova. Deh! non guardate, damigelle, al sdegno Che altrui fa ragionar come gli piace; Non son tutte le dame poste a un segno, Pero\ che una e\ leal, l' altra fallace; Et io, per quella che ha il mio core in pegno, Cheggio mercede a tutte l' altre e pace; E cio\ che sopra ne' miei versi dico, Per quelle intendo sol dal tempo antico: Come Origilla, quella traditrice, Qual per aver Grifone in sua bali\a (Che/ il cor gli ardea d' amor ne la radice) A Manodante ando\, la dama ria; E cio\ che Orlando a lei secreto dice Per trar fuor quei baron de pregionia, E le cose ordinate tutte quante, Lei le rivela e dice a Manodante. Quando il re intese che quivi era Orlando, Nella sua vita mai fu piu\ contento. Se stesso per letizia dimenando, Gia\ parli avere il figlio a suo talento; Ma poi nella sua mente anco pensando Del cavallier la forza e lo ardimento, Comprende bene e gia\ veder gli pare Che nel pigliarlo assai sera\ che fare. Alla donzella fece dar Grifone, Si\ come a lei promesso avea davante, Ma lui non volse uscir mai de prigione, Se seco non lasciava anco Aquilante; E fu lasciato a tal condizi%one, Che loro et Origilla in quello istante Si dipartin dal regno alora alora, Senza piu\ fare in quel loco dimora. Cosi\ lor se partirno a notte oscura: Ancor vi contaro\ del suo vi%aggio. Or torno a Manodante, che ha gran cura D' aver quel cavallier senza dannaggio, Perche/ di sua prodezza avea paura; Onde fece ordinare un beveraggio, Che dato a l' omo subito adormenta Si\ come morto, e par che nulla senta. A quei baron, che non avean sospetto, Fu meschiato nel vino a bere a cena, E poi la notte fo^r presi nel letto E via condotti, ne/ il sentirno a pena; Pero\ che 'l beveraggio che io vi ho detto, Si\ gli avea tolto del sentir la lena, Che fo^r portati per piedi e per mane, Ne/ mai svegliarno insino alla dimane. Quando se avidder poi quella matina In un fondo di torre esser legati, Ben se avisarno che quella fantina Li avea traditi, essendosi fidati. #_ O re del celo, o Vergine regina, $_ Diceva il conte #_ non me abandonati! $_ Chiamando tutti e Santi ch' egli adora, Quanti n' ha il celo e poi degli altri ancora. E come se amentava de pittura A Roma, in Francia, o per altra provenzia, A quella facea voto, per paura, De digiunare, o de altra penitenzia. Esso avea a mente tutta la Scrittura, De orazi%on e salmi ogni sci%enzia; Cio\ che sapea, diceva a quella volta, E Brandimarte sempre mai l' ascolta. Era quel Brandimarte saracino, Ma de ogni legge male instrutto e grosso, Pero\ che fu adusato piccolino A cavalcare e portar l' arme in dosso; Onde, ascoltando adesso il paladino Che a Dio se aricomanda a piu\ non posso, Chiamando ciascun Santo benedetto, Li adimandava quel che avesse detto. E benche/ il conte fosse in tal tormento, Pur, per salvar quella anima perduta, Prima narro\gli il vecchio Testamento, E poi perche/ Dio vo^l che quel se muta; Gli narro\ tutto il novo a compimento, E tanto a quel parlare Idio l' aiuta, Che torno\ Brandimarte alla sua Fede, E come Orlando drittamente crede. Benche/ li\ non se possa baptizare, Pur la credenza avea perfetta e bona, E poi che alquanto fu stato a pensare, Verso del conte in tal modo ragiona: #_ Tu m' hai voluto l' anima salvare, Et io vorei salvar la tua persona, S' io ne dovessi ancor quivi morire; Or se 'l te piace, il modo po^i odire. Tu de\i comprender cosi\ ben come io, Che per te solo e\ fatta questa presa, Perche/ tra Saracini e\i tanto rio, E de Cristianita\ sola diffesa. Ora, se io prendo il tuo nome e tu il mio, Non avendo altri questa cosa intesa, Ne/ essendo alcun di noi qua cognosciuto, Forse serai lasciato, io ritenuto. Io diro\ sempre mai ch' io sono Orlando, Tu de esser Brandimarte abbi la mente; Gua^rti che non errasti ragionando, Che/ guastaresti il fatto incontinente. Ma, se esci fuore, a te mi racomando: Cerca di trarme del loco presente; E se io morissi al fondo dove io sono, Prega per l' alma mia tu che sei bono. $_ Quasi piangendo quel baron soprano In cotal modo il suo parlar finia. Allora il conte, che era tanto umano: #_ Non piaccia a Dio, $_ dicea #_ che questo sia! Speranza ha ciascadun ch' e\ Cristi%ano, Nel re del celo e nella Matre pia; Lui ce trara\ per sua {add} merce/ {/add; merce\ Z} de guai, Ma senza te non usciro\ giamai. Ma se tu uscissi, io restaria contento, Pur che tu me prometta tutta fiata, Per preghi, ne/ minacce, ne/ spavento De non lasciar la fede che hai pigliata. La nostra vita e\ una polvere al vento, Ne/ se debbe stimar ne/ aver si\ grata, Che per salvarla, on allungarla un poco, Si danni l' alma nello eterno foco. $_ Diceva Brandimarte: #_ Alto barone, Gia\ molte volte odito ho racontare Che del servigio perde il guiderdone Colui che for de modo fa pregare; Io ti cheggio, per Dio di passi%one, Che quel che ho detto, tu lo vogli fare; E quando far nol vogli, io te prometto Ch' io tornaro\ di novo a Macometto. $_ Orlando non rispose a quei sermoni, Ne/ acconsentitte e non volse desdire. Eccoti gente armate de ronconi Che alla pregion la porta fanno aprire. Diceva il caporale: #_ O campi%oni, Quale e\ Orlando di voi, debba venire; Quel che e\ desso, lo dica e venga avante, Che/ appresentar conviense a Manodante. $_ Brandimarte rispose incontinente, Che apena non avea colui parlato; Il conte Orlando diceva ni%ente, Ma sospirando si stava da lato. Or tolse Brandimarte quella gente, E cosi\ proprio come era legato (Che far non puo\ diffesa ne/ battaglia) Al re lo presento\ quella sbiraglia. Manodante era di natura umano, Pero\ piacevolmente a parlar prese, Dicendo: #_ Ria fortuna e caso istrano A mio dispetto mi fa discortese; E ben ch' io sappia che sei cristi%ano, Nemico a nostra legge di palese, Sapendo tua virtute e il tuo valore, Assai me incresce a non te fare onore. Ma la natura mi strenge si\ forte E la compassi%on de un mio figliolo, Che, a dirti presto con parole corte, A te per lui convien portar il do^lo. Crudel destino e la malvaggia sorte De duo mi avea lasciato questo solo; Dece et otto anni ha di ponto il garzone: Morgana entro ad un lago l' ha pregione. Questa Morgana e\ fata del Tesoro; E perche/ par che gia\ tu dispregiasti Non so che cervo che ha le corne d' oro, E sue aventure e soi incanti li hai guasti, (Ti debbi ramentar questo lavoro, Onde ogni breve dir credo che basti), Per questo te persegue in ogni banda, E sol de averti a ciascadun dimanda. Onde per fare il cambio di mio figlio In questa notte ti feci pigliare, E per trare esso di cotal periglio A quella fata ti voglio mandare; A benche/ di vergogna io sia vermiglio, Pensando ch' io te fo mal capitare, Sapendo che tu merti onore e pregio; Ma altro rimedio al suo scampo non vegio. $_ Tenendo il re chinato a terra il viso Fece fine al suo dir, quasi piangendo. Rispose Brandimarte: #_ Ogni tuo aviso Sempre servire et obedire intendo, Se mille miglia ancor fossi diviso Da questo regno; or tuo pregione essendo, Disponi a tuo volere et a tuo modo, Ch' io vo' di te lodarme et or mi lodo. Ma ben ti prego per summa mercede Che, potendo campare il tuo figliolo Per altra forma, come il mio cor crede, Che tu non me conduchi in tanto do^lo. Or, se te piace, alquanto ascolta e vede: Termine da te voglio un mese solo, E che tu lasci l' altro compagnone, Et io staro\ tra tanto alla pregione, Pur che il compagno che meco fo preso, Subitamente sia da te lasciato. Sopra alle forche voglio essere impeso, Se in questo tempo ch' io ho da te pigliato Non ti e\ il tuo figliol sano e salvo reso, Perche/ in quel loco il cavalliero e\ stato. Sopra alla Fede mia questo ti giuro, Et andarane e tornara\ securo. $_ Queste parole Brandimarte usava Et altre molte piu\ che qui non scrivo, Come colui che molto ben parlava Et era in ogni cosa troppo attivo. Al fin quel vecchio re pur se piegava; A benche/ fosse di quel figlio privo, E lo aspettare a rivederlo un mese Paresse uno anno, e' pur l' accordio prese. Brandimarte si pose ingenocchione, Il re di questo assai ringrazi%ando, E poi fu rimenato alla prigione, E tratto fuor di quella il conte Orlando. Or chi direbbe le dolci ragione Che ferno e due compagni lacrimando, Allor che il conte convenne partire? Quanto gli increbbe, non potrebbi io dire. Sapean gia\ il patto com' era fermato, Che al termine de un mese die' tornare; Onde, avendo da lui preso combiato, Con una nave si pose per mare. In pochi giorni a terra fu portato, Poi per la ripa prese a caminare, Dietro a l' arena, per la strata piana, Tanto che gionse al loco di Morgana. Quel che la\ fece, contaro\ da poi, Se la istoria ascoltati tutta quanta: Ora ritorno a Manodante e' soi. Chi mena zoia, chi suona e chi canta; Chi promette a Macon pecore e boi. Chi darli incenso e chi argento si vanta, Se gli concede di veder quel giorno Che Zili%ante a lor faccia ritorno. Nome avea il giovanetto Zili%ante, Come di sopra in molti lochi ho detto. A quelle feste che io dico cotante, Ne la cita\ per zoia e per diletto Accese eran le torre tutte quante De luminari; e su per ciascun tetto Suonavan trombe e corni e tamburini, Come il mondo arda e tutto il cel ruini. Era la\ preso Astolfo del re Otone Con altri assai, si\ come aveti odito, E benche/ fosse al fondo de un torione, Pur quello alto rumore avea sentito, E de cio\ dimandando la cagione A quel che per guardarli e\ stabilito, Colui rispose: #_ Io vi so dir palese Che indi uscirete in termine de un mese. E voglio dirvi il fatto tutto intiero, Perche/ piu\ non andati dimandando. Al nostro re non fa piu\ de mistiero La presa de' baroni andar cercando, Pero\ che in corte e\ preso un cavalliero, Qual per il mondo e\ nominato Orlando; Or potra\ aver per contracambio il figlio, Che e\ ben di nome e di bellezza un ziglio. Ma bene e\ ver che un cavallier pagano, Qual mostra esser di lui perfetto amico, Lasciato fu dal nostro re soprano, E tornar debbe al termine ch' io dico, E menar Zili%ante a mano a mano, Benche/ io non stimo tal promessa un fico; Ma il re certo avra\ il figlio a suo comando, Se in contraccambio la\ vi pone Orlando. $_ Astolfo se muto\ tutto di faccia E piu\ di core, odendo racontare Che il conte era pur gionto a quella traccia, E il guardi%ano alor prese a pregare, #_ German, $_ dicendo #_ per Macon ti piaccia Una ambasciata a l' alto re portare, Che sua corona in cio\ mi sia cortese, Ch' io veda Orlando, che e\ di mio paese. $_ Sempre era Astolfo da ciascuno amato, Or non bisogna ch' io dica per che; Onde il messaggio subito fu andato, E l' ambasciata fece ben al re. Gia\ Brandimarte prima era lasciato, Entro una zambra sopra a la sua {add} fe/, {/add; fe\, Z} Ma disarmato; e sempre mai de intorno Stava gran guarda tutta notte e 'l giorno. Il re ne viene a lui piacevolmente, E dimando\ chi fosse Astolfo e donde; Turbosse Brandimarte ne la mente, E, pur pensando, al re nulla risponde, Perche/ cognosce ben palesemente Che, come e\ giorno, indarno se nasconde, Onde sua vita tien strutta e diserta, Poi che la cosa al tutto e\ discoperta. Al fin, per piu\ non far di se/ sospetto, Disse: #_ Io pensava e penso tuttavia S' io cognosco l' Astolfo de che hai detto, Ne/ me ritorna a mente, in fede mia, Se non ch' io vidi gia\ in Francia un valletto, Qual pur mi par che cotal nome avia; Stavasi in corte per paccio palese, E nomato era il gioculare Anglese. Grande era e biondo e di gentile aspetto, Con bianca faccia e guardatura bruna; Ma egli avea nel cervello un gran diffetto, Perche/ d' ognior che scemava la luna, Divenia rabbi%oso e maledetto, E piu\ non cognoscea persona alcuna, Ne/ alor sapea festar, ne/ menar gioco: Ciascun fuggia da lui come dal foco. $_ #_ Lui proprio e\ questo, $_ disse Manodante #_ De sue piacevolezze io voglio odire. $_ Cosi\ dicendo via mandava un fante, Che lo facesse alor quindi venire. Questo, giognendo ad Astolfo davante, Incontinenti gli comincio\ a dire Si\ come il re l' avrebbe molto caro, Poi che egli era buffone e giocularo, E come il cavallier del suo paese, Quale era Orlando, al re l' have contato. Astolfo de ira subito s' accese, E cosi\ come egli era infuri%ato, Col fante ver la corte il camin prese. Benche/ da molti dreto era guardato, Lui non restava de venir cridando Per tutto sempre: #_ Ove e\ il poltron de Orlando? Ov' e\, $_ diceva #_ ove e\ questo poltrone, Che de mi zanza, quella bestia vana? Mille onze d' oro avria caro un bastone Per castigar quel figlio de putana. $_ Il re con Brandimarte ad un balcone Odi^r la voce ancora assai lontana, Tanto cridava il duca Astolfo forte Di dare a Orlando col baston la morte. E Brandimarte alor molto contento Dicea al re: #_ Per Dio, lascia\nlo stare, Perche/ ponera\ tutti a rio tormento: Poco de un paccio si puo\ guadagnare. Adesso in tutto e\ fuor di sentimento: Questo e\ la luna, che debbe scemare; Io so com' egli e\ fatto, io l' ho provato: Tristo colui che se gli trova a lato! $_ #_ Adunque sia legato molto bene, $_ Diceva il re #_ dapoi qua venga in corte; Di sua paci\a non voglio portar pene. $_ Eccoti Astolfo e\ gia\ gionto alle porte, E per la scala su ratto ne viene. Ma nella sala ogniom cridava forte, Sergenti e cavallieri in ogni banda: #_ Legate il paccio! Il re cosi\ comanda. $_ Ma quando Astolfo se vidde legare, Et esser reputato per lunatico, Comincio\ l' ira alquanto a rafrenare, Come colui che pure avea del pratico. Quando fu gionto, il re prese a parlare A lui, dicendo: #_ Molto sei selvatico Con questo cavallier de tuo paese, Benche/ lui sia di Brava, e tu sia Anglese. $_ Astolfo alor, guardando ogni cantone, #_ Ma dove e\ lui $_ diceva #_ quel fel guerzo, Il qual ardisce a dir ch' io son buffone, Et egual del mio stato non ha il terzo? Ne/ lo torria per fante al mio ronzone, Abench' io creda ch' el dica da scherzo, Sapendo esso di certo e senza fallo Che di lui faccio come di vassallo. Ove sei tu, bastardo stralunato, Ch' io te vo' castigar, non so se il credi? $_ Il re diceva a lui: #_ Che sventurato! Tu l' hai avante, e par che tu nol vedi. $_ Alora Astolfo, guardando da lato E dietro e innanci ogniom da capo a piedi, Dicea da poi: #_ Se alcun non l' ha coperto Di sotto al manto, e' non e\ qua di certo. E tra coteste gente, che son tante, Sol questo Brandimarte ho cognosciuto. $_ Meravigliando dicea Manodante: #_ Qual Brandimarte? Dio me doni aiuto! Or non e\ questo Orlando, che hai davante? Io credo che sei paccio divenuto. $_ E Brandimarte alquanto sbigotito Pur fa bon volto con parlare ardito, Al re dicendo: #_ Or non sai che al scemare Che fa la luna, il perde lo intelletto? Io credea che 'l dovesti ramentare, Perche/ poco davante io l' avea detto. $_ Alora Astolfo comincio\ a cridare: #_ Ahi renegato cane e maledetto! Un calcio ti daro\ di tal possanza, Che restara\ la scarpa ne la panza. $_ Diceva il re: #_ Tenitelo ben stretto, Pero\ che 'l mal li cresce tutta via. $_ Ora ad Astolfo pur crebbe il dispetto, E fu salito in tanta bizaria, Che minacciava a roi%nar il tetto, E tutta disertar la Pagania, E cinquecento miglia intorno intorno Menare a foco e a fiamma in un sol giorno. Comando\ il re che via fosse condutto; Ma quando lui se vidde indi menare Et esser reputato paccio al tutto, Comincio\ pianamente a ragionare. Dapoi che non aveva altro redutto, Con voce bassa il re prese a pregare Che ancor non fusse de quindi menato, E mostrarebbe a lui che era ingannato; Pero\ che, se mandava alla pregione, E facesse Ranaldo qua venire, O veramente il giovane Dudone, Da lor la verita\ potrebbe odire; E che lui volea stare al parangone, E se mentisse, voleva morire, Et esser strascinato a suo comando, Che/ questo e\ Brandimarte e non Orlando. Il re, pur dubitando esser schernito, Comincio\ Brandimarte a riguardare, Il quale, in viso tutto sbigotito, Lo fece maggiormente dubitare. Il cavallier, condutto a tal partito Che non potea la cosa piu\ negare, Confessa per se stesso aver cio\ fatto, Accio\ che Orlando sia da morte tratto. Il re di doglia si straziava il manto E via pelava sua barba canuta, Per il suo figlio ch' egli amava tanto; De averlo e\ la speranza ormai perduta. Ne la cita\ non se ode altro che pianto, E la allegrezza in gran dolor se muta; Crida ciascun, come di senno privo, Che Brandimarte sia squartato vivo. Fu preso a furia e posto entro una torre, Da piedi al capo tutto incatenato; In quella non se suole alcun mai porre Che sia per vivo al mondo reputato. Se Dio per sua pietate non soccorre, A morir Brandimarte e\ iudicato. Astolfo, quando intese il conveniente Come era stato, assai ne fu dolente. E volentier gli avria donato aiuto De fatti e de parole a suo potere, Ma quel soccorso tardo era venuto, Si\ come fa chi zanza oltra al dovere. Quel gentil cavalliero ora e\ perduto Per sue parole e suo poco sapere; Or qui la istoria de costor vi lasso, E torno al conte, ch' e\ gionto a quel passo: Al passo di Morgana, ove era il lago E il ponte che vargava la rivera. Il conte riguardando assai fu vago, Che/ piu\ Aridano il perfido non vi era. Cosi\ mirando vidde morto un drago, Et una dama con piatosa ciera Piangea quel drago morto in su la riva, Come ella fusse del suo amante priva. Orlando se fermo\ per meraviglia, Mirando il drago morto e la donzella, Che era nel viso candida e vermiglia. Ora ascoltati che strana novella: La dama il drago morto in braccio piglia, E con quello entra in una navicella, Correndo giu\ per l' acqua alla seconda, E in mezo il lago aponto se profonda. Non dimandati se il conte avea brama Di saper tutta questa alta aventura. Ora ecco di traverso una altra dama Sopra de un palafreno alla pianura. Come ella vidde il conte, a nome il chiama Dicendo: #_ Orlando mio senza paura, Iddio del paradiso ha ben voluto Che qua vi trovi per donarmi aiuto. $_ Questa donzella che e\ quivi arrivata, Come io vi dico, sopra il palafreno, Era da un sol sergente accompagnata. Di lei vi contaro\ la istoria apieno, Se tornarete a questa altra giornata, E di quella del drago piu\ ne/ meno, Qual profondo\ nel fiume; or faccio ponto, Pero\ che al fin del mio cantar son gionto. Il voler de ciascun molto e\ diverso: Chi piace esser soldato, e cui pastore, Chi dietro a robba, a lo acquistar e\ perso, Chi ha diletto di caccia e chi d' amore, Chi navica per mare e da traverso, E quale e\ prete e quale e\ pescatore; Questo in palazo vende ogni sua zanza, Quello e\ zoioso, e canta e suona e danza. A voi piace de odir l' alta prodezza De' cavalieri antiqui et onorati, E 'l piacer vostro vien da gentilezza, Pero\ che a quel valor ve assimigliati. Chi virtute non ha, quella non prezza; Ma voi, che qua de intorno me ascoltati, Seti de onore e de virtu\ la gloria, Pero\ vi piace odir la bella istoria. Et io seguir la voglio ove io lasciai, Anci tornare a dietro, per chiarire De le due dame, quale io vi contai; L' una era al lago, l' altra ebbe a venire. Or per voi stessi non sapresti mai Chi fosser queste, non lo odendo dire; Ma io vi narrero\ la cosa piana: Quella dal drago morto era Morgana, E l' altra e\ Fiordelisa, quella bella Che fu da Brandimarte tanto amata. Di questa vi diro\ poi la novella, Ma torno prima a quella della fata; La qual, perche/ era de natura fella, Sopra del lago a quella acqua incantata, Ove nel fondo fu Aridano occiso, Aveva poi pigliato uno altro aviso. Perche/ con succi de erbe e de radice Co\lte ne' monti a lume della luna, E pietre svolte de strana pendice, Cantando versi per la notte bruna, Cangiato avea la falsa incantatrice Quel giovanetto in sua mala fortuna, Io dico Zili%ante, e fatto drago, Per porlo in guardia al ponte sopra al lago. Et avea tramutata sua figura, Accio\ che quella orribile apparenzia Sopra del ponte altrui ponga paura; Ma, fusse o per l' error de sua {add} sci%enzia, {/add; scienzia, Z} O per strenger lo incanto oltra misura, Ebbe il garzone estrema penitenzia, Perche/, come tal forma a ponto prese, Getto\ un gran crido, e morto se distese. Onde la fata, che tanto lo amava, Seco di doglia credette morire; Pero\ piatosamente lacrimava, Come ne l' altro canto io vi ebbi a dire, E con la barca al fondo lo portava, Per farlo sotto il lago sepelire. Or piu\ di lei la istoria non divisa, Ma torna a ricontar de Fiordelisa. La qual, si\ come Orlando ebbe veduto, Gli disse: #_ Idio del cel per sua pietate Qua te ha mandato per donarmi aiuto, Si\ come avea speranza in veritate. Or bisognara\ ben, baron compiuto, Che a un tratto mostri tutta tua bontate; Ma, perche/ sappi che far ti conviene, Io narraro\ la cosa: intendi bene. Dapoi ch' io mi parti' da quello assedio, Che ancora ad Albraca\ dimora intorno, Con superchia fatica e maggior tedio Cercato ho Brandimarte notte e giorno, Ne/ a ritrovarlo e\ mai stato rimedio; Et io faceva ad Albraca\ ritorno, Per saper se piu\ la\ sia ricovrato, Ma nel vi%aggio ho poi costui trovato. Costui che meco vedi per sargente, Io l' ho trovato a mezo del camino, Et e\ venuto a dir per accidente Che porto\ Brandimarte piccolino, Qual fu figlio de un re magno e potente; Ma, come piacque a suo forte destino, Costui lo tolse a l' Isola Lontana, E diello al conte de Rocca Silvana. Da poi che l' ebbe a quel conte venduto, Lui pur rimase in casa per servire; Ma poscia il fanciulletto fu cresciuto, Venne in gran forza e di soperchio ardire, E per tutto d' intorno era temuto. Per questo il conte avanti al suo morire, Non avendo ne/ moglie ne/ altro erede, Figlio se il fece e quel castel gli diede. Brandimarte da poi per suo valore Cercato ha il mondo per monte e per piano, E nella terra per governatore Lascio\ costui che vedi e castellano. Ora un altro baron pien di furore, Qual sempre fu crudele et inumano, Scoperto a Brandimarte e\ per nimico: Rupardo ha nome il cavallier ch' io dico. Costui con piu\ sergenti e soi vassalli Lo assedio ha intorno de Rocca Silvana. E de assalirla par che mai non calli, Per rui%narla tutta in terra piana. E' crida: #" Brandimarte per soi falli Adesso e\ preso al lago de Morgana. Io son per questo a prendervi venuto; Da lui non aspettati alcuno aiuto. $" Onde costui, che temea de aver morte, Quando non fosse a quel Rupardo reso (E d' altra parte ancor gl' incresce forte Che 'l suo segnor da lui mai fusse offeso), Con molti incanti fie' gettar le sorte, Et ha con quelle ultimamente inteso Che vero e\ cio\ che dice quel fellone, E Brandimarte e\ nel lago in pregione. Ora ti prego, conte, se mai grazia Aver debbe da te nulla donzella, Che cio\ che si puo\ far, per te si fazia, Tanto che egli esca di questa acqua fella. Cosi\ ti renda ogni tua voglia sazia Quanto desidri, Angelica la bella; Cosi\ d' amor s' adempia ogni tua brama, Vivendo al mondo in glori%osa fama. $_ Il conte narro\ a lei con brevitate Di Brandimarte cio\ che ne sapea, E tutte aponto le cose passate, E come al lago ritornar volea Per Zili%ante trar de aversitate, Qual l' altra fiata giu\ lasciato avea, E poi, per cambio di quel bel garzone, Trar Brandimarte fuor de la pregione. De cio\ la dama assai se contentava, E smonto\ il palafreno alla rivera; Standosi ingenocchione il cel guardava, Divotamente a Dio facea preghiera Che la ventura che il conte pigliava Se ritra^sse in bon fine e tutta intiera; E gia\ alla porta Orlando era arivato: Ben la sapea, che/ prima anco vi e\ stato. Nascosa era la porta dentro a un sasso, Di fuor tutta coperta a verde spine; Discese Orlando giu\, callando al basso, Sin che fu gionto della scala al fine; Poi camino\ da un miglio passo passo Sopra del suol de pietre marmorine, E gionse nella piazza del tesoro, Ove e\ il re fabricato a zoie et oro. Quivi trovo\ la sedia che Ranaldo Avea portata gia\ sino alla uscita; Ora a contarvi piu\ non mi riscaldo Di questa cosa, che/ l' avete odita. Il conte usci\ della piazza di saldo E gionse nel giardino alla finita, Ove abita Morgana e fa suo stallo, Et e\ partito al mezo de un cristallo. Apresso a quel cristallo e\ la fontana (Quel loco un' altra fiata ho ricontato); A questa fonte ancor stava Morgana, E Zili%ante avea resucitato, E tratto fuor di quella forma strana. Piu\ non e\ drago, et omo e\ ritornato; Ma pur per tema ancora il giovanetto Parea smarito alquanto nello aspetto. La fata pettinava il damigello, E spesso lo baciava con dolcezza; Non fu mai depintura di pennello Qual dimostrasse in se/ tanta vaghezza. Troppo era Zili%ante accorto e bello, Et esso e\ in volto pien di gentilezza, Ligiadro nel vestire e dilicato, E nel parlar cortese e costumato. Pero\ prendea la fata alto solaccio Mirando come un specchio nel bel viso, E cosi\ avendo il giovanetto in braccio Gli sembra dimorar nel paradiso. Standosi lieta e non temendo impaccio, Orlando gli arivo\ sopra improviso, E come quello che l' avea provata, Non perse il tempo, come a l' altra fiata; Ma nella gionta die\ de mano al crino, Che sventillava biondo nella fronte. Alor la falsa con viso volpino, Con dolci guardi e con parole pronte Dimanda perdonanza al paladino Se mai dispetto gli avea fatto on onte, E per ogni fatica in suo ristoro Promette alte ricchezze e gran tesoro. Pur che gli lascia il giovanetto amante, Promette ogni altra cosa alla sua voglia; Ma il conte sol dimanda Zili%ante E stima tutto il resto una vil foglia. Or chi direbbe le parole tante, Il lamentare e i pianti pien di doglia, Che faceva Morgana in questa volta? Ma nulla giova: il conte non l' ascolta. Et ha gia\ preso Zili%ante a mano, E fora del giardin con esso viene, Ne/ della fata teme incanto istrano, Poi che nel zuffo ben presa la tiene. Lei pur se dole e se lamenta invano, E non trova soccorso alle sue pene; Ora lusinga, or prega et or minazza, Ma il conte tace e vien dritto alla piazza. Quella passarno, e cominciarno a gire Su per la scala e tra que' sassi duri, E quando furno a ponto per uscire Fuor della porta e de quei lochi oscuri, Allora il conte a lei comincio\ a dire: #_ Vedi, Morgana, io voglio che mi giuri Per lo Demogorgone a compimento Mai non mi fare oltraggio o impedimento. $_ Sopra ogni fata e\ quel Demogorgone (Non so se mai lo odisti racontare), E iudica tra loro e fa ragione, E quello piace a lui, puo\ di lor fare. La notte se cavalca ad un montone, Travarca le montagne e passa il mare, E strigie e fate e fantasime vane Batte con serpi vive ogni dimane. Se le ritrova la dimane al mondo, Perche/ non ponno al giorno comparire, Tanto le batte a colpo furibondo, Che volentier vorian poter morire. Or le incatena giu\ nel mar profondo, Or sopra al vento scalcie le fa gire, Or per il foco dietro a se/ le mena, A cui da\ questa, a cui quella altra pena. E pero\ il conte scongiuro\ la fata Per quel Demogorgon che e\ suo segnore, La qual rimase tutta spaventata, E fece il giuramento in gran timore. Fuggi\ nel fondo, poi che fu lasciata; Orlando e Zili%ante uscirno fuore, E trova^r Fiordelisa ingenocchione, Che ancor pregava con divozi%one. Lei, poi che entrambi fuor li vide usciti, Molto ringrazi%ava Iddio divino; E caminando insieme, ne fo^r giti Insino al mar che quindi era vicino. Poscia che nella nave fo^r saliti, Con vento fresco entrarno al lor camino, Fendendo intra levante e tramontana Sin che son gionti a l' Isola Lontana. Smontarno a Damogir, l' alta citate, Quale avea tra due torre un nobil porto. Quando le gente nel molo adunate Ebbero in nave il giovanetto scorto, Alciarno un crido allegro di pietate, Perche/ prima ciascun lo tenea morto: Crida ciascuno, e piccolino e grande; Ognior di voce in voce piu\ se spande. A Manodante gionse la novella, Qual gia\ per tutta la cita\ risuona. Lui corse la\ vestito di gonnella, E non aspetta manto ni corona. Non vi rimase vecchia, ni donzella: Ogni mestiero et arte se abandona; Giovani, antiqui et ogni fanciullina, Per veder Zili%ante ogni om camina. Tanta adunata quivi era la gente, Che avea coperto il porto marmorino; E Zili%ante usci\ primeramente, Poi Fiordelisa e Orlando paladino; Il quarto ne lo uscir fu quel sergente. Come fu visto, ogni om crida: #_ Bardino! Bardino! ecco Bardino! $_ ogni om favella #_ De l' altro figlio il re sapra\ novella. $_ Quando la calca fu tratta da banda, De gire avante Orlando se argumenta; Umanamente al re se racomanda, Il suo figliol avante gli appresenta. Di Brandimarte poi presto dimanda; Ma il re di dar risposta non se attenta, Parendo a tal servigio essere ingrato, Poi che il compagno avea si\ mal trattato. Pur gli rispose che era salvo e sano: Ma per vergogna e\ nel viso vermiglio. Cosi\ tornando, con Orlando a mano, Venne per caso a rivoltare il ciglio, E veggendo Bardin disse: #_ Ahi villano! Or che facesti, ladro, del mio figlio? Piglia\ti presto presto il traditore, Qual gia\ mi tolse il mio figliol maggiore. $_ A quella voce fu il sargente preso, E lui dimanda sol de essere odito, Onde di novo avanti al re fu reso, E conto\ a ponto come era fuggito Per mare in barca; et in terra disceso, Il figlio entro una rocca avea nutrito, Ne/ si sapendo il nome in quella parte De Bramadoro il fece Brandimarte. Nome avea Bramadoro, essendo infante, Quel Brandimarte che or era pregione. El fu figliolo a questo Manodante; E quel Bardino per desperazione Che/ 'l re il battette dal capo alle piante, Fosse per ira, o per sua fallisone, Cio\ non so dir, ma via fuggi\ Bardino E Bramador porto\, quel fanciullino. Da poi che l' ebbe a quel conte venduto, Dico a Rocca Silvana, come ho detto, E' fu del male alquanto repentuto, E la\ rimase sol per suo rispetto; E, sin che 'l giovanetto fu cresciuto, Non se partitte mai de quel distretto, E Brandimarte a lui sempre ebbe amore, Onde il lascio\ per suo governatore. E tutto cio\ conto\ Bardino a ponto, Narrando a lui la istoria del figliolo: Ma quando a dir che egli era al fin fo gionto, Il re senti\ nel cor superchio do^lo, Perche/ posto l' avea, come vi conto, Al fondo de un torrion, su tristo so^lo. La\ giu\ posto l' avea discalzo e nudo: Or se lamenta de esser stato crudo. E benche/ prima avesse ancor mandato, Per rispetto de Orlando, a trarlo fuore, Ora a mandarvi e\ ben piu\ riscaldato, Sempre piangendo de piatoso amore; Per allegrezza il crido e\ dupplicato, Non se senti\ giamai tanto rumore: Per tetti, per li balchi e per le torre, Ciascun con lumi accesi intorno corre. De cimbaletti e d' arpe e di leuti E de ogni altra armonia fan mescolanza. Il re, che duo figlioli avea perduti, Or gli ha trovati, e non avea speranza; E citadini insieme son venuti Tutti alla piazza, e chi suona e chi danza; E le fanciulle e le dama amorose Gettano ad alto gigli fiori e rose. Fra tanta gioia e tra tanta allegrezza Condotto e\ Brandimarte avante al padre, Che fu nudo in pregione, ora e\ in altezza: Era coperto di veste legiadre. Piangeva ciascadun di tenerezza. Il re lo dimando\ chi fu sua madre. #_ Albina, $_ disse a lui #_ cio\ mi ramenta, Ma del mio padre ho la memoria spenta. $_ Non puote il re piu\ oltra sostenire, Ma piangendo dicea: #_ Figliol mio caro, Caro mio figlio, or che debbo mai dire, Ch' io te ho tenuto in tanto do^lo amaro? Cio\ che a Dio piace se convien seguire; A quel che e\ fatto, piu\ non e\ riparo. $_ Cosi\ dicendo ben stretto l' abbraccia, Avendo pien de lacrime la faccia. Poi s' abbracciarno et esso a Zili%ante, E ben che sian germani ogni om avisa, Pero\ che l' uno a l' altro e\ simigliante, Benche/ la etate alquanto li divisa. Or chi direbbe le carezze tante Che Brandimarte fece a Fiordelisa? E poi che tutti in festa e zoia sono, Bardino ebbe ancor lui dal re perdono. Gionti dapoi nel suo real palagio, Che al mondo de ricchezza non ha pare, A festeggiar se attese e stare ad agio; E 'l conte in summa fece baptizare Il re coi figli e tutto il baronagio, A benche/ alquanto pur vi fu che fare; Ma Brandimarte seppe si\ ben dire, Che 'l patre e gli altri fece seco unire. Fo^rno anche tratti della prigion fuore Ranaldo, Astolfo e gli altri tutti quanti, E fu lor fatto imperi%ale onore, E tutti rivestiti a ricchi manti. Una donzella con occhi d' amore, Leggiadra e ben accorta nei sembianti, Ne vene in sala; e tante zoie ha in testa, Che sol da lei splendea tutta la festa. Ciascun guardava il viso colorito, Ma non la cognosceano assai ne/ poco, Eccetto Orlando e Brandimarte ardito: Lor duo l' avean veduta in altro loco. Questa gabbo\ gia\ il suo vecchio marito (Non so se ve amentati piu\ quel gioco), Quando fu presa con le palle d' oro; E lei ne fece poi doppio ristoro, Facendo Ordauro sotterra venire, Che istoria non fu mai cotanto bella. Voi la sapeti e piu\ non la vo' dire, Se non contarvi che questa donzella Brandimarte la trasse di marti\re, Ne/ alor sapea che fusse sua sorella, Quando da lui e dal conte de Anglante Occisi fo^r Ranchera et Oridante. E quivi la cognobbe per germana, Abbracciandosi insieme con gran festa, E ramentando a lei l' erba soprana Che gia\ l' avea guarito della testa, Quando Marfusto a lato alla fontana L' avea ferito con tanta tempesta; Et altre cose assai che io non diviso Dicean tra lor con festa e zoia e riso. Dapoi che molti giorni fo^r passati, Che tutti consumarno in suono e in danza, Dudone una matina ebbe chiamati Tutti quei cavallieri in una stanza, Narrando a loro e populi adunati Con Agramante per passare in Franza, E come era gia\ armato mezo il mondo Per por re Carlo e i Cristi%ani al fondo. Ranaldo e Astolfo s' ebbe a proferire Alla difesa de Cristianitate, Per la sua fede e legge mantenire, Insin che in man potran tenir le spate. Seco non volse Orlando allora gire, Ne/ so dir la cagione in veritate, Se non ch' io stimo che superchio amore Li desvi%asse da ragione il core. Il dipartir di lor non fu piu\ tardo; Passarno insieme il mare a mano a mano. Ranaldo sali\ poi sopra a Baiardo, E 'l duca Astolfo sopra Rabicano. Orlando a Brandimarte fie' riguardo, E molto il prega con parlare umano Che ritornasser Zili%ante et esso A star col patre, che ha la morte apresso. Ma non si trova modo ne/ ragione Che Brandimarte voglia ritornare; Pur Zili%ante se piego\; il garzone Di novo a Damogir torno\ per mare. E Brandimarte e\ salito in arcione, Che/ Orlando mai non vo^le abandonare; Ambi passarno via quel tenitoro Sino al castello ove era Brigliadoro. Al conte fu il destrier restituito, E fatto molto onor dal castellano. Il duca Astolfo prima era partito, E Dudon seco e il sir de Montealbano. Quel figlio del re Otone era guarnito De l' arme d' oro, e la sua lancia ha in mano, E cavalcando gionse una matina Al castel falso de la fata Alcina. Alcina fu sorella di Morgana, E dimorava al regno de gli Ata\rberi, Che stanno al mare verso tramontana, Senza ragione immansueti e barberi. Lei fabricato ha li\ con arte vana Un bel giardin de fiori e de verdi arberi, E un castelletto nobile e iocondo, Tutto di marmo da la cima al fondo. E tre baroni, come aveti odito, Passarno quindi acanto una matina, E mirando il giardin vago e fiorito, Che a riguardar parea cosa divina, Voltarno gli occhi a caso in su quel lito Ove la fata sopra alla marina Facea venir con arte e con incanti Sin fuor de l' acqua e pesci tutti quanti. Quivi eran tonni e quivi eran delfini, Lombrine e pesci spade una gran schiera; E tanti ve eran, grandi e piccolini, Ch' io non so dire il nome o la manera. Diverse forme de mostri marini, Rotoni e cavodogli assai vi ne era; E fisistreri e pistrice e balene Le ripe aveano a lei d' intorno piene. Tra le balene vi era una maggiore, Che apena ardisco a dir la sua grandeza, Ma Turpin me assicura, che e\ lo autore, Che la pone due miglia di lungheza. Il dosso sol de l' acqua tenea fuore, Che undici passi o piu\ salia d' alteza, E veramente a' riguardanti pare Un' isoletta posta a mezo il mare. Or, come io dico, la fata pescava, E non avea ne/ rete ne/ altro ordegno: Sol le parole che all' acqua gettava Facea tutti quei pesci stare al segno; Ma quando adietro il viso rivoltava, Veggendo quei baron prese gran sdegno Che l' avesser trovata in quel mestiero, E de affocarli tutti ebbe in pensiero. Mandato avria ad effetto il pensier fello, Che/ una radice avea seco recata, Et una pietra chiusa entro uno annello, Quale averia la terra profondata; Solo il viso de Astolfo tanto bello Dal rio voler ritrasse quella fata, Perche/ mirando il suo vago colore Pieta\ gli venne e fu presa d' amore. E comincio\ con seco a ragionare Dicendo: #_ Bei baroni, or che chiedete? Se qua con meco vi piace pescare, Bench' io non abbia ne/ laccio ne/ rete, Gran meraviglia vi potro\ mostrare E pesci assai che visti non avete, Di forme grande e piccole e mezane, Quante ne ha il mare, e tutte le piu\ strane. Oltra a quella isoletta e\ una sirena: Passi la\ sopra chi la vo^l mirare. Molto e\ bel pesce, ne/ credo che apena Dece sian visti in tutto quanto il mare. $_ Cosi\ Alcina la falsa alla balena Il duca Astolfo fece trapassare, Quale era tanto alla ripa vicina, Che in su il destrier varco\ quella marina. Non vi passo\ Ranaldo, ne/ Dudone, Che/ ognom di loro avea de cio\ sospetto, E ben chiamarno il figlio del re Otone, Ma lui pur passo\ oltra a lor dispetto. Ben se 'l tenne la fata aver pregione E poterlo godere a suo diletto: Come salito sopra al pesce il vide, Dietro li salta e de allegrezza ride. E la balena se mosse de fatto, Si\ come Alcina per arte comanda. Non sa che farsi Astolfo a questo tratto, Quando scostar se vidde in quella banda; Lui ben se pone al tutto per disfatto, E sol con preghi a Dio si racomanda, E non vede la fata ne/ altra cosa, Benche/ li presso a lui si era nascosa. Ranaldo, poi che il vidde via portare In quella forma, fu bene adirato; Pur se destina in tutto de aiutare, Benche/ contra sua voglia ivi era andato: Sopra Baiardo se caccia nel mare Dietro al gran pesce, come disperato. Quando Dudone il vidde in quella traccia, Urta il destriero, e dietro a lui se caccia. Quella balena andava lenta lenta, Che/ molto e\ grande e de natura grave; De giongerla Ranaldo se argumenta, Natando il suo destrier come una nave. Ma io gia\, bei segnor, la voce ho spenta, Ne/ ormai risponde al mio canto suave, Onde convien far ponto in questo loco. Poi cantaro\, ch' io sia posato un poco. Gia\ molto tempo m' han tenuto a bada Morgana, Alcina e le incantazi%oni, Ne/ ve ho mostrato un bel colpo di spada, E pieno il cel de lancie e de tronconi; Or conviene che il mondo a terra vada, E 'l sangue cresca insin sopra a l' arcioni, Che/ il fin di questo canto, s' io non erro, Seran ferite e fiamme e foco e ferro. Ranaldo e Rodamonte alla frontiera Se vederanno insieme appresentati, E la battaglia andar schiera per schiera; Ma stati un poco quieti, et aspettati, Che/ io vo' prima tornar la\ dove io era, De' duo baron che al mare erano intrati. S' io non me inganno, doveti amentare Che Ranaldo e Dudone entrarno in mare, Dietro ad Astolfo che su la balena Avanti era portato per incanto. Dudon le gambe per quelle onde mena, E gia\ per l' acque avea {add} seguito {/add; segui\to Z} tanto, Che ormai piu\ non vedea Ranaldo apena, E fu per rui%nare in tristo pianto, Pero\ che il suo destrier per piu\ non posso Trabucco\ al fondo e porto\l seco adosso. E nel cader che fie' il giovane arguto Fece a se/ sopra il segno de la croce, E crido\: #_ Matre pia, donami aiuto! $_ Ranaldo se rivolse a quella voce, E quasi il pose al tutto per perduto. Ora diversa doglia al cor gli coce: Astolfo avante a lui via ne e\ portato, Alle sue spalle e\ questo altro affondato. Pure il periglio grande de Dudone Il fece adietro rivoltar Baiardo; Come pesce natava quel ronzone Per la marina, tanto era gagliardo. Quando fu gionto dove era il garzone, Non bisognava che fusse piu\ tardo, Che/ ormai piu\ non puoteva trare il fiato; Ben sapea dir se il mare era salato. Ranaldo fuor d' arcione il tolse in braccio, E porto\l sopra 'l litto alla sicura, E poi che questo ha tratto fuor de impaccio, Di seguitare Astolfo prese cura. Ma la balena era ita un tanto spaccio, Che a riguardar si\ longe era paura, E l' aria comincio\ di farsi bruna, Soffiando il vento e gelo e gran fortuna. Con tutto cio\ Ranaldo vo^le entrare, Ma Prasildo facea molta contesa; Dudone, Iroldo si\ seppon pregare, Che al fin piangendo abandona la impresa. Stasse nel litto e non sa che si fare, Poi che non trova al suo cugin diffesa; Il mar piu\ leva l' onde, e giu\ dal cielo Cade tempesta et acqua con gran gelo. Ora sappiati che questa roina, Qual par che tutto il mondo abbia a sorbire, Era ad incanto fatta per Alcina, Perche/ alcun altro non possa seguire. Or vo' lasciare Astolfo alla marina, Di lui poi molte cose avremo a dire; Torno a Ranaldo, che in su la riviera Sol se lamenta e piange e se dispera. Da poi che molto in quel litto diserto Fu stato a lamentar, come io ve ho detto, Con quella pioggia adosso, al discoperto, Che/ ivi non era ne/ loggia, ne/ tetto, E lui non era del paese esperto, Pero\ che mai non fu per quel distretto, Pur, seguitando a lato alla marina, Verso ponente piu\ giorni camina. Li Ata\rberi passo\, gente inumana, Di qua da loro il monte de Corubio, E per la Tartaria venne alla Tana. Quel che la\ fiesse, Turpin pone in dubio, Se non che gionse nella Transilvana, E passo\ ad Orsua il fiume del Danubio, Giongendo in Ongheria quella giornata, Ove trovo\ gran gente insieme armata. Era adunata quella guarnisone Di gente ardita e forte alla sembianza, Perche/ Otachier, figliol de Filippone, Era assembrato per passare in Franza, Che/ l' avea gia\ richiesto il re Carlone, Sentendo d' Agramante la possanza. Quel re mandava il figlio, com' io dico, Perch' era infermo et anco molto antico. Nella terra di Buda entro\ Ranaldo, Ove il re lo ricolse a grande onore, Pero\ che cognosciuto fu di saldo, Sapendosi per tutto il suo valore; Et Otachier assai divenne baldo, Parendo alla sua andata un gran favore Et un gran nome tri%omfale e magno Lo aver Ranaldo seco per compagno. Fu fatto capitano in quel consiglio Il pro' Ranaldo, e fu ciascun contento; E gia\ le liste a candido e vermiglio Ne' lor stendardi se spiegarno al vento. Ben racomanda Filippone il figlio Molto a Ranaldo, e tutto il guarnimento, E dopo, dietro alle real bandiere, Verso Ostreliche se driccia^r le schiere. Passa^r Bi%ena, e per la Carentana Vargano le Alpi fredde in quel confino, E giu\ scendendo nella Italia piana, Andarno avanti e gionsero a Tesino. Tre giorni manco de una settimana Re Desiderio avea preso il camino; E, come la\ per tutto se ragiona, Con la sua gente e\ dentro de Savona. Onde Ranaldo insieme et Otachieri Seguir deliberarno il re lombardo. Essi avean trenta miglia cavallieri, L' un piu\ che l' altro nobile e gagliardo, Che a quella impresa venian volentieri, Ne/ avean de' Saracini alcun riguardo. Passarno e monti, e giu\ nel Genoese Sopra del mar la gente se distese. La\ dietro caminando molti giorni, Gia\ di Provenza sono alle confine, E, vagheggiando quei colletti adorni, Tra cedri, aranci e palme pellegrine, Odirno risuonare e trombe e corni Oltra a quel monte, e par che il cel roine: Di tal strida e furore e\ l' aria pieno, Che par che il mondo abissi e venga meno. Ranaldo presto se trasse davante Et Otachiero, e seco il bon Dudone, E lor gente lasciarno tutte quante, Tanto che gionti son sopra al vallone, La\ dove Rodamonte lo africante Mena e Lombardi a gran destruzi%one. Prima sconfitti alla battaglia fiera Avea i Francesi e il duca di Baviera. E quattro figli soi feriti a morte Eran distesi al campo sanguinoso; Ne/ avendo esso riparo a quella sorte, Era fuggito tristo e doloroso. E sempre il saracin torna piu\ forte, Dissipando ogni cosa il fori%oso. Gia\ il duca di Savoglia e di Lorena Avea spezzati e morti con gran pena. A Bradamante, che e\ figlia de Amone, Occiso avea il destriero e posto a terra, E piu\ gente tagliata in quel sabbione Che giamai fosse morta in altra guerra. Tutta la cosa a ponto e per ragione Gia\ vi contai, se il mio pensier non erra, Insin che sua bandiera cadde al campo, Onde lui prese il disdegnoso vampo. Quella bandiera, che e\ vermiglia e d' oro, Nel mezo a sopraposte e\ ricamata; Una dama e un leone ha quel lavoro: La dama e\ Doralice di Granata. Questo e\ di Rodamonte il suo tesoro; Ne/ cosa al mondo avea piu\ cara o grata, Perche/ colei che ha quella somiglianza, Era suo amore e tutta sua speranza. Quando la vide a terra Rodamonte, Della gran doglia non trovava loco, Et arrufa^rsi e crini alla sua fronte, Mostrando gli occhi rossi come il foco. Quale un cingial che a furia esce del monte, Che cani e cacciatori estima poco, Fiacca le broche e batte ambe le zane: Tristo colui che a canto gli rimane! Cotal se mosse allora quel pagano, Sopra a' Lombardi tutto se abandona, E ben si sbaratto\ presto quel piano, Ne/ vi rimase de intorno persona. Gli omini e l' arme taglia ad ogni mano, Della ruina il ciel tutto risuona, Perche/ scudi ferrati e piastre e maglia Spezza e fracassa a quella aspra battaglia. De la sua gente ognior cresce la folta, Che venne prima in fuga e sbigotita. Ora torna cridando: #_ Volta! Volta! $_ E sopra a' Cristi%an se mostra ardita. Intorno al franco re tutta e\ ricolta; Ma nostra gente quasi era stordita, Mirando il saracin cotanto audace; De' suoi gran colpi non si puon dar pace. Nel campo de' Lombardi e\ un cavalliero Nato di Parma, e nome ha Rigonzone, Forte oltra modo e di natura fiero, Ma non avea ne/ senno ne/ ragione. Da morte a vita avea poco pensiero; Ov' e\ il periglio e la destruzi%one, E dove il scampo apena se ritrova, Piu\ volentier si pone a far sua prova. Costui, veggendo il forte saracino Che sopra al campo mena tal tempesta, Non lo stimando piu\ che un fanciullino, Gli sprona adosso con la lancia a resta. Cridando: #_ A terra! a terra! $_ in sul camino A ritrovar l' ando\ testa per testa; Ruppe sua lancia, che e\ grosso troncone, Et urta via nel corso del ronzone. Col petto del ronzone urta il pagano A briglia abandonata l' animoso, E ben credette trabuccarlo al piano, Ma troppo e\ Rodamonte ponderoso. Nel freno al gran destrier dette di mano, E quel ritenne al corso furi%oso; Percio\ non stette Rigonzone a bada: Rotta la lancia, ha gia\ tratta la spada. Lasciata avea la briglia, e ad ambe mano Feritte il saracin di tutta possa, Ma ciascun colpo adosso a quello e\ vano; Quella pelle del drago e\ tanto grossa, Che da possanza o da valore umano Non teme taglio, o ponta, ne/ percossa. Mentre {t} ch' a {/t S; che Z} lo Africano il colpo tira, Lui prende il suo destriero e intorno il gira. E poi che l' ebbe alquanto regirato, Con furia via lo trasse di traverso, E quello ando\ per caso in un fossato, E sopra Rigonzon cadde riverso. Lasciamo lui, che vivo e\ sotterrato, E ritorniamo al saracin diverso, Che abatte sopra al campo ogni persona. Ecco afrontato ha il conte di Cremona, Dico Arcimbaldo, il fio de Desiderio, Che vien col brando in mano alla distesa, Giovane ardito e degno de uno imperio, Et atto a trare a fine ogni alta impresa; Ne/ gia\ gli attribuisco a vituperio Se fu perdente di questa contesa, Perche/ quel saracino ha tal possanza, Che tutti gli altri di prodezza avanza. Egli abatte Arcimbaldo de l' arcione, Ferito crudelmente nella testa. Or se incomincia la destruzi%one Di nostra gente e l' ultima tempesta; E destrier morti insieme e le persone Cadeno al campo, e quel pagan non resta Menare il brando da la cima al basso: Battaglia non fu mai di tal fracasso. Ranaldo che nel monte era venuto, E Dudon seco e 'l giovene Otachieri, Quasi per maraviglia era perduto, Mirando del pagano e colpi fieri, E ben s' avede che bisogna aiuto; Ne/ porre indugia vi facea mestieri, Che/ de ogni parte e\ persa la speranza, Rotti e Lombardi, e fuggian quei di Franza. Le lor bandiere al campo sanguinoso Squarzate a pezzi se vedeano andare; Nel mezo e\ Rodamonte il furi%oso, Che sembra un vento di fortuna in mare, Et ha quel brando si\ meraviglioso, Qual gia\ Nembroto fece fabricare, Nembroto il fier gigante, che in Tesaglia Sfido\ gia\ Dio con seco a la battaglia. Poi quel superbo per la sua arroganza Fece in Babel la torre edificare, Che/ de giongere in celo avea speranza, E quello a terra tutto rui%nare. Costui, fidando nella sua possanza, Il brando de cui parlo, fece fare, Di tal metallo e tal temperatura Che arme del mondo contra a lui non dura. Re Rodamonte nacque di sua gesta, E dopo lui porto\ quel brando al fianco, Qual mai non fu portato in altra inchiesta, Perche/ ogni altro portarlo veni\a stanco, Ne/ di brandirlo alcuno avia podesta; E 'l suo patre Uli%eno, ardito e franco, Benche/ di sua bontade avesse inteso, L' avea lasciato per superchio peso. Or, come io dico, Rodamonte il porta, E sopra al campo mena tal ruina, Che avea piu\ gente dissipata e morta, Che non han pesci e fiume e la marina; E gli altri tutti, senza guida e scorta, Per monti e per valloni ogniom camina; Pur che si toglia a lui davanti un poco, Non guarda ove se vada, o per qual loco. Ranaldo che era gionto alla montagna, Mirando giuso la sconfitta al basso, Che/ gia\ de morti e\ piena la campagna E gli altri vo\lti in fuga a gran fraccasso, Forte piangendo quel baron se lagna, #_ Ahime\, $_ dicendo sconsolato e lasso, #_ Che io non spero piu\ mai de aver conforto! Tra quella gente il mio segnore e\ morto! Or che debbo piu\ far, tristo, diserto, Che certamente morto e\ il re Carlone? Gia\ pur in qualche guerra io sono esperto, E mai non vidi tal destruzi%one. Re Carlo e\ la\ giu\ morto, io so di certo, E debbe avere apresso il duca Amone, Che gli portava si\ fidele amore; Io so che occiso e\ apresso al suo segnore. Ove e\ il franco Oliviero, ove e\ il Danese, Re di Bertagna, il duca di Baviera? Ove la falsa gesta maganzese, Che si mostrava si\ superba e altiera? Alcun non vedo che faccia diffese, Ne/ sola al campo ritta una bandiera. Tutti son morti, e non potria fallire; Et io con seco al campo vo' morire. Ne/ so stimar chi sia quello Africano, Che occiso ha nostre gente tutte quante, Se forse non e\ il figlio di Troiano, Re di Biserta, che ha nome Agramante. Sia chi esser vo^le, io vado a mano a mano Ad affrontarme con quello arrogante; Voi, Otachiero, e tu, Dudon mio caro, {add} Prende/ti {/add; Prende\ti Z} a nostra gente alcun riparo; Che/ io callo al campo come disperato, E son senza intelletto e consci%enza. O tu, mio Dio, che stai nel cel beato, Donami grazia nella tua presenza; Che/ io te confesso che molto ho fallato, Et or ritorno a vera penitenza. La fede che io ti porto, ormai mi vaglia, Ch' io son senza il tuo aiuto una vil paglia. $_ Cosi\ parlava quel baron gagliardo, Piangendo tutta volta amaramente; Giu\ della costa sprona il suo Baiardo, E batte per furor dente con dente. Tornarno e due compagni senza tardo, Per condur sopra al poggio l' altra gente; Ma il pro' Ranaldo menando tempesta Gionse nel campo e pose l' asta a resta. Ver Rodamonte abassa la sua lanza, E ben l' avea nel campo cognosciuto, Che/ tutto il petto sopra agli altri avanza, Ne la sua faccia orribile et arguto, E gli occhi avea di drago alla sembianza. Or vien Ranaldo, e colse a mezo il scuto Con quella lancia si\ nerbuta e grossa Che avria gettato un muro alla percossa. Un muro avria gettato il fio de Amone, Con tal furore e\ dal destrier portato, E gionse Rodamonte nel gallone, E roverso il mando\ per terra al prato. Come caduto fosse un torri%one, O il iugo de un gran monte roi%nato, Cotal parve ad odir quel gran fraccasso, Quando giu\ cadde l' Africano al basso. Non si puotria contar l' alta roina, Che/ suona^r l' arme che ha il pagano in dosso, E tremo\ il campo insino alla marina Di quel gran busto quando fu percosso. Or se mosse la gente saracina, Tutti a Ranaldo s' aventarno addosso; Per aiutare il suo segnor ch' e\ a terra, Adosso de Ranaldo ogniom si serra. Lui gia\ del fodro avea tratto Fusberta, E da\ tra lor, che/ non gli stima un fico; De prima urtata ha quella schiera aperta, Ne/ discerne il parente da lo amico, Perche/ la gente misera e diserta Taglia senza rispetto, come io dico; A chi la testa, a chi rompe le braccia: Non dimandar se intorno al campo spaccia. Ma Rodamonte, la anima di foco, Di novo si era in piedi redricciato, E per grande ira non trovava loco, Chiamandosi abattuto e vergognato. Gia\ tutta la sua gente a poco a poco, Rotta per forza, abandonava il prato, Quando vi gionse il superbo Africante, Et a Ranaldo se oppose davante. A prima gionta de la spada mena Giu\ per le gambe del destrier Baiardo, E quel ronzon scappo\ de un salto a pena, Ne/ bisognava che fusse piu\ tardo; E Rodamonte il suo brando rimena A gran roina, e non pone riguardo De giongere a cavallo o cavalliero; Tanto e\ turbato e disdegnoso il fiero. #_ Ahi falso saracin, $_ disse Ranaldo #_ Che mai non fusti di gesta reale! Non ti vergogni, perfido, ribaldo, Ferir del brando a si\ digno animale? Forse nel tuo paese ardente e caldo, Ove virtute e prodezza non vale, De ferire il destriero e\ per usanza; Ma non se adopra tal costume in Franza. $_ Parlo\ Ranaldo in lenguaggio africano, Onde ben presto il saracin lo intese, E disse: #_ Per ribaldo e per villano Non ero io cognosciuto al mio paese; Et oggi dimostrai col brando in mano A queste genti che ho intorno distese, Che de vil sangue non nacqui giammai; Ma, a quel che io vedo, non e\ fatto assai. Se io non te pongo con seco a giacere Sopra a quel campo, in duo pezzi tagliato, Piu\ mai al mondo non voglio apparere, E tengome a ciascun vituperato; Ma sino ad ora te faccio sapere Che il tuo destrier da me non fia servato; La usanza vostra non estimo un fico, Il peggio che io so far, faccio al nimico. $_ Questo che io dico tuttavia parlava, E comincio\ a ferir con tanta fretta Che, se Ranaldo ponto l' aspettava, Era ad un colpo fatta la vendetta. Ma lui verso del poggio rivoltava, E corse forse un tratto di saetta; E smonto\ quivi e lasciovvi Baiardo, Tornando a piedi il principe gagliardo. Quando il pagano il vidde ritornare Soletto, a piede, senza quel ronzone Che via correndo lo puotea campare, Ben se lo tenne aver morto o pregione. Ma gia\ le gente sopra al poggio appare, Qual conduce Otachieri e il bon Dudone, Li Ungari, dico, armati a belle schiere, Con targhe et archi e lancie e con bandiere Venian cridando quei guerreri arditi Giu\ della costa, e menando tempesta. Quando li vidde il re si\ ben guarniti De arme lucente e con le penne in testa, Come gli avesse gia\ presi e gremiti Saltava ad alto e faceva gran festa: Menando il brando intorno ad ogni mano Feri\a gran colpi sopra al vento in vano. Poi se mosse qual movese il leone Che vede e cervi longi alla pastura, E gia\ venendo fa tra se/ ragione Cacciar da se/ la fame alla sicura. Cotal quel saracin, cor di dragone, Che spreza tutto il mondo e non ha cura, Lascio\ Ranaldo che gia\ presso gli era, E rivoltosse incontra a quella schiera. Tutta sua gente dietro a lui se mosse, Et e\ per suo valor ciascuno ardito, E l' una schiera a l' altra se percosse A tutta briglia, nel campo fiorito. Del fraccasso de' scudi e lancie grosse Non fu giamai cotal rumore odito. A cui stava a mirare era gran festa Petto per petto urtar, testa per testa. E corni e trombe e tamburi e gran voce Facean la terra e il cel tutto stremire, E li Africani e' nostri da la Croce Ne/ l' un ne/ l' altro avante puotea gire. Sol Rodamonte, il saracin feroce, Facea d' intorno a se/ la folta aprire, Tagliando braccie e busti ad ogni {add} lato {/add; lato. Z} Come una falce taglia erba di prato. Non se vide giamai cotal spavento Che 'l ferir del pagano in quella guerra. Come ne l' Alpe la ruina e il vento Abatte e faggi con furore a terra: Cotale il saracin pien d' ardimento Tra' cavallieri a piedi se disferra, Non li stimando piu\ che l' orso e bracchi: Gia\ sono in rotta Ungari e Valacchi. Benche/ Otachier se adoperasse assai Per farli rivoltare alla battaglia, Non fu rimedio a voltarli giamai, Ma van fuggendo avanti alla canaglia; E Rodamonte, come io vi contai, Di qua di la\ nel campo li sbaraglia, Ne/ vi e\ chi contra lui volti la fronte; Gia\ gli ha cacciati insino a mezo il monte. Il giovanetto fio de Filippone Per la vergogna se credea morire, E gia\ di vista avea perso Dudone, Che in altra parte avea preso a ferire. Ranaldo era smontato de l' arcione, Si\ come poco avante io vi ebbi a dire, Et a quel loco non era presente, Ove egli e\ in volta tutta la sua gente. Pero\ si volse come disperato Verso il pagano e la sua lancia arresta, E gionse il saracin sopra al costato, E fiacco\ tutta l' asta con tempesta. Ma lui conviene andar disteso al prato, Ferito sconciamente nella testa: Nel capo Rodamonte l' ha ferito, E fuor d' arcion lo trasse tramortito. Non era indi Dudone assai lontano, E prestamente fu del fatto accorto. Quando vidde Otachier andare al piano, Senza alcun dubbio lo pose per morto; E gia\ lo amava lui come germano, Onde ne prese molto disconforto, E destino\ nel cor senza fallire Di vendicarlo, o con seco morire. E' non porto\ mai lancia il giovanetto, Per quanto da Turpino io abbia inteso, Ma piastra e maglia e scudo e bacinetto E la mazza ferrata di gran peso. Con quella viene adosso al maledetto, E si\ come era di furore acceso Tutto se abandono\ sopra al pagano Con ogni forza, e tocca de ambe mano. Ad ambe mano il tocca il damisello Sopra de l' elmo che e\ cotanto fino, E roppe la corona e 'l suo cerchiello, Ne/ vi rimase perle ne/ rubino. Tutto il frontale aperse a quel flagello, E cadde ingenocchione il saracino. Ma la sua gente che intorno li stava, Li dette aiuto; e ben gli bisognava. Tutti cridando avanti al suo segnore, Coperto lo tenian {add} co' {/add; co Z} e scudi in braccio. E Dudon la sua mazza a gran furore Mena a due mano adosso al populaccio; E non curando grande ne/ minore, Fiacca e profonda chi gli dona impaccio; Abatte e spezza, e de altro gia\ non bada Se non di farsi a Rodamonte strada. Ma lui gia\ se era in piedi redricciato, E mena il brando a cui non val diffesa; Il scudo de Dudone ebbe spezzato, E strazia piastra e maglia alla distesa, E tutto il disarmo\ dal manco lato, Benche/ non fosse a quel colpo altra offesa: Ma non avea callato il brando apena, Che l' altro colpo a gran fretta rimena. Dudon, che vede non poter parare, Pero\ che troppo gli e\ il pagano adosso, Subitamente il corse ad abracciare. Or era l' uno e l' altro grande e grosso, Si\ che un bon pezzo assai vi fo che fare, Ma Dudon alla fin per piu\ non posso Fu posto a terra da quel saracino, Preso e legato come un fanciullino. Come volse Fortuna o Dio Beato, Ranaldo se trovo\ presente al fatto, E veggendo Dudone incatenato, Quasi per gran dolor divenne matto. Strenge Fusberta come disperato, Ne/ prende alcun riguardo a questo tratto, Ne/ stima piu\ la vita o la persona; Ver Rodamonte tutto se abandona. Egli era a piedi, come aveti odito, Che/ al poggio avea lasciato il suo Baiardo; L' uno e l' altro de questi e\ tanto ardito, Che dir non vi saprei chi e\ piu\ gagliardo. Ora il canto al presente e\ qui finito, Et e\ gionto Ranaldo tanto tardo, Che non puo\ far battaglia questo giorno; Doman la contaro\: fati ritorno. A cui piace de odire aspra battaglia, Crudeli assalti e colpi smisurati, Tirase avante et oda in che travaglia Son due guerreri arditi e disperati, Che non stiman la vita un fil de paglia, A vincere o morire inanimati. Ranaldo e\ l' uno, e l' altro e\ Rodamonte, Che a questa guerra son condutti a fronte. Avea ciascun di lor tanta ira accolta, Che in faccia avean cangiata ogni figura, E la luce de gli occhi in fiamma volta Gli sfavillava in vista orrenda e scura. La gente, che era in prima intorno folta, Da lor se discostava per paura; Cristiani e Saracin fuggian smariti, Come fosser quei duo de inferno usciti. Siccome duo demonii dello inferno Fossero usciti sopra della terra, Fuggia la gente, volta in tal squaderno, Che alcun non guarda se il destrier si sferra; E poi da largo, si\ come io discerno, Se rivoltarno a remirar la guerra Che fanno e due baroni a brandi nudi, Spezzando usbergi, maglie, piastre e scudi. Ciascun piu\ furi%oso se procaccia De trare al fine il dispietato gioco; Al primo colpo se gionsero in faccia Ambi ad un tempo istesso e ad un loco. Or par che 'l celo a fiamma se disfaccia, E che quegli elmi sian tutti di foco; Le barbute spezza^r, come di vetro: Ben diece passi ando\ ciascuno adietro. Ma l' uno e l' altro degli elmi e\ si\ fino, Che non gli no^ce taglio ne/ percossa; Quel de Ranaldo gia\ fo de Mambrino, Che avea due dita e piu\ la piastra grossa; E questo che portava il Saracino, Fo fatto per incanto in quella fossa Ove nascon le pietre del diamante; Nembroto il fece fare, il fier gigante. Sopra a questi elmi spezza^r le barbute Al primo colpo, come io vi ho contato; Mai non son ferme quelle spade argute, Disarmando e baron; da ogni lato Le grosse piastre e le maglie minute Vanno a gran squarci con roina al prato; Ogni armatura va de mal in pezo, Del scudo suo non ha piu\ alcun li\ mezo. Ranaldo, a cui non piace il stare a bada, Mena a duo mano al dritto della testa, E Rodamonte, che il ferire agrada, Mena anch' esso a quel tempo, e non s' arresta; Et incontrosse l' una a l' altra spada, Ne/ se odette giamai tanta tempesta; E ben de intorno per quelle confine Par che il mondo arda e tutto il cel ruine. Re Rodamonte, che sempre era usato Mandare al primo colpo ogniomo ad erba, Essendo con Ranaldo ora affrontato, Che rende agresto a lui per prugna acerba, Crucciosse fuor di modo, e desdignato Sprezava il cel quella anima superba, #_ Dio non ti puotria dar $_ dicendo #_ iscampo, Che io non ti ponga in quattro pezzi al campo. $_ Cosi\ dicendo quel saracin crudo Mena a due mani un colpo di traverso; Ranaldo mena anch' esso il brando nudo, E non crediati che abbia tempo perso, Onde l' un gionse l' altro a mezo il scudo. Fu ciascun colpo orribile e diverso, Fiaccando tutti e scudi a gran ruina, Ne/ il lor ferir per questo se raffina. Che/ l' un non vo^l che l' altro se diparta Con avantaggio sol de un vil lupino; E come l' arme fossero de carta, Mandano a squarci sopra del camino. La maglia si vedea per l' aria sparta Volar de intorno si\ come polvino, E le piastre lucente alla foresta Cadean sonando a guisa de tempesta. Stava gran gente intorno a remirare, Come io vi dissi, la battaglia oscura, Ne/ alcun vantaggio vi san iudicare, Pensando e colpi a ponto e per misura. Ecco una schiera sopra al poggio appare, Che scende con gran cridi alla pianura, Con tanti corni e tamburini e trombe, Che par che 'l mare e il cel tutto rimbombe. Mai non se vidde la piu\ bella gente Di questa nova che discende al piano, Di sopraveste et arme relucente, Con cimeri alti e con le lancie in mano. Perche/ sappiati il fatto intieramente, Vi fo palese che il re Carlo Mano E\ quel che viene, il magno imperatore, Et ha con seco de' Cristiani il fiore; Piu\ de settanta millia cavallieri (Che/ co\lto e\, dico, il fior d' ogni paese), Si\ ben guarniti, e si\ gagliardi e fieri, Che tutto il mondo non ve avria diffese: Avanti a tutti il marchese Olivieri, E seco a paro a paro il bon Danese, E della corte tutto il concistoro, Con le bandiere azurre a zigli d' oro. Quello African, che ha tutto il mondo a zanza, Ranaldo dimando\ di quella gente, E quando intese ch' egli e\ il re di Franza, Divenne allegro in faccia e nella mente, Come colui che avea tanta arroganza, Che tutti gli stimava per ni%ente; E senz' altro parlar ne/ altro combiato, Verso questi altri subito e\ dricciato. Di corso andava il saracin gagliardo, E gia\ Ranaldo non puotea seguire, Che/ facea salti assai maggior de un pardo. Gionto e\ tra nostri, e comincia a ferire; E se non era il giorno tanto tardo, Facea de' fatti suoi molto piu\ dire; Ma la luce, che sparve a notte scura, Impose fine alla battaglia dura. Pur vi rimase ferito il Danese Nel braccio manco e sopra del gallone; Et Olivieri assai ben se diffese, Benche/ perdesse il scudo dal grifone E fossegli spezzato ogni suo arnese. Grande tra gli altri fu la occisi%one: Coperti erano a morti tutti e piani De nostra gente et anco de pagani. La oscura notte, come io vi contai, Partitte al fin la zuffa cominciata. Or ben mi fa meravigliare assai; Quel fier pagan, che tutta la giornata Ha combattuto e non se poso\ mai, E, poi che la battaglia e\ raquietata, Va roi%nando tutto il monte e 'l piano Per ritrovar il sir de Montealbano. Avanti fa condurse ogni pregione, Che/ molti ne avea presi alla catena, E lor dimanda del figliol de Amone, E qual spaventa, e qual forte dimena; Un per paura, o per altra cagione, Disse che era ito nel bosco de Ardena, E gia\ non eran sue parole vere: Ne/ lo sapea, ne/ lo potea sapere. Pero\ che il bon Ranaldo era tornato A rimontar Baiardo, il suo destriero. Ma poi che al saracin fu cio\ contato, Lascia sua gente e piu\ non gli ha pensiero. Il caval de Dudone ebbe pigliato, Quale era grande a maraviglia e fiero; Sopra vi salta il forte saracino, E verso Ardena prende il suo camino. Una grossa asta e troppo sterminata Fuor de la nave sua fece arrecare, E non aspetta luce ne/ giornata, Ma quella notte prese a caminare; Onde sua gente, che era abandonata, Senza il suo aiuto non sa che si fare; Tutti smariti e pien de alto spavento Entrarno in nave e dier le vele al vento. Ogni pregione e tutto il loro arnese Portavan alle nave con gran fretta; Dudon tra' primi, il giovane cortese, Menava via la gente maledetta. Ma chi fu tardo a distaccar le prese, Sopra di lor discese la vendetta, Perche/ Ranaldo, a destrier risalito, Con gran ruina gionse in su quel lito. De Rodamonte va il baron cercando Per ogni loco a lume della luna; A nome lo dimanda e va cridando Ad alta voce per la notte bruna; E sopra alla marina riguardando Vede la gente che l' arnese aduna: A piu\ poter ciascun forte se tra\ffica Per porlo in nave e via passare in Africa. Ranaldo da\ tra lor senza pensare, Che/ ben cognobbe che eran Saracini; Quivi de intorno fo il bel sbarattare, Fuggendo tutti in rotta quei meschini. Chi ne la nave, e chi saltava in mare, L' un non aspetta che l' altro se chini A prender cosa che gli sia caduta; Ma sol fuggendo ciascadun se aiuta. Gli altri che a terra avean volto il timone, Via se ne andarno, abandonando il lito, E seco ne mena^r preso Dudone, Che, se Ranaldo l' avesse sentito, Avria menata gran destruzi%one, E forse entro a quel mar l' avria seguito; Ma lui non si pensava di tale onte, Sol dimandando ove era Rodamonte. Un saracin ven forte spaventato, Che anti a Ranaldo inginocchion si pose, Di Rodamonte essendo dimandato, La pura verita\ presto rispose: Come al bosco de Ardena era invi%ato, Tutto soletto per le piaggie ombrose, Essendo detto a lui che a quel camino Giva Ranaldo, al Fonte de Merlino. Il Fonte de Merlino era in quel bosco, Si\ come un' altra volta vi contai, Che era a gli amanti un velenoso tosco, Che/, ivi bevendo, non amavan mai; Benche/ li\ presso a quel loco fosco Passava una acqua che e\ megliore assai: Meglior de vista e de effetto peggiore; Chiunche ne gusta, in tutto arde d' amore. Quando Ranaldo intese che a quel loco Andava Rodamonte a ricercarlo, Di questa gente si curava poco, E piu\ presto parti\ che io non vi parlo. Il cuor gli fiammeggiava come un foco Del gran desio che avea di ritrovarlo, E via trottando a gran fretta camina Verso ponente, a canto alla marina. E Rodamonte simigliantemente De giongere ad Ardena ben se spaccia; E parlava tra se/ nella sua mente, Dicendo: ## Questo dono il ciel mi faccia, Pur che ritrovi quel baron valente, O ch' io l' occida, o torni seco in graccia; Che/, essendo morto, in terra non ho pare, E se egli e\ meco, il cel voglio acquistare. Ne/ creder potro\ mai che 'l conte Orlando Abbia di questo la mera bontate. Io l' ho provato, e di lancia e di brando Non e\ il piu\ forte al mondo in veritate. O re Agramante, a Dio ti racomando, Se tu discendi per queste contrate! Essendote io, come sero\, lontano, Tutta tua gente fia sconfitta al piano. Come diceva il vero il re Sobrino! Sempre creder si debbe a chi ha provato. Or, s' egli e\ tale Orlando paladino Come costui che meco a fronte e\ stato, Tristo Agramante et ogni saracino Che fia di qua dal mar con lui portato! Io, che tutti pigliarli avea arroganza, Assai ne ho de uno, e piu\ che di bastanza. $# Cosi\ parlando andava il re pagano, E non sapendo a ponto quel vi%aggio, Nel far del giorno gionse in un bel piano La\ dove un cavallier veniva adaggio; E Rodamonte con parlare umano Dimando\ al cavalliero in suo lenguaggio Quanto indi fusse alla selva de Ardena, Se lo sapesse, e qual strata vi mena. Rispose prestamente il cavalliero: #_ Nulla te so contar di quel camino, Perche/ io, si\ come tu, son forastiero, E vo piangendo, misero e tapino, Non riguardando strata ne/ sentiero, Ma dove mi conduce il mio destino, A strugimento, a morte, a ogni dolore, Poi che se piace al desli%ale amore. $_ Perche/ sappiati il fatto ben compiuto, Quel cavallier che fa tal lamentanza Dolendosi de amore, e\ Feraguto, Che fu al suo tempo un raggio di possanza; Et ora travestito era venuto Nascosamente nel regno di Franza, Sol per saper, quella anima affocata, Se giamai fusse Angelica {t} tornata. {/t S; tornata, Z} Egli anco amava quella damigella, Come potesti odir primeramente, E non potendo aver di lei novella, Benche/ ne dimandasse ad ogni gente, Or per questa ventura et or per quella Se consumava dolorosamente, E giorno e notte non avia mai bene, Sempre languendo e sospirando in pene. Or, come aveti inteso, il giovanetto Trovo\ quel re pagano alla campagna, E sterno insieme alquanto a lor diletto, E ciascadun de Amor si dole e lagna. Pur, cosi\ ragionando, venne detto A Feraguto come era di Spagna, E che pur mo tornava di Granata, Ove una dama avea gran tempo amata; E come era chiamata Doralice Quella, figliola del re Stordilano. #_ Non piu\ parole, $_ Rodamonte dice #_ Ma prendi la battaglia a mano a mano. Chi te ha condotto, misero, infelice, A morire oggi sopra a questo piano? Che/ comportar non voglio e non potrei Che altri che me nel mondo ami colei. $_ Rispose Feraguto: #_ Essendo grande, Lo esser cucioso assai ti disconviene; Ma poi che la battaglia me domande, Tra noi la partiremo, o male o bene, E l' alterezza tua che si\ se spande, Potria tornarti in dolorose pene. Amai colei; lo amore ebbe a passare: Per tuo dispetto voglio ancora amare. $_ Con tal parole e con de l' altre assai Se furno insieme e duo baron sfidati. Ambi avean lancie, come io vi contai: Con esse a resta se fo^r rivoltati. Piu\ crudel scontro non se udi\ giamai; E due destrier, di petto insieme urtati, Andarno a terra, e i cavallieri adosso, Con tal fraccasso che contar non posso. E le lor lancie grosse oltra a misura Se fragellarno insin presso alla resta; Ciascun de svilupparsi se procura Per rimenar col brando un' altra festa. Or si comincia la battaglia dura De' colpi sterminati e la tempesta De l' arme rotte e piastre con ruina, Come battesse un fabro alla fucina. Non avea indugia o sosta il lor ferire, Ma quando l' un promette, e l' altro dona; E ben da longe se potrebbe odire, Perche/ ogni colpo de intorno risuona. E certamente io non saprei ben dire Qual sia piu\ ardita e piu\ franca persona; Tanto son de alto core e di gran lena, Che un altro par non trovo al mondo apena. Ciascuno e\ de ira e di superbia caldo, E pero\ combattean con molto orgoglio, L' un piu\ che l' altro alla battaglia saldo. Ma quella nel presente dir non voglio, Perche/ convien contarvi di Ranaldo; Dapoi ritornaro\, si\ come io soglio, A dirvi questa zuffa alla distesa, Si\ che vi fia diletto averla intesa. Giva Ranaldo, come aveti odito, In verso Ardenna, alla ripa del mare, Credendo Rodamonte aver seguito, Ma lui giamai non puote ritrovare, Perche/ il dritto vi%aggio avea smarito, E poi con Feraguto ebbe che fare; Onde lui caminando avanti passa, Et a se/ drieto Rodamonte lassa. Quando fu gionto alla selva fronzuta, Dritto ne andava al Fonte di Merlino: Al Fonte che de amore il petto muta, La\ dritto se n' andava il paladino. Ma nova cosa che egli ebbe veduta, Lo fece dimorare in quel camino: Nel bosco un praticello e\ pien de fiori Vermigli e bianchi e de mille colori. In mezo il prato un giovanetto ignudo Cantando sollacciava con gran festa. Tre dame intorno a lui, come a suo drudo, Danzavan, nude anch' esse e senza vesta. Lui sembianza non ha da spada o scudo, Ne gli occhi e\ bruno, e biondo nella testa; Le piume della barba a ponto ha messe: Chi si\, chi no direbbe che le avesse. Di rose e de vi%ole e de ogni fiore Costor che io dico, avean canestri in mano, E standosi con zoia e con amore, Gionse tra loro il sir de Montealbano. Tutti cridarno: #_ Ora ecco il traditore, $_ Come l' ebber veduto #_ ecco il villano! Ecco il disprezator de ogni diletto, Che pur gionto e\ nel laccio al suo dispetto! $_ Con quei canestri al fin de le parole Tutti a Ranaldo se aventarno adosso: Chi getta rose, chi getta vi%ole, Chi zigli e chi iacinti a piu\ non posso. Ogni percossa insino al cor li duole E trova le medolle in ciascuno osso, Accendendo uno ardore in ogni loco Come le foglie e i fior fosser di foco. Quel giovanetto che nudo e\ venuto, Poi che ebbe vo\to tutto il canestrino, Con un fusto di ziglio alto e fronzuto Feri\ Ranaldo a l' elmo de Mambrino. Non ebbe quel barone alcuno aiuto, Ma cadde a terra come un fanciullino; E non era caduto al prato a pena, Che ai piedi il prende e strasinando il mena. De le tre dame ogniuna avea ghirlanda Chi de rosa vermiglia e chi de bianca; Ciascuna se la trasse in quella banda, Poi che altra cosa da ferir li manca; E benche/ il cavallier {add} merce/ {/add; merce\ Z} dimanda, Tanto il batterno, che ciascuna e\ stanca, Pero\ che al prato lo girarno intorno, Sempre battendo, insino a mezo giorno. Ne/ il grosso usbergo ne/ piastra ferrata Poteano a tal ferire aver diffesa; Ma la persona avea tutta piagata Sotto a quelle arme, e di tal foco accesa, Che ne lo inferno ogni anima dannata Ha ben doglia minor senza contesa, La\ dove quel baron de disconforto, Di tema e di marti\r quasi era morto. Ne/ sa se omini o dei fosser costoro: Nulla diffesa o preghera vi vale; E, standosi cosi\, senza dimoro Crescerno in su le spalle a tutti l' ale, Quale erano vermiglie e bianche e d' oro, E in ogni penna e\ un occhio naturale, Non come di pavone, o de altro occello, Ma di una dama {t} grazi%osa, {/t S; grazi%osa Z} e bello. E, poco stando, se levarno a volo, L' un dopo l' altro verso il cel saliva. Ranaldo a l' erba si rimase solo; Amaramente quel baron piangiva, Perche/ sentia nel cor si\ grande il do^lo, Che a poco a poco l' anima gli usciva, E tanta angoscia nella fine il prese, Che come morto al prato se distese. Mentre che tra quei fior cosi\ iacea, E de morire al tutto quivi estima, Gionse una dama in forma de una dea, Si\ bella che contar nol posso in rima, E disse: #_ Io son nomata Pasitea, De le tre l' una che te offese in prima: Compagna dello Amore e sua servente, Come vedesti e provi di presente. E fu quel giovanetto il dio d' Amore, Qual te getto\ de arcion come nemico; Se contrastar ti credi, hai preso errore, Che/ nel tempo moderno o ne l' antico Non si trova contrasto a quel segnore. Ora attendi al consiglio che io te dico, Se vo^i fuggir la dolorosa morte; Ne/ sperar vita o pace in altra sorte. Amore ha questa legge e tal statuto, Che ciascun che non ama, essendo amato, Ama po' lui, ne/ gli e\ l' amor creduto, Accio\ che 'l provi il mal ch' egli ha donato. Ne/ questo oltraggio che te e\ intravenuto, Ne/ tutto il mal che puote esser pensato, Se puo\ pesar con questo alla bilancia, Che/ quel cordoglio ogni marti\re avancia. Il non essere amato et altri amare Avanza ogni marti\r, come io te ho detto, E questa legge converrai {t} provare, {/t S; provare. Z} Se vo^i fuggir de Amore ogni {t} dispetto. {/t S; dispetto, Z} Or, perche/ intenda, a te conviene andare Per questo bosco ombroso a tuo diletto, Sin che ritrovarai sopra a una riva Uno alto pino et una verde oliva. La rivera zoiosa indi dechina Per li fioretti e per l' erba novella; Ne l' acqua trovarai la medicina A quel dolor che al petto ti martella. $_ Cosi\ parlo\ la dama peregrina, Poi ne l' aria volo\ come una occella; Salendo sempre in su, del celo acquista, Onde a Ranaldo usci\ presto di vista. Lui doloroso non sa che si fare, Poi che incontrata ha si\ forte ventura, Ne/ tra se stesso puote imaginare Come tal cosa sia fuor de natura, Che veda gente per l' aria volare, Ne/ contra a lor val forza ne/ armatura. Da gente ignuda e\ vento il suo valore Con zigli e rose e con foglie di fiore. A gran fatica il suo corpo tapino Levo\ dove languendo l' avea messo, E con piu\ pena si puose in camino, Cercando intorno il bosco ombroso e spesso; E trovo\ verso il fiume l' alto pino E l' arbor de l' oliva a quello apresso. Da le radice stilla una acqua chiara, Dolce nel gusto e dentro al core amara; Perche/ de amore {t} amaro {/t S; amare Z} il core accende A chi la gusta l' acqua delicata; E pero\ gia\ Merlin per fare amende La fonte avea qua presso edificata, Che fa lasciar cio\ che a questa se prende, Come io vi racontai quella giornata Quando Ranaldo bevette alla fonte, Ove Angelica poi n' ebbe tante onte. Or nel presente non se racordava Piu\ il cavallier di quel tempo passato, Ma come aponto in su 'l fiume arivava, Essendo doloroso et affannato, Che/ ogni percossa gran pena li dava, Sopra alla ripa fu presto chinato, E per gran sete il principe gagliardo Assai bevette e non vi ebbe riguardo. Bevuto avendo et alciando la facia, Da lui se parte ogni passata doglia, Benche/ la sete percio\ non se sacia, Ma, piu\ bevendo, piu\ di bere ha voglia. Lui di questa ventura Idio ringracia, E standosi contento e con gran zoglia Li torna nella mente a poco a poco Che un' altra fiata e\ stato in questo loco; Quando, dormendo ne l' erba fiorita, Con zigli e rose Angelica il sveglio\, E ricordosse che l' avea fuggita, Dil che acramente se ripente mo. De amor avendo l' anima ferita, Vorebbe adesso quel che aver non po^, La bella dama, dico, in quel verziero, Che/ nel presente non seri\a si\ fiero. E biasmando la sua crudelitate E le grande onte fatte a quella dama, Tutte le amenta quante ne ha gia\ usate, E se/ crudele e dispietato chiama. Gia\ la odi%ava poche ore passate, Piu\ che se stesso nel presente l' ama; E tanta voglia ha dentro al core accolta, Che vo^l tornare in India un' altra volta. Sol per vedere Angelica la bella Un' altra volta in India vo^l tornare. Venne a Baiardo per salire in sella, Che poco longi il stava ad aspettare: E cosi\ andando vidde una donzella, Ma non la potea ben rafigurare, Perche/ era dentro al bosco ancor lontana, Oltra a quel fiume, a lato a la fontana. Le chiome avea rivolte al lato manco, E la cima increspata e sparta al vento; Sopra de un palafren crinuto e bianco, Che ha tutto ad o^r brunito il guarnimento, Un cavallier gli stava armato al fianco, Ne la sembianza pien de alto ardimento, Che ha per cimero un Mongibello in testa, Ritratto al scudo e nella sopravesta. Dico che quel barone ha per cimero Una montagna che gettava foco; E 'l scudo e la coperta del destriero Avean pur quella insegna nel suo loco. Ora, cari segnori, egli e\ mestiero Questa ragione abbandonare un poco, Per accordar la istoria ch' e\ divisa: Torno a Brunel, che ancor dietro ha Marfisa. Non lo abandona la donzella altiera, Ma giorno e notte senza fine il caccia, Ne/ monte alpestro, ne/ grossa riviera, Ne/ selva, ne/ palude mai lo impaccia. Ma Frontalate, la bestia legiera, Li facea indarno seguitar tal traccia: Quel bon destrier, che fu di Sacripante, Come un uccello a lei fugge davante. Quindeci giorni gia\ l' avea seguito, Ne/ d' altro che di fronde era pasciuta. Il falso ladro, che e\ forte scaltrito, Ben de altro pasto il suo fuggire aiuta; Perche/ era tanto presto e tanto ardito, Che ogni taverna che avesse veduta, Dentro ve intrava e mangiava di botto, Poi via fuggiva e non pagava il scotto. E benche/ i teverneri e' lor sergenti Dietro li sian con orci e con pignate, Lui se ne andava stropezando e denti, E faceva a ciascun mille ghignate. A le qual fare avea tanti argomenti, Che donne spoletane o folignate, Qual porton l' ovo da matina a cena, Se avrian guardate da' suoi tratti apena. E pur Marfisa sempre il seguitava, Quando piu\ longi, e quando piu\ dapresso. #_ Al ladro! al ladro! $_ sempre mai cridava, E ciascun rispondeva: #_ Egli e\ ben desso. $_ Ogniom di quel giotton se lamentava, Perche/ e miglior boccon pigliava spesso, E loro il menacciavan pur col dito. Ora non piu\, che/ il canto e\ qui finito. La bella istoria che cantando io conto, Sera\ piu\ dilettosa ad ascoltare, Come sia il conte Orlando in Franza gionto Et Agramante, che e\ di la\ dal mare; Ma non posso contarla in questo ponto, Perche/ Brunello assai me da\ che fare; Brunello, il piccolin di mala raccia, Qual fugge ancora, e pur Marfisa il caccia. Et avea tolto il corno al conte Orlando, Si\ come io vi contai, quella matina, E Balisarda, lo incantato brando Che fabricato fu da Falerina; E nel canto passato io dicea quando Intrava quel giottone a ogni cucina, Non aspettando a' figatelli inviti, Pigliando e grossi sempre e rivestiti. Come ha bevuto, sen porta la taccia, E parli a ponto aver pagato l' oste Con dir, quando sen va: #_ Bon pro vi faccia! $_ Ma pur Marfisa gli e\ sempre alle coste, E de impiccarlo ogniora lo minaccia. Quel mal strepon le fa ben mille poste: Lasciandola appressar va lento lento, Da poi la lascia e fugge come un vento. Quindeci giorni sempre era seguita, Com' io vi dissi, la donzella acerba; Et era estremamente indebilita, Perche/ de fronde si pasceva e de erba, Ma pur volea pigliarlo alla finita. Tanto ha sdegnoso il cor quella superba, Che il segue in vano, e pur non se ne avede, Essendo egli a destriero et essa a piede, Perche/ al ronzon di lei manco\ la lena, E cadde morto alla sesta giornata. Dapoi le gambe per tal modo mena Cosi\ come era del suo sbergo armata, Che mai non usci\ veltra di catena, Ne/ mai saetta de arco fu mandata, Ne/ falcon mai dal cel discese a valle, Che non restasse a lei dietro alle spalle. Ma per lunga fatica e debilezza L' armatura che ha in dosso, assai gli pesa, Onde se la spoglio\ con molta frezza, Ne/ teme che Brunel faccia diffesa. Poi che ebbe posto giu\ quella gravezza, Si\ ratta se ne andava e si\ distesa, Che piu\ volte a Brunel fece spavento, Benche/ ha il destrier che fugge come vento. Perche/ assai volte fo tanto vicina, Che la credette in su la croppa avere; Alor ne andava lui con gran roina, Spronando il buon destriero a piu\ potere. Dietro lo segue la forte regina; Ma nova cosa che ebbe ad apparere, Sturbo\ Marfisa, che lo seguia forte, E {add} seguito {/add; segui\to Z} l' avria sino alla morte. Pero\ che riscontrarno una donzella, Che adagio ne veni\a sopra a quel piano, Vestita a bianco e a meraviglia bella, E seco un cavalliero a mano a mano. Di lor vi contaro\ poi la novella, Che/ io vo' seguire adesso l' Affricano, Qual via fuggendo per monte e per valle Sempre Marfisa aver crede alle spalle. Essa rimase et ebbe gran travaglia, Come a bell' agio vi voro\ contare, Benche/ tal briga fo senza battaglia. Ma gia\ Brunel non ebbe ad aspettare, E sopra al bon destrier coperto a maglia In pochi giorni fu gionto in su il mare; E, trovato un naviglio a suo convegno, In Africa passo\ senza ritegno. Dentro a Biserta gionse ad Agramante, Quale adirato stava in gran pensiero, Che/ de le gente che ha adunate tante Non vo^l passare alcun senza Rugiero; E lui guardato e\ da quel negromante, Che mai de averlo non seri\a mestiero, Ne/ pur se puo\ vedere il damigello, Chi non ha pria de Angelica lo annello. Or gionse il ladro e menando gran festa Avanti al re zoioso se appresenta; E poi la bretta si trasse di testa, E di contare il fatto se argumenta. Ogni re grande e principe di gesta Per ascoltare intorno se appresenta, E lui dice ridendo a qual partito Tolse a la dama quello annel di dito; Come di sotto al re de Circasia, Non se accorgendo lui, tolse il destriero; E di Marfisa, che fu tanto ria Che il fece uscir piu\ fiate del sentiero; E de quel brando e del corno che avia Tolto con tal prestezza a un cavalliero; E l' altre cose ancor di ponto in ponto Sin che davanti al re quivi era gionto. Avendo il suo parlar poscia compiuto, Ad Agramante il bel corno donava, Il qual fu incontinente cognosciuto, Pero\ che Almonte in Africa il portava; Poi se sapea che Orlando l' avea avuto, Onde forte ciascun meravigliava, E l' un con l' altro assai di cio\ contende. Percio\ Brunello a questo non attende, Ma pose al re quello annelletto in mano, Qual fo con tal virtute fabricato, Che a sua presenzia ogn' incanto era vano. Il re Agramante in piede fo levato, E in presenzia di tutti a mano a mano Ebbe Brunello il ladro incoronato, Donando a lui de Tingitana il regno, Populi e terre et ogni suo contegno. Questo reame allo estremo ponente Da gente negra se vede abitare. Or non se pose indugio di ni%ente, Ma de Rugiero ogni om prese a cercare, Il re Agramante e tutte le sue gente, Ne/ il re Brunello il volse abandonare; E passando il deserto de l' arena Gionsero un giorno al monte di Carena. Quella montagna e\ grande oltra misura E quasi con la cima al celo ascende, Al summo de essa ha una bella pianura, Che cento miglia o quasi se distende, De arbori ombrosa e di bella verdura; Per mezo a quella un gran fiume discende, Qual giu\ di monte in monte cade al piano, E fa un bel porto al mar de l' {add} occea\no. {/add; occeano. Z} A lato di quel fiume era un gran sasso, Nel mezo di quel pian ch' io vi ho contato Quasi alto un miglio dalla cima al basso, De un mur di vetro intorno circondato; Ne/ da salirvi su si vedde il passo, Perche/ tutto de intorno e\ dirupato, Ma, per quel vetro riguardando un poco, Vedeasi un bel giardino entro a quel loco. Era il vago giardino in su la cima De verdi cedri e di palme fronzuto. Mulabuferso, ch' ivi e\ stato in prima E non aveva il gran sasso veduto, Incontinente prese per estima Che per incanto cio\ fosse avenuto, E che lo incantator detto Atalante L' avesse ascoso a gli occhi suoi davante. Ora per lo annelletto era scoperto, Che a sua presenzia ogni incanto guastava, Onde ciascun di lor tenne per certo Che la\ Rugier di sopra dimorava. Quando Atalante, quel vecchione esperto, Vidde la gente che la\ su mirava, Dolente for di modo entra in pensiero De aver gia\ perso il paladin Rugiero. E va de intorno e non sa che si fare A ritenere il giovene soprano; Sempre piangendo lo attende a pregare Che non discenda in modo alcuno al piano. Ma il re Agramante pur stava a mirare, E tutti gli altri, quel gran sasso in vano; Non sa che fare alcun, ne/ che se dire: Li\ su senza ale non si puo\ salire. Brunello, il novo re de Tingitana, Poi che salire assai se fo provato, E che sua forza e sua destrezza e\ vana, Tanto era lisso quel vetro incantato, Posesi alquanto in su la terra piana, Et avendo fra se/ molto pensato, Levossi in piedi e disse: #_ Iddio ne lodo, Che/ aver Rugiero ho pur trovato il modo. Ma bisogna che tutti me aiutati, E che il mio dir sia fatto a compimento. Cento di voi, si\ come seti armati, Cominciareti insieme un torniamento, E quanto piu\ potete, vi provati Mostrar alto valore et ardimento, Urtandovi l' un l' altro alla travaglia Con trombe e corni, a guisa di battaglia. $_ Dicea ciascun: #_ Questa e\ cosa legiera! $_ Ma non sapean comprender la cagione, Onde, partiti a canto alla rivera, Ciascun sotto sua insegna e suo penone, Prima Agramante fece la sua schiera, Che ciascuno era re, duca, o barone: Cinquanta campi%oni usati a guerra Sopra a destrier coperti insino a terra. Ma il re del Garbo e di Bellamarina, E il franco re de Arzila e quel de Orano, E il giovanetto re de Constantina, Il re di Bolga con quel di Fizano, Urtarno e lor destrieri a gran ruina Contra Agramante con le spade in mano. Cinquanta eran costor, ne/ piu\ ne/ meno, Ciascun de ardire e di prodezza pieno. E l' una e l' altra schiera a gran furore Scontrarno insieme con molto fracasso, Con cridi e trombe, e con tanto romore Quanto caduto fosse il celo al basso. La schiera de Agramante ebbe il peggiore, Perche/ atterrati furno al primo passo Da venti cavallier de la sua gente, E de questi altri sette solamente. E quasi fu pigliata la bandiera, Ch' era portata avanti al re di poco, E si\ stretta era la sembraglia e fiera, Che non mostrava, si\ come era, un gioco. Sobrin di Garbo, la persona altiera, Che ha per insegna e per cimero un foco, Benche/ {add} cauto {/add T 1506 1513; canuto Z S} sia forte il {add} vecchi%one, {/add; vecchione, Z} In quel tornero assembra un fier leone. Ma il re Agramante, che porta il quartero Nel scudo e sopravesta azuro e d' oro, Sopra di Sisifalto, il gran destriero, Se muove furi%oso e da\ tra loro. Mulabuferso, quel forte guerrero, Che regge de Fizano il tenitoro, Fu da Agramante de uno urto percosso, E cadde a terra col destrier adosso. Et Agramante per questo non resta, Ma per la schiera volta il gran ronzone, E gionse Mirabaldo in su la testa, E tramortito lo trasse de arcione. Questo era re di Borga e di gran gesta: La insegna di sua casa era un montone Ritratto in campo bianco a bel lavoro; Negro e\ il montone et ha le corne d' oro. Lui cadde a terra, e il re non si rafina Ferendo intorno e di furore acceso; Il re Gualcioto di Bellamarina De un colpo abatte alla terra disteso. Questo nel scudo avea la colombina, Con un ramo de oliva in bocca preso; Bianca e\ la colombina e il scudo nero, Et a tal guisa ancor fatto il cimero. Facea Agramante prove a meraviglia, E benche/ sia da molti accompagnato, Alcun gia\ di prodezza nol simiglia. Il re di Tremison gli era da lato, Che al scudo d' oro ha la rosa vermiglia: Alzirdo il campi%one e\ nominato; E Folvo era con seco, il re di Fersa, Che ha il scudo azuro e de oro una traversa; Molti altri ancora che io non vo' contare, Che aspetto a dirli poi piu\ per bell' agio: E nomi e l' arme lor vo' divisare, Quando faranno in Francia il gran passagio. Ma voglio nel presente seguitare Del torniamento fatto al bel rivagio Tra que' re saracini a gran furore, Ove mostra Agramante il suo valore. Alla sinistra e alla destra si volta, E questo abatte e quello urta per terra, Facendo col destriero aprir la folta, E l' uno al braccio e l' altro a l' elmo afferra. Tutta sua compagnia stava ricolta, E lui soletto fa cotanta guerra: Per dimostrar la sua fortezza et arte Gli altri suoi tutti avea tratti da parte. E prese il re de Arzila nel cimiero, Al suo dispetto lo trasse d' arcione; E non ritrova re ne/ cavalliero Qual seco durar possa al parangone. Stava nel sasso a riguardar Rugiero Questa sembraglia, a lato a quel vecchione; A lato a quel vecchion che l' ha nutrito, Stava mirando il giovanetto ardito. Ma per l' altezza lontano era un poco Ove quelle arme son meschiate al piano, E per gran doglia non trovava loco, Battendo e piedi e stringendo ogni mano; Et avea il viso rosso come un foco, Pregando pure il negromante in vano Che giu\ lo ponga, e ripregando spesso, Si\ che quel gioco piu\ vegga di presso. #_ Deh, $_ diceva Atalante #_ filiol mio, Egli e\ un mal gioco quel che vo^i vedere! Stati pur queto e non aver disio Tra quella gente armata de apparere; Pero\ che il tuo ascendente e\ troppo rio, E, se de astrologia l' arte son vere, Tutto il cel te minaccia, et io l' assento, Che in guerra serai morto a tradimento. $_ Rispose il giovanetto: #_ Io credo bene Che 'l celo abbia gran forza alle persone; Ma se per ogni modo esser conviene, Ad aiutarlo non trovo ragione. E se al presente qua forza mi tiene, Per altro tempo o per altra stagione Io converro\ fornire il mio ascendente, Se tue parole e l' arte tua non mente. Onde io ti prego che calar mi lassi, Si\ ch' io veda la zuffa piu\ vicina, O che io mi gettaro\ de questi sassi, Trabuccandomi giu\ con gran roina; Che/ ognior ch' io vedo per que' lochi bassi Si\ ben ferir la gente peregrina, Serebbe la mia gioia e il mio conforto Star seco un' ora, et esser dapoi morto. $_ Veggendo il vecchio quella opini%one, Che gire ad ogni modo e\ destinato, Ando\ di quel giardino ad un cantone, Ove un picciol uscietto ha disserrato; E menando per mano il bel garzone Per una tomba discese nel prato, A pie\ del sasso, a lato alla fiumana, Ove si stava il re de Tingitana. Dico che il re Brunello alla riviera Stava soletto ove il vecchio discese, E come vidde il giovanetto in ciera, Che sia Rugiero subito comprese. Mirando il suo bel viso e la maniera, La atta persona e l' abito cortese, Cognobbe il re Brunel, che e\ tanto esperto, Che era Rugiero il giovane di certo. E, preso Frontalate, il suo destriero, Accorda il speronar bene alla briglia; Onde quel, ch' era si\ destro e legiero, Facea bei salti e grandi a meraviglia. A cio\ mirando il giovane Rugiero, Tanto piacere e tanta voglia il piglia De aver quel bel destrier incopertato, Che del suo sangue avria fatto mercato. E pregava Atalante, il suo maestro, Che gli facesse aver quel bon ronzone; Or, per non vi tener troppo a sinestro, E racontarvi la conclusi%one, Benche/ Atalante avesse il core alpestro, E dimostrasse con molta ragione La sua misera sorte al giovanetto, Perche/ e destrieri e l' arme abbia in dispetto, Lui tal parole piu\ non ascoltava Che ascolti il prato che ha sotto le piante, Anci di doglia ognior si consumava, Mostrando di morirse nel sembiante. Onde a sua voglia il vecchio se piegava, E come il re Brunel fu loro avante, Dimandarno il destriero e guarnimento, Per cambio di tesoro a suo talento. Il re, che fuor di modo era scaltrito, Veggendo andare il fatto a suo disegno, #_ Se l' o^r $_ dicea #_ del mondo fosse unito, Non vi darebbi il mio destrier per pegno, Pero\ che un gran passaggio e\ stabilito, Ove ogni cavallier d' animo degno, Che desidri acquistar fama et onore, Potra\ mostrare aperto il suo valore. Ora e\ venuta pur quella stagione Che desidrava ciascun valoroso; Or vederasse a ponto il parangone Di chi vo^l loda, e chi vo^l stare ascoso. Or si vedranno e cor de le persone, Qual sera\ vile, e qual sia glori%oso; Chi restara\ di qua, come schernito Da' fanciulletti fia mostrato a dito; Pero\ che 'l re Agramante vo^l passare Contra al re Carlo et alla sua corona, Tutto di velle e\ gia\ coperto il mare, La Africa tutta a furia se abandona. Gionto e\ quel tempo che puo\ dimostrare Ciascun suo ardire e sua franca persona; Ogni bon cavalliero a tondo a tondo Fara\ di se/ parlar per tutto il mondo. $_ Mentre che si\ parlava il re Brunello, Rugier, che attentamente l' ascoltava, Piu\ volte avea cangiato il viso bello, E tutto come un foco lampeggiava, Battendo dentro al cor come un martello: E 'l re pur ragionando seguitava: #_ Non se vidde giamai, ne/ in mar ne/ in terra, Cotanta gente andare insieme a guerra. E gia\ trentaduo re sono adunati: Ciascun gran gente di sua terra mena; Gia\ sono e vecchi e' fanciulletti armati, Retien vergogna le femine apena. Pero\, segnor, non vi meravigliati Se il mio ronzon, che e\ di cotanta lena, Non voglio darvi a cambio di tesoro, Perche/ io nol venderebbi a peso d' oro. Ma se io stimassi che tu, giovanetto, Restassi per destrier di non venire, Insino adesso ti giuro e prometto Che de queste armi ti voglio guarnire, E donerotti il mio destriero eletto; E so che certamente potrai dire, Che 'l principe Ranaldo o il conte Orlando Non ha meglior ronzon ne/ meglior brando. $_ Non stette il giovanetto ad aspettare Che Atalante facesse la risposta, Come colui che mille anni gli pare Di esser sopra lo arcion senz' altra sosta, E disse: #_ Se il destrier mi vo^i donare, Nel foco voglio intrare a ogni tua posta; Ma sopra a tutto te adimando in graccia Che quel che far si die', presto si faccia; Che/ la\ giu\ vedo quella gente armata, Qual tanto ben si prova in su quel piano, Che ogni atimo mi pare una giornata Di trovarmi tra lor col brando in mano; Onde io ti prego, se hai mia vita grata, Damme l' armi e il destriero a mano a mano Che/, se io vi giongo presto, e' mi da\ il core O di morire, o de acquistare onore. $_ Il re rispose sorridendo un poco: #_ Non si vo^l far la\ giu\ destruzi%one, Perche/ la gente che vedi in quel loco, De Africa e\ tutta et adora Macone. Quello armeggiare e\ fatto per un gioco, E sol si mena il brando di piattone; Di taglio, ne/ di ponta non si mena: Cio\ comandato e\ sotto grave pena. $_ #_ Damme pur il destriero e l' armatura, $_ Dicea Rugiero #_ et altro non curare, Pero\ che io ti prometto alla sicura Che io sapro\ come loro il gioco fare. Ma tu me indugiarai a notte oscura, Prima che io possa a quel campo arivare. Male intende colui che in tempo tiene, Che/ mezo e\ perso il don che tardi viene. $_ Odendo questo il vecchione Atalante, Pero\ che era presente a le parole, Biastemava le stelle tutte quante, Dicendo: #_ Il celo e la fortuna vo^le Che la {add} fe/ {/add; fe\ Z} di Macone e Trivigante Perda costui, che e\ tra' baroni un sole, Che a tradimento fia occiso con pene; Or sia cosi\, dapoi che esser conviene. $_ Cosi\ parlava forte lacrimando Quel negromante, e con voce meschine Dicea: #_ Filiolo, a Dio ti racomando! $_ Poi se ascose li\ presso tra le spine. Ma il giovanetto avea gia\ cento il brando, E guarnito era a maglie e piastre fine, E preso al ciuffo il bon destriero ardito Sopra lo arcion de un salto era salito. Il mondo non avea piu\ bel destriero, Si\ come in altro loco io vi contai. Poi che ebbe adosso il giovane Rugiero, Piu\ vaga cosa non se vidde mai. E, mirando il cavallo e il cavalliero, Se penarebbe a iudicare assai Se fosser vivi, o tratti dal pennello, Tanto ciascuno e\ grazi%oso e bello. Era il destrier ch' io dico, granatino: Altra volta descrissi sua fazone. Frontalate il nomava il saracino, Qual lo perdette ad Albraca al girone; Ma Rugier possa l' appello\ Frontino, Sin che seco fu morto il bon ronzone; Balzan, fazuto, e biondo a coda e chiome, Avendo altro segnore ebbe altro nome. Quel che facesse il giovanetto fiero Sopra questo ronzon di che vi conto, E come sparpagliasse il gran torniero, Quando nel prato subito fu gionto, Piu\ largo tempo vi fara\ mestiero, Onde al canto presente faccio ponto; E nel seguente conterovi a pieno Come il fatto passo\, ne/ piu\ ne/ meno. Come colui che con la prima nave Trovo\ del navicar l' arte e l' ingegno, Prima alla ripa e ne l' onda suave Ando\ spengendo senza vella il legno; A poco a poco temenza non have De intrare a l' alto, e poi, senza ritegno Seguendo al corso il lume de le stelle, Vidde gran cose e glori%ose e belle; Cosi\ ancora io fin qui nel mio cantare Non ho la ripa troppo abandonata; Or mi conviene al gran pelago intrare, Volendo aprir la guerra sterminata. Africa tutta vien di qua dal mare, Sfavilla tutto il mondo a gente armata; Per ogni loco, in ogni regi%one E\ ferro e foco e gran destruzi%one. Assembrava in Levante il re Gradasso, In Ponente Marsilio, il re di Spagna, Che ad Agramante ha conceduto il passo, Et esso e\ in mezo giorno alla campagna. Tutta Cristianitate anco e\ in fraccasso, La Francia, l' Inghilterra e la Allemagna; Ne/ Tramontana in pace se rimane: Vien Mandricardo, il figlio de Agricane. Tutti vengono adosso a Carlo Mano Da ogni parte del mondo, a gran furore; Allor fia pien di sangue il monte e il piano, E se odira\ nel cel l' alto romore; Ma nel presente io me affatico in vano, Che/ a questo fatto io non son gionto ancore, E, volendol chiarire, egli e\ mestiero Prima che io conti il tutto di Rugiero. Il qual lasciai in su il destriero armato, Con Balisarda il bon brando al gallone, Qua gia\ fu con tale arte fabricato, Che taglia incanto et ogni fatasone; Or, perche/ il fatto ben vi sia contato, Che l' intendiati a ponto per ragione, Quel torniamento de che vi contai, Era nel prato piu\ caldo che mai. Che/ Pinadoro, il re de Constantina, E il re di Nasamona, Puli%ano, Veggendo de Agramante la ruina, Qual solo abatte la sua schiera al piano (Che/ il re di Bolga e di Bellamarina, E quel d' Arzila con quel di Fizano, Qual d' urto avea atterrato e qual di spada, E ben tra gli altri se facea far strada; E la schiera di lui stava da lato, Come tal fatto non toccasse a loro): Onde e due franchi re ch' io v' ho contato, Io dico Puli%ano e Pinadoro, Avendo il campo alquanto circondato, Ferirno a tutta briglia tra costoro, E ferno aprir per forza quella schiera, Gettando a terra la real bandiera. Alla guardia di quella era Grifaldo Re di Getula, e 'l re de la Alganzera: Bardulasto avea nome quel ribaldo, Di cor malvaggio e di persona fiera. Ne/ l' un ne/ l' altro al gioco stette saldo: Fo lor squarciata in braccio la bandiera, E fo Grifaldo tratto de l' arcione Da Puli%ano a gran confusi%one. E Bardulasto quasi tramortito Fu per cadere anch' esso alla foresta; Che/ Pinadoro, il giovanetto ardito, A gran roina il gionse in su la testa; Onde, al colpo diverso imbalordito, Via ne 'l porta il destriero a gran tempesta; E Pinadoro a gli altri se disserra, E questo abatte e quello urta per terra. Gionse alla fronte il forte re di Fersa, Fiaccando sopra a l' elmo la corona, Che ne ando\ a terra in piu\ parte dispersa; Poi verso Alzirdo tutto se abandona, E tramortito al campo lo riversa. Questo Alzirdo era re di Tremisona; Gettollo a terra il re di Constantina, Che sopra al campo mena tal roina. Fo costui figlio a l' alto re Balante, Che da Rugier Vassallo ebbe la morte, Vago di faccia e di core arrogante, Maggior del patre e piu\ destro e piu\ forte. Ora la gente a lui fugge davante, Ne/ se ritrova alcun che se conforte Di star con seco voluntieri a faccia, Ma come capre avante ogniom se caccia. Il re Agramante non era vicino, Et intendea di tal fatto ni%ente, Pero\ che avea afrontato il re Sobrino, E quel se diffendeva arditamente; Ma vidde di lontano il gran polvino Che menava fuggendo la sua gente. Fuggia sua gente a Pinadoro avante: Forte turbosse in faccia il re Agramante, E rivoltato con la spada in mano Ne l' elmo a Pinadoro un colpo lassa, E tramortito lo distese al piano; Ma, mentre che turbato avanti passa, Gionse a lui nella coppa Puli%ano, E la coperta a l' elmo li fraccassa, Scendendo si\ gran colpo in su le spalle, Che quasi il pose del destriero a valle. Pur, come quel che avea soperchia lena, Se tenne per sua forza nello arcione, E verso Puli%ano il brando mena, E qui se comincio\ l' aspra tenzone. Or, mentre che ciascun piu\ se dimena, Vi gionse il re di Garbo, quel vecchione, El re de Arzila, ch' era rimontato, Quel de Fizano e quel di Bolga a lato. Adosso ad Agramante ogniom si serra, E quando l' un promette, e l' altro dona, Come fosse mortal l' odio e la guerra; Pur che si possa, alcun non se perdona. Tutto il cimiero avean gettato a terra Ad Agramante e rotta la corona Quei cinque re ch' io dissi; ogniom martella, Cercando trarlo al fin for della sella. E certo l' avrian preso al suo dispetto, A benche/ fosse si\ franco guerrero, Che/ avere a far con uno egli e\ un diletto, Ma cinque son pur troppo, a dire il vero. Ora vi gionse il forte giovanetto, Qual giu\ callava, io dico il bon Rugiero, Che l' arme avea del re de Tingitana; Callo\ la costa e gionse in su la piana. Come fo gionto, tutto se abandona Ove stava Agramante a mal partito; Frontino, il bon destrier, forte sperona E da\ tra loro il giovanetto ardito; Gionse alla testa il re di Nasamona, E fuor d' arcione il trasse tramortito, E tocco\ dopo lui quel re Fizano; Si\ come al primo, lo distese al piano. Alto da terra volta il suo Frontino, Che proprio un cervo a' gran salti somiglia; Alcun gia\ non cognosce il paladino: Che sia Brunello ogniom si meraviglia. Ora ecco gionto ha d' urto il re Sobrino, Correndo l' uno e l' altro a tutta briglia; Et ando\ il re Sobrino, a gran fraccasso, Il suo destriero e lui tutto in un fasso. Dopo lui pose a terra Prusi%one, Quale era re de l' Isole Alvaracchie. Come da l' aria giu\ scende il falcone, E da\ nel mezo a un groppo di cornacchie: Lor, sparpagnate a gran confusi%one, Cridando van per arbori e per macchie; Cosi\ tutta la gente in quel torniero Fuggia davanti al paladin Rugiero. Il re de Arzila, io dico Bambirago, Fu da Rugier colpito in su la testa; Costui portava per cimiero un drago: Con quel percosse il capo alla foresta. Sempre piu\ viene il giovanetto vago Di ben ferire, e menando tempesta Pose Tardoco e Marbalusto al piano, L' un re de Alzerbe e l' altro re d' Orano. E Baliverzo, il re di Normandia, Fo tratto dello arcione al suo dispetto. Quando Agramante e gran colpi vedia, Per meraviglia usciva de intelletto, Che/ 'l re de Tingitana esser credia, Per l' arme che avea indosso il giovanetto; Ma prima nol tenea gagliardo tanto, Or ben li dava di prodezza il vanto. Perche/ sappiati il fatto ben compito, Ordinato e\ il torniero a tal ragione, Che non poteva alcuno esser ferito, Menando tutti e brandi de piatone, Et altrimente a morte era punito Chiunque facesse al gioco fallisone. Di taglio ne/ di ponta alcun non mena: Sapea Rugiero e l' ordine e la pena. Pero\ menava sol di piatto il brando, E gionse il fio d' Almonte, Dardinello, Che portava il quarter si\ come Orlando, E for de arcion lo trasse a gran flagello. Dicea Agamante: #_ A Dio mi racomando, Ch' io non credetti mai che quel Brunello Un regno meritasse per valore: Ma ben serebbe degno imperatore. $_ Queste parole diceva Agramante, E stavasi da parte a riguardare E colpi orrendi e le prodezze tante, Quanto potesse alcuno imaginare. Ecco Rugiero abatte a lui davante Argosto, che armiraglio era del mare, Argosto de Marmonda, il pagan fiero, Che avea il timone a l' elmo per cimiero. Gionse Arigalte, il re de l' Amonia, E 'l re de Libicana, Dudrinasso, E seco Manilardo in compagnia, Re di Norizia, e mena gran fraccasso. Eran costoro il fior de Pagania, Che non curavan tutto il mondo uno asso; Veggendo che colui fa tanta guerra, Se destina^r di porlo al tutto in terra. Ciascun percosse il giovanetto franco, Ma lui trasse Arigalte de la sella, Qual porta senza insegna il scudo bianco, E per cimero un capo di donzella. Al primo colpo non parbe gia\ stanco, Che/ Dudrinasso si\ forte martella, Che gli roppe 'l cimero e la corona, E tramortito a terra lo abandona; Et avantosse contra a Manilardo, Ne/ piu\ de' primi fu questo diffeso; Benche/ tra gli altri assai fusse gagliardo, Rimase allora in su il prato disteso. Quando Agramante a cio\ fece riguardo, Fu ben de invidia grande al core acceso, Che un altro avesse piu\ di lui valore, Stimando assai per questo esser minore. E destinato veder se Brunello Potesse il campo contra a lui durare, Mossese ratto, che parbe uno uccello. Sopra a Rugiero un colpo lascia andare, E gionse di traverso il damigello, E quasi il fece a terra trabuccare; Ma pur se tenne nello arcion apena, Presto se volta ad Agramante e mena. Era il cimero e la insegna reale Tre fusi da filare e una gran rocca; Rugier, che gionse il re sopra al frontale, Roppe le fuse e a terra lo trabocca. A' soi sequaci cio\ parbe gran male, Onde ciascuno il giovanetto tocca: Alzirdo, Bardulasto e Sorridano, Ciascun quanto piu\ po^, mena a due mano. Quel Sorridano e\ re della Esperia, Ove il gran fiume Balcana discende, Qual crede alcun che il Nil d' Egitto sia, Ma chi cio\ crede, poco se n' intende. Or questi tre che io dissi, tuttavia Ciascun quanto piu\ po^ Rugiero offende; Chi di qua chi di la\ mena tempesta, L' un per le braccie e l' altro per la testa. Voltosse verso Alzirdo il pro' Rugiero, E quel feri\ de un colpo si\ diverso, Che a gambe aperte il trasse del destriero; Poi mena a Sorridano un gran roverso, E lui distese si\ come il primiero. Allor fu Bardulasto tutto perso, Ne/ gli bastando d' affrontarsi il core Venne alle spalle il falso traditore; E feri\ de una ponta nel costato Quel franco giovanetto a tradimento. Quando Rugier si sente innaverato, Forte adirosse e non prese spavento; E verso Bardulasto rivoltato, Lo vidde ritornar di mal talento Per donarli la morte a l' altro tratto; Ma non ando\ come credette il fatto. Che/, rivoltato essendo a lui Rugiero, Non lo sofferse di guardare in faccia, Che era in sembianza si\ turbato e fiero, Che par che al mondo e 'l cel tutto minaccia; Onde esso, rivoltato il suo destriero, Fuggendo avante a lui si pose in caccia. Rugiero il segue, e sembra una saetta, Cridando: #_ Volta! volta! Aspetta! aspetta! $_ Ma quel, che non volea ponto aspettare, Giva ad un bosco assai quindi vicino, Credendo di nascondersi e campare; Ma troppo corridore era Frontino. Non valse a Bardulasto il speronare, Che/ presso al bosco il gionse il paladino, La\ dove al suo dispetto essendo gionto, Venne animoso a quello estremo ponto; E rivoltato con molto furore Meno\ piu\ colpi in vano al giovanetto, Ma duro\ la battaglia poco d' ore, Che/ presto fu partito insino al petto. Cosi\ il re de Algazera traditore Rimase morto a canto a quel boschetto; Rugier, spargendo il sangue for del fianco, A poco a poco quasi veni\a manco. Ma per pigliare a cio\ rimedio e cura Tornava al sasso dove era Atalante, Il qual sapea de l' erbe la natura E le virtute e l' opre tutte quante; Onde di cavalcar ben se procura Per ritrovarsi presto a lui davante, Che/ tanto la ferita lo adolora, Che non bisogna far lunga dimora. Cosi\ ne ando\ Rugier, che era ferito; E gli altri che restarno al torniamento, Non se accorgevan che fosse partito, Tanto gli avea percossi alto spavento. Ma il re Agramante tutto sbigotito A destrier rimonto\ con gran tormento, Perche/ avea di vergogna un tal sconforto, Che avria pena minore ad esser morto. Or lasciamo costor tutti da parte, Che/ nel presente ne e\ detto a bastanza, Pero\ che il conte Orlando e Brandimarte Mi fa bisogno di condurli in Franza, Accioche/ queste istorie che son sparte, Siano raccolte insieme a una sustanza; Poi seguiremo un fatto tanto degno Quanto abbia libro alcuno in suo contegno. Andava Brandimarte e il conte Orlando Per ritrovare Angelica al girone, Si\ come io vi contava alora quando Lascio\ Ranaldo Astolfo con Dudone; Or la\ ritorno e dico, seguitando, Che in diversi paesi e regi%one Per aventure strane ebber che fare, Come io vi voglio a ponto racontare. Insieme cavalcando una matina; In India, se trovarno ad un gran sasso, Ove presso a una fonte una regina Tenea piangendo forte il viso basso; Sopra ad un ponte che quivi confina, Guardava un cavalliero armato il passo. Ferma^rsi e duo baron, pur con pensiero Di aver battaglia con quel cavalliero. Ma ciascun d' essi, io dico il paladino E Brandimarte, in prima volea gire; E, standosi in contesa, un peregrino Col suo bordone in man vedon venire. Quel mostrava aver fatto un gran camino, E passandosi via senz' altro dire, Piu\ non pensando, al ponte se ne entrava, Ma il cavallier di la\ forte cridava: #_ {add} To/rnati {/add; To\rnati Z} adietro, se non vo^i morire, {add} To/rnati {/add; To\rnati Z} adietro, $_ cridava #_ poltrone, Che/ non e\ cavallier di tanto ardire, Qual commettesse questa fallisone! Se tu non torni, io te faro\ partire Con si\ fatto combiato, vil giottone, Che mai non vederai ponte ne/ sasso Qual non te torni a mente questo passo. $_ Il peregrin, mostrandosi tapino, Dicea: #_ Baron, per Dio! lasciami andare, Ch' io aggio un voto al tempio de Apollino, Il quale e\ in Sericana a lato al mare. Se un altro ponte qua fosse vicino, Ove questa acqua si possa vargare, E me lo mostri, io te ringrazio e lodo; Se non, qua passar voglio ad ogni modo. $_ #_ Come ## a ogni modo $#, schiuma di cucina! $_ Rispose il cavallier forte adirato, E verso lui se mosse con ruina, Per averlo del ponte trabuccato; Ma il peregrin, gettando la schiavina, Di sotto si scoperse tutto armato; Lasciando andare a terra il suo bordone, Trasse con furia un brando dal gallone. E' non se vidde mai livrer ne/ pardo, Il qual levasse si\ legiero il salto, Come faceva il peregrin gagliardo, E quanto il cavallier sempre e\ tanto alto. Ne/ questo a quello avea ponto riguardo, Ma con feroce e dispietato assalto L' un l' altro avea ferito in parte assai, E pur van drieto e non s' arrestan mai. Il cavallier smontato era de arcione, Temendo che il destrier gli fosse occiso, E se non fosse si\ forte barone, Dal peregrin seri\a stato conquiso. Cio\ riguardando il figlio di Melone E Brandimarte, fo ben loro aviso Non aver visti al mondo duo guerrieri Che sian de questi piu\ gagliardi e fieri. E benche/ a ciascun d' essi un' altra volta Sembri aver visto il peregrino altronde, Lo abito strano e la gran barba e folta Non gli lascia amentare il come o il donde. Or la battaglia e\ ben stretta e ricolta, Ne/ abatte il vento si\ spesso le fronde, Ne/ si\ spessa la neve o pioggia cade, Come son spessi e colpi de le spade. Il peregino ognior del ponte avanza, Come colui che a meraviglia e\ fiero, Et era de alto ardire e gran possanza, Onde avea gia\ ferito il cavalliero Nel braccio, nella testa e nella panza, Si\ che ritrarsi gli facea mestiero; E benche/ ancor mostrasse ardita fronte, Pur se ritrava abandonando il ponte. Era di la\ dal ponte una pianura Intorno al sasso di quella fontana; Quivi era un marmo de una sepoltura, Non fabricata gia\ per arte umana, E sopra, a lettre d' oro, una scrittura, La qual dicea: #+ Bene e\ quella alma vana, Qual s' invaghise mai del suo bel viso; Quivi e\ sepolto il giovane Narciso. $+ Narciso fu in quel tempo un damigello Tanto ligiadro e di tanta bellezza, Che mai non fu ritratta con pennello Cosa che avesse in se/ cotal vaghezza; Ma disdegnoso fu come fu bello, Pero\ che la beltate e l' alterezza Per le piu\ volte non se lascian mai, Dil che perita e\ gran gente con guai: Si\ come la regina de Ori%ente Amando il bel Narciso oltra misura, E trovandol crudel si\ de la mente, Che di sua pieta o di suo amor non cura, Se consumava misera, dolente, Piangendo dal matino a notte oscura, Porgendo preghi a lui con tal parole, Che arian possanza a tramutare il sole. Ma tutte quante le gettava al vento, Perche/ il superbo piu\ non l' ascoltava Che aspido il verso de lo incantamento, Onde ella a poco a poco a morte andava, E gionta infin allo ultimo tormento Il dio d' Amore e tutto il cel pregava, Ne gli estremi sospir piangendo forte, Iusta vendetta a la sua iniusta morte. E cio\ gli avenne, pero\ che Narciso Alla fontana, de che io ve contai, Cacciando un giorno fo gionto improviso, E corso avendo dietro a un cervo assai, Chinosse a bere, e vide il suo bel viso, Il qual veduto non avea piu\ mai; E cadde, riguardando, in tanto errore, Che de se stesso fu preso d' amore. Chi odi\ giamai contar cosa si\ strana? O iustizia de Amor, come percote! Or si sta sospirando alla fontana, E brama quel che avendo aver non pote. Quell' anima che fu tanto inumana, A cui le dame ingenocchion devote Si stavano adorar come uno Dio, Or mor de amore in suo stesso desio. Esso, mirando il suo gentile aspetto, Che di beltate non avea pariglio, Se consumava di estremo diletto, Mancando a poco a poco, come il ziglio O come incisa rosa, il giovanetto, Sin che il bel viso candido e vermiglio E gli occhi neri e 'l bel guardo iocondo Morte distrusse, che destrugge il mondo. Quindi passava per disaventura La fata Silvanella a suo diporto, E dove adesso e\ quella sepoltura Iacea tra' fiori il giovanetto morto. Essa, mirando sua bella figura, Prese piangendo molto disconforto, Ne/ se sapea partire; e a poco a poco Di lui s' accese in amoroso foco. Benche/ sia morto, pur di lui s' accese, Avendo di pietate il cor conquiso, E li\ vicino a l' erba se distese, Baciando a lui la bocca e il freddo viso, Ma pur sua vanitate al fin comprese, Amando un corpo dal spirto diviso, E la meschina non sa che si fare: Amar non vo^le, e pur conviene amare. Poi che la notte e tutto l' altro giorno Ebbe la fata consumato in pianto, Un bel sepolcro di marmoro adorno In mezo il prato fece per incanto; Ne/ mai poi se partitte ivi de intorno, Piangendo e lamentando, infino a tanto Che a lato alla fontana in tempo breve Tutta se sfece, come al sol la neve. Ma per aver ristoro o compagnia A quel dolor che a morte la tirava, Struggendosi de amor, fu tanto ria, Che la fontana in tal modo affatava, Che ciascun, qual passasse in quella via, Se sopra a l' acqua ponto rimirava, Scorgea la\ dentro faccie di donzelle, Dolce ne gli atti e grazi%ose e belle. Queste han ne gli occhi lor cotanta grazia, Che chi le vede, mai non puo\ partire, Ma in fin convien che amando se disfazia, Et in quel prato e\ forza de morire. Ora ivi arivo\ gia\ per sua disgrazia Un re gentile, accorto e pien d' ardire, Quale era in compagnia de una sua dama: Lei Calidora e lui Larbin si chiama. Essendo questo alla fonte arivato, E dello incanto non essendo accorto, Per la falsa sembianza fu ingannato, E sopra l' erbe ivi rimase morto. La dama, che l' avea cotanto amato, Abandonata de ogni suo conforto, Si pose a lacrimare in quella riva, E star si vo^le insin che sera\ viva. Questa e\ la dama che piangeva al sasso, E il ponte al cavallier facea guardare, Accioche/ ogni altro che arivava al passo Non se potesse a quel fonte mirare. Da poi che il suo Larbin dolente e lasso Per quello incanto vidde consumare, Pieta\ gli prese de ogni altra persona, E stassi al fonte, e mai non l' abandona. E questa istoria, quale io v' ho contata, Del bel Narciso e di sua morte strana, Lei tutta la narro\, come era stata, Al conte Orlando presso alla fontana, Poscia che vidde la disconsolata Alla battaglia orribile e inumana Quel franco peregrino esser si\ forte, Che al suo barone avria dato la morte. Temendo che sia morto il suo barone, Aiuto o pace dimandava al conte, Mostrando a lui che per compassi%one De ogni altra gente fa guardare il ponte; Onde a bona drittura di ragione Non debbe il cavallier ricevere onte, Qual non dimora la\ per fellonia, Ma per campare altrui da morte ria. Cognosce il conte che ella dice il vero, Pero\ ben presto se trasse davante, E tra quel peregrino e il cavalliero Sparti\ la fiera zuffa in uno istante; Poi, riguardando a lor con piu\ pensiero, Cognobbe che l' uno era Sacripante E l' altro, che in piu\ parte fu ferito, Era Isolieri, il giovanetto ardito; Qual, per guardare a Calidora il passo, Insin di Spagna a l' India era venuto, Che pur pensando al gran camin son lasso; Amor l' avea condutto e ritenuto. Ma Sacripante andava al re Gradasso, Da Angelica mandato per aiuto, Come io vi dissi alora che Brunello A lui tolse il destriero, a lei lo anello. Alor contai come prese il camino: Non so se a ponto ben lo ricordati, Che l' abito piglio\ di peregrino. Avendo gia\ piu\ regni oltra passati, Gionse alla fonte in su questo confino. Segnor, che intorno e mei versi ascoltati, Se alcun de voi de odire ha pur talento, Ne l' altro canto io lo faro\ contento. Fo glori%osa Bertagna la grande Una stagion per l' arme e per l' amore, Onde ancora oggi il nome suo si spande, Si\ che al re Artuse fa portare onore, Quando e bon cavallieri a quelle bande Mostrarno in piu\ battaglie il suo valore, Andando con lor dame in aventura; Et or sua fama al nostro tempo dura. Re Carlo in Franza poi tenne gran corte, Ma a quella prima non fo sembi%ante, Benche/ assai fosse ancor robusto e forte, Et avesse Ranaldo e 'l sir d' Anglante. Perche/ tenne ad Amor chiuse le porte E sol se dette alle battaglie sante, Non fo di quel valore e quella estima Qual fo quell' altra che io contava in prima; Pero\ che Amore e\ quel che da\ la gloria, E che fa l' omo degno et onorato, Amore e\ quel che dona la vittoria, E dona ardire al cavalliero armato; Onde mi piace di seguir l' istoria, Qual cominciai, de Orlando inamorato, Tornando ove io il lasciai con Sacripante, Come io vi dissi nel cantare avante. Dapoi che il conte intese dove andava Re Sacripante, et ove era venuto, E come in tema Angelica si stava Non aspettando d' altra parte aiuto, Il franco cavallier ben sospirava, E tutto se cambio\ nel viso arguto; E senza fare al ponte altro pensiero, Calidora lascio\ con Isoliero. E Sacripante prese la schiavina E la tasca e il cappello e il suo bordone; Al re Gradasso via dritto camina. Ma torno adesso al figlio di Melone, Che cavalcando gionse una matina Con Brandimarte ad Albraca il girone; Ma non san come far quivi l' intrata, Cotanta gente intorno era acampata. Torindo, il re de' Turchi, e 'l Caramano Quivi era in campo, e 'l re di Santaria E Menadarbo, il quale era Soldano, Che tenne Egitto e tutta la Soria; Coperto era a trabacche e tende il piano: Non se vidde giamai tanta genia; Solo adunata e\ quella gente fella Per donar pena e morte a una donzella. Ma chi per una e chi per altra iniuria Intorno a quella dama era attendato; Torindo il Turco menava tal furia Per Trufaldino, il qual fo spregionato; E Menadarbo, quel Soldan, lo alturia, Pero\ che fo gran tempo inamorato De Angelica la bella; e sempre mai Ebbe repulsa e beffe e scorni assai. Onde l' amore avea in odio rivolto, E sol per disertarla venuto era. Veggendo Orlando il gran popolo accolto, Che avea coperto il piano e la costiera, Benche/ egli ardisse e disi%asse molto Di far battaglia piu\ che voluntiera, Tanto vedere Angelica li piace Che provar volse di passare in pace. Pero\ se ascose in un bosco vicino, E la\ si stette insino a notte oscura, Poi, come quel che ben sapea il camino, Intro\ dentro alla rocca alla sicura. Quando la dama vidde il paladino, Di tutto il mondo ormai non ha piu\ cura; Non dimandati se ella ebbe conforto, Perche/ certo credea che 'l fusse morto. Molte fo^r le carezze e l' accoglienza Che Angelica li fece a quel ritorno. Il conte di narrarle indi comenza Poscia che se partitte il primo giorno, Insin che e\ gionto nella sua presenza; Come trovo\ Marfisa e perse il corno, E de Origille quelle beffe tante, Sin che in prigion lo pose Manodante; Come Ranaldo quindi era partito Per gire in Franza, et Astolfo e Dudone; E cio\ che prima e poscia era seguito Li disse Orlando a ponto per ragione. La dama, benche/ il tutto avesse odito, Pure ascoltando che il figlio d' Amone Era tornato in Franza al suo paese, De rivederlo ancor tutta se accese. Onde comincio\ il conte a confortare, Mostrando a lui per diverse cagione Come doveva in Francia ritornare; E che ormai piu\ dentro a quel girone Non e\ vivanda che possa durare, Si\ che star non vi puo\ lunga stagione, Et e\ bisogno aritrovar rimedio Onde si campi for di quello assedio. E che ella seco ne volea venire, Ove ad esso piacesse, in ogni loco. Or quivi non fu gia\ molto che dire, Ne/ il conte vi penso\ troppo ne/ poco; Ma quella notte se ebbero a partire, E nella rocca in molte parte il foco Lasciarno, che alle torre e nei merli arda, Per dimostrar che ancor vi sia la guarda. E poi per l' aria scura e tenebrosa Tutto passarno senza impaccio il campo; Ma possa che ogni stella fu nascosa, E del giorno vermiglio apparbe il lampo, Non gli coprendo ormai la notte ombrosa, Piglia^r rimedio et ordine al suo scampo: Tutta lor compagnia forse e\ da venti, Tra dame e cavallieri e lor sargenti. E questa alora tutta se disparte, Chi qua, chi la\, ciascuno a suo comando; Rimase Fiordelisa e Brandimarte Et Angelica bella e il conte Orlando. Or questi quattro se trasse da parte, E tutto il giorno appresso cavalcando Ne andarno insino a l' ora della nona Senza trovare impaccio de persona. Essendo alora il giorno riscaldato, Ciascadun de essi del destrier discese Sotto l' ombra de un pin, ad un bel prato, Ma non che se spogliasse alcun l' arnese; E, stando il conte e Brandimarte armato, Ne/ temendo ormai piu\ de altre offese, Stavano ad agio parlando d' amore, Quando a sue spalle odirno un gran rumore. Onde levati, un poco di lontano Videro una gran gente a belle schiere, Che via ne vien distesa per il piano, Et ha spiegato al vento le bandiere. Questo era Menadarbo, il gran Soldano, E 'l re de' Turchi e l' altre gente fiere, Che avean l' assedio a quella rocca intorno, Anci l' han presa et arsa pur quel giorno. Perche/, essendo aveduti la mattina Che piu\ persona non era in quel loco, Intrarno tutti dentro con roina, La bella rocca abandonarno in foco; Poi Menadarbo al tutto se destina Aver la dama e di farli un mal gioco, E Torindo gli e\ dietro e 'l Caramano, E tutti gli altri poi di mano in mano. Quando se accorse Orlando de la gente Che ratta ne veni\a per la pianura, Turbosse for di modo nella mente, Pero\ che de le dame avea paura; Ma Brandimarte se cura ni%ente, Anci diceva al conte: #_ Or te assicura Che, piacendoti far quel che io te dico, Quella canaglia non estimo un fico. Io ho, come tu vedi, un bon destriero, Quanto alcun altro che n' abbia il Levante, E non e\ tra costor gia\ cavalliero, Che ad un per uno io non li sia bastante. Quivi voglio arrestarmi in su il sentiero; Tu con le dame passarai avante, Io con parole e fatti si\ faraggio Che prenderai andando alcun vantaggio. $_ A benche/ il conte cognoscesse a pieno Che quello e\ vero e bon provedimento Qual dice Brandimarte, nondimeno Lo abandonarlo {add} parria {/add; parri\a Z} mancamento; Ma pur rivolse ne la fine il freno, Per far di questo quel baron contento; In mezo a le due dame avanti passa, E Brandimarte in su quel prato lassa. La gente sterminata ne veni\a Per la campagna senza alcun riguardo; Secondo che il destrier ciascun avia, Chi giongeva piu\ presto, e chi piu\ tardo; Ma avanti a gli altri il re di Satalia Veni\a, broccando un gran ronzon leardo; Sopra la briglia gia\ non se ritiene, Piu\ de una arcata avanti a gli altri viene. Sembrava proprio al corso una saetta Quel re, che era appellato Marigotto; E Brandimarte stava alla vedetta. Come lo scorse ben, disse di botto: ## Costui ha di morire una gran fretta, Che/ avanti a gli altri vo^l pagare il scotto. $# Cosi\ dicendo e crollando la testa Sprona il destriero e la sua lancia arresta. E Marigotto fece il simigliante: Verso di questo venne, e l' asta abassa; Ma Brandimarte, che 'l gionse davante, Dopo alle spalle con la lancia il passa; E d' urto dapoi gionse lo afferante, E con ruina a terra lo fraccassa, La\ dove Marigotto e 'l suo ronzone Ne andarno in fascio, a gran destruzi%one. Gia\ Brandimarte avea sua spata tratta, E da\ tra gli altri senza alcun riparo. Oh come bene intorno se sbaratta, Facendo de lor pezzi da beccaro! Onde alla gente che veni\a si\ ratta, Cominciava il terreno a parer caro, E non mostrano ormai cotanta fretta, Che/ piu\ che voluntier l' un l' altro aspetta. Ma Menadarbo vi gionse, adirato Che un sol barone arresti tanta gente, E stringendo la lancia al destro lato Ne vien spronando il suo destrier corrente; E colse Brandimarte nel costato, Ma de arcione il piego\ poco o ni%ente: La lancia rotta in pezzi cade a terra, E Brandimarte adosso a lui si serra. Levando alto a due mano il brando nudo, Mena con furia al mezo della testa. Or lui coperto avea l' elmo col scudo: Ne/ l' un ne/ l' altro quel gran colpo arresta, Che/ il scudo e l' elmo ruppe il brando crudo, E cadde Menadarbo alla foresta, Partito dalla fronte insino ai denti; Or vi so dir che gli altri avean spaventi. Ma non di manco gli stavano intorno, E chi lancia da longi e chi minaccia. Poco gli stima il cavalliero adorno, Et ora questi et or quelli altri caccia; Cosi\ gran parte e\ passata del giorno, Perche/ la gente che seguia la traccia Crescendo ne veni\a di mano in mano: Ecco gionto e\ Torindo e il Caramano. Prima gionse Torindo a gran baldanza: Con l' asta bassa Brandimarte imbrocca, E spezzo\ sopra al scudo la sua lanza; Ma Brandimarte ad una spalla il tocca, E quasi lo parti\ insino alla panza, E dello arcione a terra lo trabocca. Vedendo quel gran colpo il Caramano Volta il destriero e fugge per il piano. Ma quel fuggire avria poco giovato, Se non avesse avuto a volar piume. Venne la notte, e il giorno era passato, Ne/ per quel loco si vedea piu\ lume; E 'l Caramano avanti era campato, Natando per paura un grosso fiume; Poi molte miglia per le selve ombrose Ando\ fuggendo et al fin se nascose. E Brandimarte, che l' avea seguito Cacciando a tutta briglia il suo destriero, Dapoi che vide ch' egli era fuggito E che a pigliarlo non era mestiero, Guardando al prato dove era partito Non vi sa piu\ tornare il cavalliero, Perche/ la notte che ha scacciato il giorno Avea oscurato per tutto d' intorno. Intrato adunque per la selva alquanto, E non sapendo mai di quella uscire, Smonto\ di sella e trassese da un canto, Sopra alle fronde se pose a dormire; Ma rotto li fo il sonno da un gran pianto, Qual quindi presso li parve de odire, E sembrava la voce de una dama, Che a Dio mercede lacrimando chiama. Chi sia la dama qual mena tal guai, Poi oderiti stando ad ascoltare. Ma sia de Brandimarte detto assai, Che/ al conte Orlando mi convien tornare, Il qual, partito come io vi contai, Verso Ponente prese a caminare, Ne/ passato era avanti oltre a sei miglia, Che ebbe travaglia e pena a meraviglia. Pero\ che, intrato essendo in duo valloni, Chinandosi gia\ il sole in ver la sera, Trovo\ sopra a que' sassi e Lestrigioni, Gente crudele e dispietata e fiera. Costoro han denti et ungie de leoni, Poi son come gli altri omini alla ciera, Grandi e barbuti e con naso di spana: Bevono il sangue e mangian carne umana. Il conte entrato gli vede a sedere Ad una mensa che e\ posta tra loro, E sopra quella da mangiare e bere, Con gran piatti d' argento e coppe d' oro. Come cio\ scorse Orlando, a piu\ potere Sprona il ronzon per giongere a costoro, E ben {add} seguito {/add; segui\to Z} lo tenean le dame, Che/ l' una piu\ che l' altra ha sete e fame. Via van trottando per giongere a cena, Ma prestamente fia ciascuna sacia. Or vanne il conte, e con faccia serena A que' ribaldi disse: #_ {add} Pro {/add; Pro\ Z} vi facia. Poi che fortuna a tale ora mi mena In questo loco, prego che vi piacia Per li nostri dinari, o in cortesia, Che siamo a cena vosco in compagnia. $_ Il re de' Lestrigoni, Antropofa\go, Odendo le parole levo\ il muso. Questo avea gli occhi rossi come un drago, E tutto di gran barba il viso chiuso; De veder gente occisa e\ troppo vago, Come colui che tutto il tempo era uso Matina e sera di farne morire, Per divorarli e il suo sangue sorbire. Quando costui odi\ il conte parlare, Veggendolo a destriero e bene armato, Dubito\ forse nol poter pigliare, Onde li fece loco a se/ da lato, Pregando che volesse dismontare; Ma il conte aveva gia\ deliberato, Se lo invitasse, de accettar lo invito, Se non, pigliar da cena a ogni partito. Onde discese de il destriero al basso, Ma non se assetta, le dame aspettando, Le qual venian pero\ piu\ che di passo. Ora odi\ il conte lor, che mormorando Dicevan l' uno a l' altro: #_ Egli e\ ben grasso. $_ E quel rispose: #_ Io nol so, se non quando Io il vedo a rosto, o ver quand' io l' attasto; E sapro\ il meglio se io ne piglio un pasto. $_ Non attendeva Orlando a tal sermone, Come colui che alle dame guardava, Ma in questo Antropofa\go il Lestrigone Da mensa pianamente se levava, E, preso avendo in mano un gran bastone, Venne alle spalle del conte di Brava, E sopra l' elmo ad ambe mano il tocca, Si\ che disteso a terra lo trabocca. Molti altri se aventarno anco di fatto Verso le dame dai visi sereni, Perche/ volevan tutti ad ogni patto Aver di quella carne e corpi pieni; Ma lor, che se smarirno di quello atto, Voltarno incontinente i palafreni, E l' una in qua e l' altra in la\ fuggiva; La mala gente apresso le seguiva. Givan piangendo e lamentando forte Le damigelle con molta paura, E, non essendo nel paese scorte, Andarno errando per la selva oscura. Tornamo al conte, che e\ presso alla morte: Gia\ tratta gli han di dosso l' armatura, E non e\ ancora in se/ ben rinvenuto Per il gran colpo che ha nel capo avuto. {add} Antropofa\go, {/add; Antropofago, Z} il re crudo e superbo, Gli pose adosso il dispietato ungione, Dicendo a gli altri: #_ Questo e\ tutto nerbo: Da gli occhi in fora non c' e\ un buon boccone. $_ Sentendo Orlando lo attastare acerbo, Per quella doglia usci\ de stordigione, E salto\ in piede il cavallier soprano; Come a Dio piacque, a lor scappo\ di mano. Dietro gli e\ il re con molti Lestrigoni, Cridando a ciascadun ch' e passi chiuda; Chi gli tra' sassi, e chi mena bastoni: Tutta gli e\ adosso quella gente cruda, Ne/ lo lascia partir de que' cantoni. Ora ecco ha vista Durindana nuda, Che avean lasciata quei ribaldi a terra; Ben prestamente il conte in man l' afferra. Quando se vidde la sua spada in mano, Pensati pur tra voi se il fo contento. Ove se imbocca quel vallone a piano, Eran firmati di costor da cento, Tutti di viso et abito villano; Ne/ scudo o brando o altro guarnimento, Ma pelle d' orsi e di cingiali in dosso Avea ciascun, e in mano un baston grosso. Il conte Orlando tra costor se caccia, Menando il brando a dritto et a roverso, E l' un getta per terra, e l' altro amaccia, Questo per lungo e quel taglia a traverso; Spezza e bastoni e seco ambe le braccia, Ma quel rio populaccio e\ si\ perverso Che, avendo rotto e perso e piedi e mane, Morde co' denti, come fa lo cane. Convien che spesso il conte se ritorza, Perche/ ciascun de intorno l' aggraffava. Ora il suo re, si\ come avea piu\ forza, Maggior baston de gli altri assai portava, Et era tutto armato de una scorza; Giu\ per la barba gli cadea la bava, Che colava di bocca e del gran naso, Come un cane arabito, a quel malvaso. Piu\ di tre palmi sopra gli altri avanza Questo re maledetto che io vi conto; Orlando lo assali\ con gran possanza, E dritto a mezo il capo l' ebbe gionto; Callo\ il brando nel petto e nella panza, Si\ che in due parte lo divise a ponto, E cadde da due bande alla foresta; Il conte da\ tra gli altri e non s' arresta. E fece un tal dalmaggio in poco de ora, Che di quella canaglia maledetta Non vi e\ persona che faccia dimora Avanti al conte: tristo chi lo aspetta! Perche/ col brando in tal modo lavora, Che non si trova ne/ pezzo ne/ fetta De alcun, che morto al campo sia rimaso, Qual sia maggior che prima fosse il naso. Onde lui resto\ solo in quel vallone, Et era il giorno quasi tutto spento, Quando esso se adobbo\ sue guarnisone; E di mangiare avendo un gran talento, Venne alla mensa, a quelle imbandisone, Le qual mirando quasi ebbe spavento, Pero\ che quelle gente disoneste Cotte avean bracie umane e piedi e teste. Ben vi so dir che gli fuggi\ la fame A quel convito dispietato e fiero, Se ben ne avesse avuto maggior brame. Ma torna adietro e prende il suo destriero, Deliberato di cercar le dame, Che/ ritrovarle avea tutto il pensiero. E diceva piangendo: ## Or chi me aiuta Forza ne/ ardir, se mia dama e\ perduta? Se mia dama e\ perduta, or che mi vale Aver morto costor dal brutto viso? Che se io non la ritrovo, era men male Esser da lor con quei bastoni occiso. O Patre eterno! o Re celesti%ale! O Matre del Segnor del paradiso! Datime presto l' ultimo conforto, Ch' io la ritrovi, o che io presto sia morto. $# Piangendo il conte parlava cosi\, Come io vi ho detto, e nella selva intro\; Errando ando\ per quella in sino al di\, Ma cio\ ch' el va cercando non trovo\. Essendo l' alba chiara, et ello odi\ Cridar: #_ Va la\! va la\! che/ ella non puo\ Scappare ormai piu\ fuora di quel passo, Che/ la\ davanti e\ rui%nato il sasso. $_ Dricciosse Orlando ove colui favella, E presto del cridar vidde lo effetto, Perche/ cognobbe quella gente fella De' Lestrigoni, il popol maledetto, Che avean cacciata Angelica la bella Ove se era condutta al passo stretto, Che arendersi bisogna a chi la caccia, O roi%narsi da ducento braccia. Quando la vidde il conte a tal periglio, Non dimandati se fretta menava. Era per ira in faccia si\ vermiglio, Che poco longi un foco dimostrava. Urto\ il destriero e al brando die\ di piglio, E quel de intorno a gran furia menava, Lasciando ove giongeva un tal segnale, Che per guarirlo medico non vale. Eran costor che io dico, da quaranta, Che avean stretta la dama in su quel sito, Ne/ gia\ de tutti quanti un sol si vanta Che senza la sua parte sia partito. Se la canaglia fosse due cotanta, Ciascuno a bon mercato era fornito Di squarci per la testa e per la faccia: A chi tronco\ le gambe, a chi le braccia. Angelica fu scossa in questa via, La quale era fuggita in ver ponente; Ma Fiordelisa, che a levante {add} gia, {/add; gi\a, Z} Pur fu seguita ancor da questa gente. Tutta la notte la brigata ria L' avea cacciata, sino al sol nascente, E proprio l' ha condutta in quella parte Ove dormiva il franco Brandimarte. Ella piangendo a Dio se accomandava, Et era gia\ si\ stracco il palafreno, Che, pur fuggendo, indarno il speronava. De Lestrigoni intorno il bosco e\ pieno, Che/ ciascun de pigliarla procacciava, Onde essa di paura veni\a meno, E gia\, ponendo il corpo per perduto, A Dio per l' alma adimandava aiuto. Gia\ riluceva alquanto pure il giorno, Come io vi dissi, e l' alba era schiarita, E Brandimarte, il cavalliero adorno, Dormia li\ presso in su l' erba fiorita, Onde svegliosse; e guardando de intorno Vidde la dama trista e sbigotita, Che da que' Lestrigoni avia la caccia; Ben la cognobbe incontinenti in faccia. Onde fo presto al suo destrier salito, E con roina verso lei si mosse; Avendo tratto il suo brando forbito, Incontro\ un Lestrigone e quel percosse. Non vi restava apena integro un dito, Che/ tagliate gli avrebbe ambe le cosse, Ne/ a quel ch' e\ in terra il cavalliero attende, Ma tocca un altro e insino al petto il fende. Erano allor a trenta Lestrigoni, O forse qualcun manco, a dire il vero, E qual tutti con sassi e con bastoni Chi dava a Brandimarte e chi al destriero, Ma lui facea de lor tanti squarcioni, Che pieno avea de intorno a quel sentiero Di teste e braccia; e tuttavia tagliando, Carco avea tutto di cervelle il brando. Ivi de intorno alcun piu\ non appare Di quella gente brutta e maledetta; Lui Fiordelisa corse ad abracciare, E ben mez' ora a se/ la tenne stretta, Prima che insieme potesse parlare; Ma poi piangendo quella tapinetta Contava al cavallier con disconforto Come alla terra Orlando ha visto morto. Cosi\ dicea perche/ l' avea veduto Tra i Lestrigoni alla terra disteso; Or Brandimarte per donarli aiuto A quella parte se ne va disteso. Ma io sono al fin del canto gia\ venuto: Segnori e dame, che l' avete inteso, Dio vi faccia contenti e di tal voglia, Che ritornati a l' altro con piu\ zoglia. Gia\ me trovai di maggio una matina Intro un bel prato adorno {t} de fiore, {/t S; d' ogni fiore, Z} Sopra ad un colle, a lato alla marina Che tutta tremolava de splendore; E tra le rose de una verde spina Una donzella cantava de amore, Movendo si\ soave la sua bocca Che tal dolcezza ancor nel cor mi tocca. Toccami il core e fammi sovenire Dal gran piacer che io presi ad ascoltare; E se io sapessi cosi\ farme odire Come ella seppe al suo dolce cantare, Io stesso mi verrebbi a proferire, Ove tal volta me faccio pregare; Che/, cognoscendo quel ch' io vaglio e quanto, Mal volentieri alcuna fiata io canto. Ma tutto quel che io vaglio, o poco o assai, Come vedeti, e\ nel vostro comando, E con piu\ voglia e piu\ piacer che mai La bella istoria vi verro\ contando; Ove, se me ramenta, vi lasciai Nel ragionar di Brandimarte, quando Con Fiordelisa, di bellezza fonte, Tornava adietro a ritrovare il conte. Tornando adietro il franco cavalliero Con Fiordelisa, a mezo la giornata Trovarno un varletino in su un destriero, Che avea dietro una dama iscapigliata. Lui via ne andava si\ presto e legiero, Che mai saetta de arco fu mandata Con tanta fretta, o da ballestra il strale, Qual non restasse a lui dietro a le spale. La dama, che era a piedi, pur seguia, A benche/ fosse a lui molto lontana. Il cavalliero incontra gli veni\a Con Fiordelisa per la terra piana; E l' altra dama, che questa vedia, Cridando incomincio\: #_ Falsa puttana! Non ti varra\ costui ch' e\ la tua scorta, Che/ in ogni modo a sto ponto sei morta. $_ Lascio\ la briglia, battendo ogni mano, E ben se tenne morta Fiordelisa, Perche/ cognobbe presto aperto e piano Che quella dispietata era Marfisa, La qual seguito avea Brunello invano (Il tutto vi ho contato, et a qual guisa); Avendo quel giottone assai seguito, Trovo\ la dama e il cavalliero ardito. Era Brunello adunque il varletino Ch' e\ sopra a quel destrier di tanta lena; Lui via passo\, fuggendo al suo camino, Ne/ con la vista lo seguirno apena. Quando Marfisa l' occhio serpentino Volto\, di doglia e di grande ira piena, Mirando Brandimarte e la sua dama Far la vendetta sopra a questi ha brama. E le parole che ho sopra contate A Fiordelisa disse minacciando; E benche/ l' arme avesse dispogliate, E senza destrier fusse e senza brando, Di sommo ardire avea tanta bontate Che, Brandimarte armato riguardando, Volea seco battaglia a ogni partito; Ma a lui non piacque de accettar lo invito. Che/ a ferire una dama disarmata A lui parea vergogna e grande iscorno. Era una pietra in quel campo piantata, Ove seguito avea Brunello il giorno, Da trenta passi, o quasi, diruppata, E cento ne voltava, o piu\, de intorno; Per un scaglione alla cima se sale: Altronde non, chi non avesse l' ale. Questa adocchiata avea l' aspra donzella, Ne/ pose alcuna indugia al pensamento, Ma trasse Fiordelisa de la sella E, via fuggendo ratta come un vento, Monto\ la pietra, che parbe una occella; A benche/ Brandimarte non fu lento A seguitarla, come vidde il fatto, Ma pur rimase in asso a questo tratto. Perche/ il scaglione e\ tanto diruppato, Che non che alcun destrier possa salire, Ma non vi puote lui montare armato, Onde si cominciava a disguarnire. Marfisa dal piu\ sconcio et alto lato Porto\ la dama per farla morire: In braccio la porto\ sopra a quel sasso Per trabuccarla dalla cima al basso. E Fiordelisa menava gran pianto, Come colei che morta se vedia, E 'l cavallier ne faceva altro tanto, E de ira e de dolor quasi moria. Egli e\ coperto de arme tutto quanto, E di camparla non vede la via; Se ben salisse, salirebbe invano, Che/ a suo mal grato fia gettata al piano. Onde con pianto e con dolce preghiera Incomincio\ Marfisa a supplicare Che non voglia esser si\ spietata e fiera, Se/ proferendo e cio\ che potea fare. Sorrise alquanto la donzella altiera, Poi disse: #_ Queste zanze lascia andare: Se costei vo^i campare, egli e\ mestiero Che l' arme tu me doni e il tuo destriero. $_ Or non fu molta indugia a questo fatto, Che/ ciascaduno il prese per megliore. A Brandimarte parve un bon baratto Se ben cambiasse per sua dama il core; Cosi\ Marfisa ancora attese il patto, E, preso che ebbe l' armi e il corridore, Lascio\ la dama che avea giu\ portata, E salta in sella e via cavalca armata; E via passando con molta baldanza, Come colei che fu senza paura, Trovo\ duo che e\no armati a scudo e lanza Sopra duo gran ronzoni alla pianura. Costor fo^r quei che la menarno in Franza. Ma poi vi contero\ questa aventura, E torno a Brandimarte e Fiordelisa, Come Turpin la istoria a me divisa. Brandimarte monto\ nel palafreno Della sua dama, e quella tolse in groppa, E cavalcando assai per quel terreno Trovarno a lato a un fiume una alta pioppa, E nella cima, o ver nel mezo almeno, Stava un ribaldo e cridava: #_ Galoppa, Galoppa, Spinamacchia e Malcompagno, Che/ qua di sotto e\ robba da guadagno. $_ Il cavallier, che intese tal latino, Fermosse a quello, e non sa che si fare, Perche/ cognobbe che egli e\ un malandrino, Qual chiamava e compagni per robbare; E lui se trova sopra a quel ronzino, Ne/ vede modo a poterse aiutare, Che/ non ha spata ne/ scudo ne/ maglia; Trovar non sa diffesa che li vaglia. E gia\ scoperti son forse da sette, Chi a piedi, chi a destrier, di quella gente. ## Or non bisogna che quivi gli aspette! $# Diceva Brandimarte in la sua mente; E per la selva correndo se mette, E lor non lo abandonan per ni%ente, Ma chi dice: #_ Sta forte! $_ e chi minaccia: Gia\ piu\ di trenta sono a dargli caccia. Oh quanto se vergogna il cavalliero Fuggir davante a gente si\ villana! Che se egli avesse l' arme e il suo destriero, Non se trarebbe adietro a meza spana. Or via fuggendo per stretto sentiero Gionse intra un prato, ove era una fontana: Cinto d' intorno e\ da la selva il prato, E uno altissimo pino a quello a lato. Fuggendo il cavallier con disconforto, Come io vi dico, e molto mal contento, Un re vidde alla fonte, che era morto, Et avea in dosso tutto il guarnimento; E Brandimarte come ne fo accorto, Ad accostarsi ponto non fu lento, E prese il brando, che avea nudo in mano, E giu\ del palafren salto\ nel piano. Il manto se rivolse al braccio manco, E con la spada e malandrini affronta. Mai non fu campi%on cotanto franco: Questo tocca di taglio, e quel di ponta, A l' uno il petto, a l' altro passa il fianco. Or che bisogna che piu\ ve raconta? Tutti e ladroni occise in poco de ora, Si\ ben col brando intorno egli lavora. Camponne solamente un sciagurato (Gia\ non campo\, ma poco usci\ de impaccio), Il qual fuggi\ ferito nel costato, E via di netto avea tagliato un braccio. Alla capanna subito fo andato, Ove si stava il crudo Barigaccio, Barigaccio, il figliol di Taridone: Corsar fo il patre, et esso era ladrone. Ma Barigaccio grande di statura Fo piu\ del patre, e forte di persona. Ora a lui gionse con molta paura Lo inaverato, e il tutto gli ragiona Come passata e\ la battaglia scura, Poi morto a lui davante se abandona; Essendo uscito il sangue de ogni vena, Cadegli avante e piu\ non se dimena. Onde turbato Barigaccio il fiero Fo a maraviglia, e prese un gran bastone; De arme adobato, come era mestiero, Salta sopra Batoldo, il suo ronzone. Troppo era smesurato quel destriero: La pelle nera avea come un carbone, E rossi gli occhi, che parean di foco; Sol nella fronte avea di bianco un poco. E Barigaccio, poi che fu montato, Di speronarlo mai non se rimane. Or Brandimarte, che rimase al prato Poi che spezzato ha quelle gente istrane, Guardando il re che stava al fonte armato, Cognobbe al scudo ch' egli era Agricane, Qual fo occiso da Orlando alla fontana: Gia\ vi contai l' istoria tutta piana. Egli avea ancor la sua corona in testa, D' oro e di pietre de molto valore, Ma Brandimarte nulla li molesta, Che/ ancor portava al corpo morto onore. De arme il spoglio\, ma non di sopravesta, E baciandoli il viso con amore: #_ Perdonami, $_ dicea #_ che/ altro non posso, Se ora queste arme ti toglio di dosso. Ne/ la temenza di dover morire Mi pone di spogliarti in questa brama, Ma nella mente non posso soffrire Veder poner a morte la mia dama; E ben son certo, se potessi odire, Se si\ fosti cortese, come hai fama, Odendo la cagion perche/ io ti prego, Non mi faresti a tal dimanda niego. $_ Parlava in questo modo il cavalliero A quel re morto con piatoso core, Il quale era ancor bello e tutto intiero, Si\ come occiso fosse di tre ore; E stando Brandimarte in quel pensiero, Senti\ davanti al bosco un gran romore, Qual facea Barigaccio per le fronde, Che rami e bronchi e ogni cosa confonde. Presto adobosse il cavalliero ardito Di piastra e maglia e de ogni guarnisone, Prese Tranchera, il bel brando forbito, E lo elmo che far fece Salamone. De tutte l' armi a ponto era guarnito, Quando sopra gli gionse quel ladrone, Il qual, mirando de intorno e da lato, E suoi compagni vidde in pezzi al prato. Fermosse alquanto, e poi che gli ha veduti, Disse: #_ In malora, gente da bigonci! Che/ non me incresce de avervi perduti, Poi che un sol cavallier cosi\ vi ha conci; Che/ io voria prima, se Macon me aiuti, Ne la mia compagnia cotanti stronci. Colui voglio impicar senza dimora, E voi con seco, cosi\ morti, ancora. $_ Cosi\ parlando, verso del gran pino, Ove era Brandimarte, se voltava. Come lo vidde a piede in sul cammino, Subito a terra anch' esso dismontava; Ne/ per virtu\ cio\ fece il malandrino, Ma perche/ forte il suo ronzone amava: Dubito\ forse che quel campi%one Non lo occidesse, essendo esso pedone. Senza altramente adunque disfidare, Adosso a Brandimarte fu invi%ato: Proprio un gigante alla sembianza pare, Tutto di coio e di scagliette armato. Col scudo de osso che suolea portare E il suo baston di ferro e il brando a lato Venne alla zuffa, e senza troppo dire Se cominciarno l' un l' altro a ferire. Sopra del scudo a Brandimarte colse Menando ad ambe mano il rio ladrone; E quanto ne tocco\ tanto via tolse, Come spezzasse un pezzo di popone. Il cavalliero ad esso si rivolse Col brando, e gionse a mezo del bastone, E come un gionco lo taglio\ di netto: Ora ebbe Barigaccio un gran dispetto. E salto\ adietro forse da sei braccia, E trasse il brando senza dimorare, E biastemando il cavallier minaccia Di farli quel baston caro costare. Ma Brandimarte adosso a lui se caccia; Or se comincia l' un l' altro a menare Ponte, tagli, mandritti e manroversi: Mai non fu visto colpi si\ diversi. Il cavallier se maraviglia assai Come abbia un malandrin tanta bontade, Perche/ in sua vita non vidde piu\ mai Tanta fierezza ad altri in veritade. Ambi avean l' arme, quale io vi contai; Gia\ tutte l' han falsate con le spade, Ne/ di ferire alcun di lor se arresta, Ma la battaglia cresce a piu\ tempesta. Cresce piu\ forte la battaglia fiera, Per colpi sterminati orrenda e scura, E Barigaccio il crudo se dispera, Che tanto il cavallier contra li dura. Or Brandimarte il tocca di Tranchera, E porto\ seco un squarcio de armatura; Lui fu gionto anco dal forte ladrone, Che l' arme gli taglio\ insino al giuppone. A tal percossa piastra non vi vale, Ne/ grossa maglia, ne/ sbergo acciarino, Ne/ cor de adante, il quale e\ uno animale, Di che armato era il forte saracino. Ora pareva a Brandimarte male Che si\ prodo uomo fusse malandrino; Onde, essendo uno assalto assai durato, Cosi\ parlando se trasse da lato: #_ Io non so chi tu sia, ne/ per qual modo T' abbia condutto a tal mestier fortuna, Ma per piu\ prodo campi%on te lodo Ch' io sappia al mondo, sotto della luna; E ben me avedo che fermato e\ il chiodo, Che prima che sia sera o notte bruna, O l' uno o l' altro fia nel campo morto; E spero che sera\ colui che ha il torto. Ma stu volessi lasciar quel mestiero, Qual nel presente fai, di robbatore, Vinto mi chiamo e son tuo cavalliero: In ogni parte vo' portarti onore. Or che farai? Hai tu forse pensiero Che manchi giamai robba al tuo valore? Lascia questo mestier: non dubitare, Che/ a tal come sei tu, non puo\ mancare. $_ Rispose il malandrin: #_ Questo che io faccio, Fallo anco al mondo ciascun gran signore; E' de' nemici fanno in guerra istraccio Per agrandire e far stato maggiore. Io solo a sette o dece dono impaccio, E loro a dieci millia con furore; Tanto ancora di me peggio essi fanno, Togliendo quel del che mestier non hanno. $_ Diceva Brandimarte: #_ Egli e\ peccato A tuor l' altrui, si\ come al mondo se usa; Ma pur quando se fa sol per il stato, Non e\ quel male, et e\ degno di scusa. $_ Rispose il ladro: #_ Meglio e\ perdonato Quel fallo onde se stesso l' omo accusa; Et io te dico e confessoti a pieno Che cio\ che io posso, toglio a chi puo\ meno. Ma a te, qual tanto sai ben predicare, Non voglio far di danno quanto io posso Se quella dama che la\ vedo stare Mi vo^i donare e l' arme che hai indosso. E ne la borsa te voglio cercare, Che/ io non me trovo di moneta un grosso; Poi te lasciaro\ andar legiero e netto. Ma voglio baratare anche il farsetto, Pero\ che questo e\ rotto e discucito; Tu te 'l farai conciar poi per bell' agio. $_ E Brandimarte, quando l' ebbe odito, Disse nel suo pensier: ## L' omo malvagio Non se puo\ stor al male onde e\ nutrito; Ne/ di settembre, ne/ il mese di magio, Ne/ a l' aria fredda, ne/ per la caldana Se puo\ dal fango mai distor la rana. $# E senza altra risposta disdegnoso Imbraccio\ il scudo et isfido\ il ladrone; E fu questo altro assalto furi%oso, Spezzando e scudi et ogni guarnisone, Et era l' uno e l' altro sanguinoso, Crescendo ogniora piu\ la questi%one; Ne/ piu\ vi e\ di concordia parlamento, Ma trarse a fine e\ tutto il lor talento. Or Brandimarte afferra il brando nudo, Che/ destinato e\ di donarli il spaccio, E disserra a due mano un colpo crudo Per il traverso adosso a Barigaccio, E taglio\ tutto con fraccasso il scudo, Quale era de osso, e sotto a quello il braccio. A quel gran colpo ogni arma venne manco, E sino a mezo lo taglio\ nel fianco. Lui cadde a terra biastemando forte, Et al demonio se racomandava, E benche/ Brandimarte lo conforte, Con piu\ nequizia ognior se disperava; Ma il cavallier non volse darli morte, E cosi\ strangosciato lo lasciava, Partendosi di qua senza dimora; Ma lui moritte appresso in poco d' ora. Il cavallier, lasciando il ladro fello, Con la sua dama si volea partire, Quando Batoldo, il suo destrier morello, Ch' era nel prato, comincio\ a nitrire; Veggendol Brandimarte tanto bello, Con la sua Fiordelisa prese a dire: #_ Il palafren seri\a troppo gravato Se te portasse e me, che sono armato, Si\ che io me pigliaro\ quel bon destriero, Come pigliato ho il brando e l' armatura, Perche/ serebbe pazzo e mal pensiero Lasciar quel che appresenta la ventura. Quei morti piu\ de cio\ non han mestiero, Che/ sono usciti fuor de ogni paura. $_ Cosi\ dicendo se accosta al ronzone, Prende la briglia e salta in su lo arcione. E via con Fiordelisa cavalcando Trovo\ due cose spaventose e nove, Tal che gli fie' mistiero avere il brando. Ma questo fatto contaremo altrove Che/ or mi convien tornare al conte Orlando, Quale avea fatto le diverse prove Contra de Antropofa\go e' Lestrigoni, Come contarno avanti e miei sermoni. Campata avendo Angelica la bella, Troppo era lieto di quella aventura. Via caminando assai con lei favella, Ma di toccarla mai non se assicura. Cotanto amava lui quella donzella, Che di farla turbare avea paura; Turpin, che mai non mente, de ragione In cotale atto il chiama un babi%one. Essendo in questo modo costumato, L' un giorno apresso a l' altro via camina. Gia\ il paese de' Persi avea passato, E la Mesopotamia che confina; Poi, lasciando li Armeni al destro lato, Soria vargo\ giongendo alla marina; E tutto questo ricco e bel paese Passo\ senza trovar guerre o contese. Essendo gionto, come io dico, al mare, Nel porto di Baruti ebbe trovato Un bel naviglio, che volea passare; Ma troppo estremamente era ingombrato, Pero\ che in Cipri convenea portare Un giovanetto re, che era assembrato A dimostrar ne l' arme il suo valore, Per una dama a cui portava amore. Era re di Damasco il giovanetto Quale io ve dico, e nome ha Norandino, Ardito e forte e di nobile aspetto, Quanto alcun altro fosse in quel confino. Regnava, in questo tempo che io vi ho detto, Ne la isola de Cipri un Saracino, Che avea una figlia di tanta beltate, Quanta alcuna altra di quella citate. Lucina fu nomata la donzella De cui io parlo, e il patre Tibi%ano. Sendo la dama a meraviglia bella, Era da molti adimandata in vano; E sol di sua beltate si favella Ivi de intorno per monte e per piano, Onde l' ama chi e\ longi e chi e\ vicino, Ma sopra a tutti la ama Norandino. Re Tibi%ano avea preso pensiero Di voler la sua figlia maritare, Et avea ordinato un bel torniero, Come in quel tempo se usava di fare, Ove ogni re, barone e cavalliero Potesse sua prodezza dimostrare, Et ha invitate e dame e le regine Tutte de intorno per quelle confine. Ciascun voluntaroso in Cipri andava, Come fu il bando per de intorno inteso. Chi de provarsi a l' arme procacciava, Chi per mirare avea quel camin preso; Ma piu\ de gli altri gran fretta menava Re Norandino, avendo il core acceso, Fornito ben de cio\ che fa mestieri, De paramenti e de arme e de destrieri. E seco ne menava in compagnia Da vinti cavallier, ciascuno eletto. Or quando il conte in su il ponto giongia, Il re si stava a nave per diletto; Onde rivolto a' suoi baron dicia: #_ Se costui non me inganna ne lo aspetto, Debbe esser cima e fior de ogni valente, Se la apparenza e lo animo non mente. $_ E poi lo fece al paron dimandare, Se volea seco andare al torniamento. Esso rispose senza dimorare Che egli era per servirlo a suo talento O ver per giostra, o sia per torni%are, O sia per guerra et ogni struggimento: Pur che lo possa a suo modo servire, In ogni cosa e\ presto ad obedire. Il re lo adimando\ che nome avia, De sua condizi%one e del paese. E lui rispose: #_ Io son de Circassia, Ove perdei per guerra ogni mio arnese, Eccetto l' arme e quella dama mia Di che fortuna me e\ stata cortese. Mio nome e\ Rotolante; e quel che io posso, E\ a tuo comando insin che ho sangue adosso. $_ Il giovanetto re molto ebbe grato Il cortese parlar che fece Orlando, Et in sua compagnia l' ebbe accettato, Poi di piu\ cose li ando\ dimandando, Sin che il vento da terra fu levato. Segnori e donne, a voi mi raccomando; Finito e\ un canto, e l' altro io vo' seguire, Cose piu\ belle e vaghe per odire. Quella stagion che in cel piu\ raserena, E veste di verdura gli arborscelli, Et ha l' aria e la terra d' amor piena E de bei fiori e de canti de occelli, Gli amorosi versi anco mi mena, E vo^l che a voi de intorno io rinovelli L' alta prodezza e lo inclito valore Qual mostro\ un tempo Orlando per amore. Di lui lasciai si\ come Norandino Lo prese per compagno al torniamento; Ben vi ando\ volentieri il paladino, Che/ di passare avea molto talento. Ora s' aconcio\ il tempo al lor camino Intra Levante e Greco, optimo vento, Qual via gli porto\ in Cipri alla spiegata, Ove gran gente in prima era assembrata. Pero\ che e Greci insieme con Pagani Alla gran festa se erano adunati, E degli circonstanti e de' lontani; Baroni e cavallieri erano armati, Ma pur fra tutti quanti e piu\ soprani E de maggiore estima e piu\ onorati Eran Basaldo e Costanzo e Morbeco: Li duo fo^r turchi e quel di mezo greco. Costanzo fu filiol di Vatarone, Che alor de' Greci lo imperio {add} tenia, {/add; teni\a, Z} E quei duo turchi avean due regi%one, Di che erano amiragli, in Natolia. Ora Costanzo avea seco Grifone Et Aquilante pien di vigoria; Ben me stimo io che abbiati gia\ sentito Come Aquilante fu seco nutrito, Quando la Fata Nera il damigello Mando\ primeramente in quella corte, Poi che 'l levo\ di branche al fiero occello, Che/ condotto l' avrebbe in trista sorte. Di questa cosa piu\ non vi favello, Che/ so che avete queste istorie scorte; Grifone in Spagna et in Grecia Aquilante Furno nutriti, e piu\ non dico avante. Se non che, essendo poscia spregionati, Come io contai, da le Isole Lontane, Et avendo piu\ giorni caminati Per diversi paesi e gente istrane, Nel porto di Blancherna erano intrati, Ove con festa e con carezze umane Fo^r recevuti da lo imperatore E da Costanzo, e fatto molto onore. E volendo esso andare a quel torniero, Ebbe la lor venuta molto grata, Cognoscendo ciascun bon cavalliero Per farli un grande onore a quella fiata; Avengache/ Grifone e\ in gran pensiero, Perche/ Origilla, sua dama, infirmata Era di febre tanto acuta e forte, Che quasi e\ stata al ponte de la morte. Ma pure, essendo migliorata alquanto, Parti\ da lei, benche/ gli fusse grave, Ne/ se {add} puote/ {/add; puote\ Z} spiccar gia\ senza pianto, Et intro\ con Costanzo alla sua nave. Indi passarno ove il fiume di Xanto Ha foce in mare, e con vento soave Gionsero in Cipri, come io vi ho contato, Ciascun bene a destriero e ben armato. Molti altri ancora che io non vi racconto, Baroni e cavallieri e damigelle, Eran venuti, e tutti bene in ponto De arme e destrieri e de robbe novelle. Quando fu Norandino in Cipri gionto, Le cose de ciascun parvon men belle, Perche/ e\ si\ ben guarnito e adorno tanto, Che sopra gli altri ogni om gli dava vanto. Nel porto a Famagosta poser scale, E via ne anda^r di lungo a Nicosia, Quale e\ fra terra la cita\ reale, E Tibi%ano il seggio vi {add} tenia. {/add; teni\a. Z} Quivi con festa e pompa tri%omfale, Con duci e conti e molta baronia Intro\ il re di Damasco tutto armato, Con trombe avanti e bene accompagnato. Un monte acceso portava nel scuto E similmente nel cimero in testa; E ciascun che con esso era venuto Avea pur tale insegna e sopravesta. Cosi\ fu degnamente recevuto Con molto onor da tutti e con gran festa; Ma sopra gli altri lo onoro\ Lucina, Che/ piu\ che se/ lo amava la tapina. E gia\, passando il tempo, e\ gionto il giorno Che 'l tornier dovea farsi in su la nona, Et ogni cavaliero andava intorno Facendo mostra della sua persona, L' un piu\ che l' altro a meraviglia adorno. De trombe e de tamburi il cel risuona; Per ben vedere avante ogniom si caccia: Preso e\ ogni loco intorno della piaccia. Ma da l' un capo uno alto tribunale Per le dame e regine era ordinato, Ove Lucina in abito reale E l' altre vi sedean da ciascun lato. Mostravan poco il viso naturale, Le piu\ l' avean depinto e colorato: Turpino il dice, io nol so per espresso, Benche/ sian molte che cio\ fanno adesso. Angelica la\ sopra era tra loro, Qual se mostrava un sole infra le stelle; Con una vesta bianca, adorna d' oro, Senza alcun dubbio e\ il fior de l' altre belle. Re Tibi%ano e il suo gran concistoro Da l' altro lato incontra alle donzelle Se stava al tribunal, che era adornato Di seta e drappi d' oro in ogni lato. Or cominciano a entrare e cavallieri: Ben vi so dir che ciascuno e\ forbito, Con ricche sopraveste e con cimieri; Ogniom se mostra nel sembiante ardito, Di qua de la\ spronando e gran destrieri, Perche/ il torniero in due schiere e\ partito: Costanzo de una parte e\ capitano, De l' altra Norandino il Sori%ano. Gnacare e corni e tamburini e trombe Suonorno a un tratto intorno della piaccia; Trema la terra e par che il cel rimbombe, E che lo abisso e il mondo se disfaccia. Tutte, le dame, a guisa de colombe, Per l' alto crido se smarirno in faccia; Ma i cavallier con furia e con tempesta A tutta briglia urta^r testa per testa. Ne/ si vedean l' un l' altro e campi%oni, Benche/ ciascuno avesse a l' urto accolto; Ma il fremir delle nare de' ronzoni Avea si\ grande il fumo a l' aria involto, E si\ la polve alciata in que' sabbioni, Che avea il vedere a tutti avanti tolto, Ne/ se guardava l' ordine o la schiera, Ciascun menando a chi piu\ presso gli era. Ma poi che il fatto fu aturato un poco E comincio\ l' un l' altro a discernire, Apparve in quella piazza il crudo gioco, E colpi dispietati, il gran ferire; Avanti, a mezo, a dietro, in ogni loco, Si vedea gente de gli arcioni uscire; Per tutto e\ gran travaglia e grave affanno, Ma chi e\ di sotto e\ quel che porta il danno. Orlando per vedere il fatto aperto Non volse ne la folta troppo intrare; Ma quel Morbeco turco, che era esperto In tal mestiero e ben lo sapea fare, Se trasse avante in su un destrier coperto, E sopra gli altri si facea mirare; Qualunche giongie o de urto, o de la spada, Sempre e\ mestier che al tutto a terra vada. E gia\ da sei de quei di Norandino Avea posti roverso in su il sabbione, Ne/ ancor s' arresta, ma per quel confino Piu\ furia mena e piu\ destruzi%one; Onde turbato quel re saracino A tutta briglia sprona il suo ronzone, E sopra di Morbeco andar si lassa, E di quello urto a terra lo fraccassa. Dapoi Basaldo, che piu\ presso gli era, Percosse ad ambe mano in su la testa; Ne/ lo diffese piastra ni lamiera, Che/ a terra lo mando\ con gran tempesta. Tutta a roina pone quella schiera, A lui davante alcun piu\ non s' arresta. Oh quanto e\ lieta Lucina la dama Vedendo far si\ bene a chi tanto ama! Costanzo il greco, che vede sua gente Si\ mal condutta da quel Sori%ano, Turbato for di modo nella mente, Gli sprona adosso con la spada in mano. L' uno e l' altro di loro era valente, Onde alcun tratto non andava in vano; Al fin meno\ Costanzo un colpo fiero E ruppe il monte e il foco del cimiero. Sino alla croppa lo fece piegare Al colpo smisurato che io vi conto, Ni stette gia\ per questo a indugi%are, Ma mena l' altro e in fronte l' ebbe gionto; Et era Norandin per trabuccare, Se non che Orlando allor se mosse a ponto, E tanto fece, che il trasse de impaccio Sin che il rivenne, e lo sostenne in braccio. Onde Costanzo per questo adirato Adosso al conte gran colpi menava; Ma lui, come in arcion fosse murato, Di cotal cosa poco se curava. Ma sendo Norandino in se/ tornato, Che a sostenirlo piu\ non lo impacciava, Verso Costanzo se rivolse il conte, E lui percosse in mezo della fronte. Qualunche ha un cotal colpo, non vo^l piu\, Che/ bene e\ paccio chi il secondo aspetta. Ora Costanzo al primo ando\ pur giu\, Di lui rimase la sua sella netta. Diceva ad esso il conte: #_ Or va la\ tu, Che menavi a ferirme tanta fretta, Quando io stavo occupato ad altra posta; Or vien adesso e con meco te accosta. $_ Lui gia\ non se accosto\, ma cadde a terra, Come io vi dico, col capo davante; Ma 'l conte adosso a un altro se disserra, Si\ che lo fece al cel voltar le piante. Grifone in altra parte facea guerra Da l' un de' lati, e da l' altro Aquilante; Ne/ se avedean de tal destruzi%one, Ne/ de Costanzo che ha tratto de arzone. Ma il crido della gente che era intorno Voltar fece Grifone in primamente, E combattendo la\ fece ritorno, Benche/ sapesse del fatto ni%ente; E quando lui fu gionto, ebbe gran scorno, Poi che abattuto e\ il capo di sua gente, Onde adirato il suo destrier sperona; A Norandino adosso se abandona. Da l' altra parte ancor gionse Aquilante, E quando il suo Costanzo vidde a terra, Turbato fieramente nel sembiante Con ambi e sproni il suo destriero afferra, E riscontrosse col conte de Anglante; E qui se comincio\ la orrenda guerra, Benche/ lui non cognosce il paladino, Perche/ la insegna avea di Norandino. Ne/ lui fu cognosciuto anco da Orlando, Che/ di Costanzo la insegna portava. Ora, segnori, a voi non ve domando Se ciascun de essi ben se adoperava, Cotal ruina e tal colpi menando Che l' aria per de intorno sibillava, Come la cosa andasse a tutto oltraggio, Ne/ se vi scorge ponto di vantaggio. Vero e\, perche/ Aquilante era turbato, Mostro\ maggior prodezza allo affrontare; Ma poi che l' uno e l' altro e\ riscaldato, Ben vi so dir che assai vi fu che fare, Di qua di la\ menando ad ogni lato, Che par che il mondo debba rui%nare, Con dritti e con roversi aspri e robesti; E pur gli ultimi colpi alfin fur questi. Gionse Aquilante a Orlando nella fronte, Sopra la croppa lo mando\ roverso; Ma ben rispose a quella posta il conte, E lui feri\ de un colpo si\ diverso, Che sua baldanza e quelle forze pronte E l' animo e l' ardir tutto ebbe perso; Di qua di la\ piegando ad ogni mano, Le gambe aperse per cadere al piano. E certamente ben seri\a caduto, Che/ piu\ non se reggea che un fanciullino, Se non che Grifon gionse a darli aiuto, Il quale avea lasciato Norandino. Lasciato l' avea quasi per perduto, Che/ ormai non potea piu\ quel saracino; Ma per donare aiuto al suo germano Lascio\ Grifone andar quel sori%ano. E de giongere al conte se procura Spronando a tutta briglia il suo ronzone. Or qui si fece la battaglia dura Piu\ ch' altra mai de Orlando e de Grifone, Qual duro\ sempre insino a notte oscura, Ne/ se potea partir la questi%one, Sin che gli araldi con trombe d' intorno Bandirno il campo insino a l' altro giorno. Ciascun torno\ la sera a sua masone, E de' fatti del giorno si favella. Ora a Costanzo parlava Grifone Dicendo: #_ Io so contarti una novella, Che la\ su tra le dame, a quel verone, Veder mi parve Angelica la bella; E se ella e\ quella, io te dico di certo Che Orlando e\ quel che quasi te ha deserto. Et anco io l' ho compreso a quel ferire, Che cresce nella fine a maggior lena, E pero\ ti consiglio a dipartire, Prima che ne abbi piu\ tormento e pena; Omo non e\ che possa sostenire A la battaglia e colpi che lui mena; Onde lasciar la impresa ce bisogna, Non ne volendo il danno e la vergogna. $_ Diceva a lui Costanzo: #_ Or datti il core, S' io faccio che colui ne vada via, Poi de acquistare a nostra parte onore E in campo mantenir l' insegna mia? $_ Grifon rispose a lui, che per suo amore Quel che potesse far, tutto faria; E che egli aveva fermamente ardire Contra ad ogni altro il campo mantenire. Il Greco, che era di malizia pieno (Come son tutti de arte e di natura), Quando la luce al giorno venne meno, Usci\ de casa per la notte scura, E via soletto sopra a un palafreno Ove era Orlando di trovar procura, E trovato che l' ebbe, queto queto Lo trasse in parte e a lui parlo\ secreto; E dimostro\gli che il re Tibi%ano Secretamente facea gente armare, Perche/ era gionto un messaggio di Gano, Il qual cercava Orlando far pigliare; Pero\, se egli era desso, a mano a mano Vedesse quel paese disgombrare; E percio\ a ritrovarlo era venuto, Per palesarli questo e dargli aiuto; E ch' egli aveva una sua fusta armata Nascosta ad una spiaggia indi vicina, Qual via lo portarebbe alla spiegata In Franza a qualche terra di marina. Fu questa cosa si\ ben colorata Dal Greco, che sapea cotal dottrina, Che il conte a ponto ogni cosa li crede, Ringraziandolo assai con pura fede. E, fatta presto Angelica svegliare, Con essa alla marina se ne {add} gia, {/add; gi\a, Z} Ove Costanzo il volse accompagnare, E la\ il condusse ove la fusta avia. Facendosi il parone a dimandare, Gli impose che il baron portasse via Ove piu\ gli piacesse al suo talento; E lor ne andarno avendo in poppa il vento. Quel che si fusse poi di Norandino Ne/ di Costanzo, non saprebbi io dire, Perche/ di lor non parla piu\ Turpino; Ma ben del conte vi sapro\ seguire, Il qual sopra alla fusta al suo camino, Fu per fortuna a risco di morire, E stette sette giorni a l' aria bruna, Che mai non vidde il sole, e men la luna. E questo sopporto\ con pazi%enza, Poscia che altra diffesa non puo\ fare; Ma poi che ebbe di terra cognoscenza, Et avendo in fastidio tutto il mare, Posar se fece al lito de Provenza, Che/ de esser fuora mille anni gli pare, Per trovarsi a Parigi a mano a mano, E dar di sua amistate al conte Gano. Che/ ben l' avria trattato, vi prometto, Come dovea trattarlo il can fellone, Ma non piacque al demonio maledetto, Che lo avea tolto in sua protezi%one; Al manco male il facea stare in letto Cinque o sei mesi rotto dal bastone; Ma Lucifer che lo ha preso a guardare, Al conte Orlando dette altro che fare. Pero\ che cavalcando il paladino, Come fortuna o sua ventura il mena, Arivo\ un giorno al Fonte di Merlino, Che e\ posto in mezo del bosco di Ardena. Del Fonte vi ho gia\ detto il suo destino, Si\ che a ridirlo non torro\ piu\ pena, Se non che quel Merlin, qual fu lo autore, Lo fece al tutto per cacciar l' amore. Essendo gionti qua quella giornata, Come io vi dico, Orlando e la donzella, Essa, che piu\ del conte era affannata, Smonto\ il suo palafren giu\ della sella; E poi, bevendo quell' acqua fatata, Sua mente in altra voglia rinovella, E, dove prima ardea tutta de amore, Ora ad amar non puo\ dricciare il core. Or se amenta lo orgoglio e la durezza, Qual gli ha Ranaldo si\ gran tempo usata, Ne/ gli par tanta piu\ quella bellezza Che soprana da lei fu gia\ stimata; Et ove il suo valore e gentilezza Lodar suoleva essendo inamorata, Ora al presente il sir de Montealbano Fellone estima sopra a ogni villano. Ma, parendo gia\ tempo de partire, Pero\ che era passato alquanto il caldo, Volendo aponto della selva uscire, Viddero un cavalliero ardito e baldo. Or tutto il fatto me vi convien dire: Quel cavalliero armato era Ranaldo, Qual, come io dissi, dietro a Rodamonte Era venuto presso a questa fonte. Ma non vi gionse, perche/ il fiume in prima Che raccende lo amore, avea trovato. Ora io non vi saprei contare in rima Come se tenne alora aventurato, Quando vidde la dama, perche/ estima Si\ come egli ama lei, de essere amato. Visto ha per prova et inteso per fama Cio\ che per esso ha gia\ fatto la dama. Non cognosceva il conte, che era armato Con quella insegna dal monte di foco; Che/ si\ palese non se avria mostrato, Serbando il suo parlare in altro loco. Perche/, essendo ad Angelica accostato, Cortesemente e sorridendo un poco Disse: #_ Madama, io non posso soffrire Che io non vi parli, s' io non vo' morire, Abench' io sappia a qual modo e partito Mi sia portato e con tal villania, Ch' io non meritarei de essere odito. Ma so che seti si\ benigna e pia, Che, a benche/ estremamente aggia fallito, Perdonarete a quel che per foli\a Contro de lo amor vostro adoperai, Del che contento non credo esser mai. Or non se puo\ distor quel che e\ gia\ fatto, Come sapeti, dolce anima bella, Ma pur a voi mi rendo ad ogni patto; E ben cognosce l' alma meschinella Che io non serebbi degno in alcun atto Di essere amato da cotal donzella, Ma de esser dal mio lato vostro amante Sol vi dimando, e piu\ non cheggio avante. $_ Orlando stava attento alle parole, Le quale odi\ con poca pazi%enza, Ne/ piu\ soffrendo disse: #_ Assai mi dole Che a questo modo ne la mia presenza Abbi mostrato il tuo pensier si\ fole, Che/ ad altri non avria dato credenza, Pero\ che volentier stimar voria Che cio\ non fosse vero, in fede mia! Io voria amarti e poterti onorare, Si\ come di ragione ora non posso; Tu per sturbarme gia\ passasti il mare, E per altra cagion non fusti mosso, Benche/ a me zanze volesti mostrare, Stimandomi in amor semplice e grosso. Or che animo me porti io vedo aperto, Ma sallo Iddio che gia\ teco nol merto. $_ Quando Ranaldo vidde che costui, Qual seco ragionava, e\ il conte Orlando, De uno et altro pensier stette entra dui, O de partirse o de seguir parlando. Ma pur rispose al fine: #_ Io mai non fui Se non quel che ora sono, al tuo comando; Ne/ credo de aver teco minor pace Se cio\ che piace a te non mi dispiace. Non creder che piu\ vaga a gli occhi tuoi Paia che a gli altri questa bella dama; Et estimar ne la tua mente puoi Che ogni om, si\ come tu, de amarla brama. Quanto sei paccio adunque, se tu vuoi Aver battaglia con ciascun che l' ama, Perche/ con tutto 'l mondo farai guerra; Chi non la amasse, ben seri\a di terra. Ma se tu mostri che sia tua per carta, O per ragion che non gli abbia altri a fare, Comandar mi potrai poi che io mi parta E che io non debba seco ragionare; Ma prima soffrirei de avere isparta L' anima al foco e il corpo per il mare, Che io mi restassi mai de amar costei, E se restar volessi io non potrei. $_ Rispose alora il conte: #_ E' non e\ mia. Cosi\ fosse ella, come io son de lei! Ma non voglio adamarla in compagnia E in cio\ disfido il mondo, e boni e rei. Stata e\ la tua ben gran discortesia Che, avendoti scoperti e pensier mei, Fidandomi di te come parente, Poi me hai tradito si\ villanamente. $_ Disse Ranaldo: #_ Questo e\ pur assai, Che sempre vogli altrui villaneggiare; Da me non fu tradito alcun giamai, E ciascun mente che il vo^le affirmare. Si\ che comincia pur, se voglia ne hai, E pigliati a quel capo che ti pare: Se ben se' tra baron tenuto il primo, Piu\ d' uno altro uomo non ti temo o stimo. $_ Orlando per costume e per natura Molte parole non sapeva usare, Onde, turbato ne la ciera oscura, Trasse la spada senza dimorare, E sospirando disse: #_ La sciagura Pur ce ha saputi in tal loco menare, Che l' un per man de l' altro sera\ morto; Vedalo Iddio e iudichi chi ha il torto! $_ Come Ranaldo vidde il conte Orlando Mostrarsi alla battaglia discoperta, Poi che avea tratto Durindana il brando, Lui prestamente ancor trasse Fusberta. Ne l' altro canto vi verro\ contando Questa battaglia orribile e diserta, Et altre cose degne e belle assai; Dio vi conservi in gioia sempre mai. O soprana Virtu\, che e' sotto al sole, Movendo il terzo celo a gire intorno, Dammi il canto soave e le parole Dolci e ligiadre e un proferire adorno, Si\ che la gente che ascoltar mi vo^le, Prenda diletto odendo di quel giorno Nel qual duo cavallier con tanto ardore Fierno battaglia insieme per amore. Tra gli arbori fronzuti alla fontana Insieme gli afrontai nel dir davanti; L' uno ha Fusberta, e l' altro Durindana: Chi sian costor, sapeti tutti quanti. Per tutto il mondo ne la gente umana Al par di lor non trovo che se vanti De ardire e di possanza e di valore, Che/ veramente son de gli altri il fiore. Lor comenciarno la battaglia scura Con tal destruzi%one e tanto foco, Che ardisco a dir che l' aria avea paura, E tremava la terra di quel loco. Ogni piastra ferrata, ogni armatura Va con roina al campo a poco a poco, E nel ferir l' un l' altro con tempesta Par che profondi il celo e la foresta. Ranaldo lascio\ un colpo in abandono E gionse a mezo il scudo con Fusberta: Parve che a quello avesse accolto un trono, Con tal fraccasso lo spezza e diserta. Tutti gli uccelli a quello orribil suono Cadderno a terra, e cio\ Turpino acerta; E le fiere del bosco, come io sento, Fuggian cridando e piene di spavento. Orlando tocca lui con Durindana Spezzando usbergo e piastre tutte quante, E la selva vicina e la lontana Per quel furor crollo\ tutte le piante; E tremo\ il marmo intorno alla fontana E l' acqua, che si\ chiara era davante, Se fece a quel ferir torbida e scura, Ne/ a si\ gran colpi alcun di loro ha cura; Anci piu\ grandi gli ha sempre a menare. Cotal ruina mai non fu sentita; Onde la dama, che stava a mirare, Pallida in faccia venne e sbigotita, Ne/ gli soffrendo lo animo di stare In tanta tema, se ne era fuggita; Ne/ de cio\ sono accorti e cavallieri, Si\ son turbati alla battaglia e fieri. Ma la donzella, che indi era partita, Toccava a piu\ potere il palafreno, E de alongarsi presto ben se aita, Come avesse la caccia, piu\ ne/ meno. Essendo alquanto de la selva uscita, Vidde la\ presso un prato, che era pieno De una gran gente a piede e con ronzoni, Che ponean tende al campo e paviglioni. La dama di sapere entro\ in pensiero Perche/ qua stesse e chi sia quella gente, E trovando in discosto un cavalliero, Del tutto il dimando\ cortesemente. Esso rispose: #_ Il mio nome e\ Oliviero, E sono agionto pur mo di presente Con Carlo imperatore e re di Franza, Che ivi adunata ha tutta sua possanza. Pero\ che un saracin passato ha il mare E rotto in campo il duca di Bavera; Ora e\ sparuto, e non si puo\ trovare, Ne/ comparisce uno omo di sua schiera; Ma quel che ancor ci fa maravigliare, Che il sir di Montealban, qual gionse ersera, Venendo de Ongheria con gente nuova, Morto ne/ vivo in terra se ritrova. Tutta la corte ne e\ disconsolata, Perche/ ci manca il conte Orlando ancora, Qual la tenea gradita e nominata Con sua virtu\ che tutto il mondo onora; E giuro a Dio, se solo una fiata Vedessi Orlando, e poi senza dimora Io fossi morto, e' non me incresceria, Che/ io l' amo assai piu\ che la vita mia. $_ Quando la dama a tal parlare intese De il cavallier la voglia e il gran talento, A lui rispose: #_ Tanto sei cortese, Che il mio tacer serebbe un mancamento; Onde io destino de aprirte palese Quel che tu brami, e di farti contento: Ranaldo e Orlando insieme con gran pena Sono in battaglia alla selva de Ardena. $_ Quando Oliviero intese quel parlare Ne la sua vita mai fu cosi\ lieto, E presto il corse in campo a divulgare. Or vi so dir che alcun non stava queto. Re Carlo in fretta prese a cavalcare; Chi gli passa davante e chi vien drieto. Ma lui tien seco la dama soprana, Che lo conduca a ponto alla fontana. E cosi\ andando intese la cagione Che avea condutti entrambi a tal furore. Molto se meraviglia il re Carlone, Che il conte Orlando sia preso de amore, Perche/ il teneva in altra opini%one; Ma ben Ranaldo stima anco peggiore Che non dice la dama, in ciascuno atto, Perche/ piu\ volte l' ha provato in fatto. Cosi\ parlando intrarno alla foresta, Dico de Ardena, che e\ d' arbori ombrosa; Chi cerca quella parte e chi per questa De la fontana che e\ al bosco nascosa. Ma cosi\ andando odirno la tempesta De la crudel battaglia e furi%osa; Suonano intorno i colpi e l' arme isparte, Come profondi il celo in quella parte. Ciascun verso il romore a correr prese, Chi qua chi la\, non gia\ per un camino; Primo che ogni altro vi gionse il Danese, Dopo lui Salamone, e poi Turpino; Ma non pero\ spartirno le contese, Che/ non ardisce il grande o il piccolino De entrar tra i duo baroni alla sicura: Di que' gran colpi ha ciascadun paura. Ma come gionse Carlo imperatore, Ciascun se trasse adietro di presente; E benche/ egli abbian si\ focoso il core, Che de altrui poco curano o ni%ente, Pur portavano a lui cotanto onore, Che se trassero adietro incontinente. Il bon re Carlo con benigna faccia, Quasi piangendo, or questo or quello abraccia. Intorno a loro in cerchio e\ ogni barone, E tutti gli confortano a far pace, Trovando a cio\ diverse e piu\ ragione, Secondo che a ciascuno a parlar piace. E similmente ancora il re Carlone Or con losinghe or con parole audace Tal volta prega e tal volta comanda, Che quella pace sia fatta di banda. La pace seri\a fatta incontinente, Ma ciascadun vo^l la dama per se/, E senza questo vi giova ni%ente Pregar de amici e comandar del re. Or de qua si partia nascosamente La damisella, e non so dir perche/, Se forse l' odio che a Ranaldo porta A star presente a lui la disconforta. Il conte Orlando la prese a seguire, Come la vidde quindi dipartita; Ne/ il pro' Ranaldo si stette a dormire, Ma tenne dietro ad essa alla polita. Gli altri, temendo quel che puo\ avenire, Con Carlo insieme ogniom l' ebbe seguita Per trovarsi mezani alla baruffa, Se ancor la questi%on tra lor se azuffa. E poco apresso li ebber ritrovati Con brandi nudi a fronte in una valle, A benche/ ancor non fussero attaccati, Che/ troppo presto gli fo^rno alle spalle; Et altri che piu\ avanti erano andati, Trova^r la dama, che per stretto calle Fuggia per aguatarsi in un vallone, E lei menarno avanti al re Carlone. Il re da poscia la fece guardare Al duca Namo con molto rispetto, Deliberando pur de raconciare Ranaldo e Orlando insieme in bono assetto, Promettendo a ciascun di terminare La cosa con tal fine e tal effetto, Che ogniom iudicherebbe per certanza Lui esser iusto e dritto a la bilanza. Poi, ritornati in campo quella sera, Fece gran festa tutto il baronaggio, Pero\ che prima Orlando perduto era, Ne/ avean di lui novella ne/ messaggio. Or la matina la real bandera Verso Parigi prese il bon vi%aggio. Io piu\ con questi non voglio ire avante, Perche/ oltra al mare io passo ad Agramante. Il qual lasciai nel monte di Carena Con tanti re meschiati a quel torniero, E forte sospirando se dimena, Perche/ abattuto al campo l' ha Rugiero; Et esso ancora stava in maggior pena, Che/ era ferito il giovanetto fiero: La cosa gia\ narrai tutta per ponto, Si\ che ora taccio e piu\ non la riconto. E sol ritorno che, essendo ferito, Come io vi dissi, il giovenetto a torto Da Bardulasto, qual l' avea tradito, Benche/ da lui fu poi nel bosco morto, Nascosamente si fu dipartito, Ne/ alcun vi fu di quel torniero accorto, E gionse al sasso, sopra alla gran tana, Ove e\ Atalante e 'l re de Tingitana. Quando Atalante vidde il damigello Si\ crudelmente al fianco innaverato, Parve esso al cor passato di coltello, Cridando: #_ Ahime\! che nulla me e\ giovato Lo antivedere il tuo caso si\ fello, Benche/ si\ presto non l' avea stimato. $_ Ma il pro' Rugier facendo lieto viso Quasi il rivolse da quel pianto in riso. #_ Non pianger, non, $_ dicea #_ ne/ dubitare, Che, essendo medicato con ragione, Si\ come io so che tu saprai ben fare, Non avro\ morte, e poca passi%one; E peggio assai mi parve alor di stare Quando occise nel monte quel leone, E quando prese ancora l' elefante Che tutto il petto mi squarcio\ davante. $_ Il vecchio poi, veggendo la ferita, Che non era mortal, per quel che io sento, Poi che la pelle insieme ebbe cusita, La medica con erbe e con unguento. Ora Brunello avea la cosa udita, Si\ come era passato il torniamento, E prestamente immagino\ nel core De aver di quello il tri%omfale onore. Subitamente prese la armatura Che avea portata il giovane Rugiero. Benche/ sia sanguinosa, non se cura, Salta sopra Frontino, il bon destriero, E via correndo giu\ per la pianura Gionse che ancor ogniom era al torniero; Ma, come gli altri il viddero arivare, Fugge ciascuno e nol vo^le aspettare. Et Agramante, il quale era turbato Per la caduta, come io vi contai, Avendo il brando suo riposto a lato, Dicea: #_ Per questo giorno e\ fatto assai, Se pur Rugier se fosse ritrovato; Ma ben credo io che non si trovi mai. $_ E fatto ritrovare il re Brunello, A se/ lo dimando\ con tale appello: #_ Io credo per mostrar tua vigoria Che oggi dicesti colui ritrovare, Il qual non credo ormai che al mondo sia, Se non e\ sopra al celo o sotto al mare; E ben te giuro per la fede mia, Che io te ho veduto in tal modo provare Che, avendo gli altri tutti il mio pensiero, Non se andrebbe cercando altro Rugiero. $_ Rispose a lui Brunello: #_ Al vostro onore Sia fatto quel ch' io feci o bene o male; E tutta mia prodezza o mio valore Tanto me e\ grata, quanto per voi vale; Ma piu\ voglio alegrarvi, alto segnore, Perche/ trovato e\ il giovane reale, Dico Rugiero. E\ disceso dal sasso; Prima lo avriti che sia il sole al basso. $_ Quando Agramante intese cosi\ dire, Nella sua vita mai fu piu\ contento; Con gli altri verso il sasso prese a gire, Ne/ se ricorda piu\ de torniamento; A benche/ molti non potean soffrire, Mirando il piccolin che pare un stento, Aver contra di lui quel campo perso, Onde ciascun lo guarda de traverso. Or, cosi\ andando, gionsero al boschetto, Ove era Bardulasto de Alganzera, Partito da la fronte insino al petto. Sopra al suo corpo se fermo\ la schiera, Pero\ che il re, turbato ne lo aspetto, A' circonstanti dimando\ chi egli era; E benche/ avesse il viso fesso e guasto, Pur cognosciuto fu per Bardulasto. Non se mostro\ gia\ il re di questo lieto, Anzi turbato cominciava a dire: #_ Chi fu colui che contra al mio deveto Villanamente ardito ha di ferire? $_ A tal parlar ciascun si stava queto, Ne/ alcuno ardiva ponto de cetire; Veggendo il re che in tal modo minaccia, Tutti guardavan l' uno l' altro in faccia. E come far se suole in cotal caso, Mirando ognuno or quella cosa or questa, Fu visto il sangue il quale era rimaso Ne l' arme de Brunello e sopravesta. Per questo fu cridato: #_ Ecco il malvaso Che occise Bardulasto alla foresta! $_ Ne/ avendo cio\ Brunello apena inteso, Da quei de intorno subito fu preso. Esso cianzava, e ben gli fa mestiero, E sol la lingua gli puo\ dare aiuto, Dicendo a ponto si\ come Rugiero Con quelle arme nel campo era venuto; Ma si\ rado era usato a dire il vero, Che nel presente non gli era creduto. Ciascun cridando intorno a quella banda, Sopra alle forche al re l' aricomanda. Onde esso, che se trova in mal pensero, Del re e de gli altri se doleva forte, Narrando come era ito messaggero Per quello annello a risco de la morte. Gli altri ridendo il chiamano grossero, Poi che servigi ramentava in corte; Pero\ che ogni servire in cortesano La sera e\ grato e la matina e\ vano. Proprio e\ bene un om dal tempo antico Chi racordando va quel ch' e\ passato; Che/ sempre la risposta e\: #" Bello amico, Stu m' hai servito, et io te ho ben trattato $"; E per questo Brunel, come io vi dico, Era da tutti intorno caleffato, E ciascadun di lui dice piu\ male, Come intraviene a l' om che troppo sale. Ora fu comandato al re Grifaldo Ch' incontinente lo faccia impiccare; Onde esso, che a tal cosa era ben caldo, Diceva: #_ S' altri non potro\ trovare, Con le mie mani lo faro\ di saldo. $_ E prestamente lo fece menare Di la\ dal bosco, a quel sasso davante Ove Rugier si stava et Atalante. Il giovanetto, che il vide venire, Ben prestamente l' ebbe cognosciuto; Lui non era di quelli, a non mentire, Che scordasse il servigio recevuto, Dicendo: #_ Ancor ch' io dovessi morire, In ogni modo io gli vo' dare aiuto. Costui mi presto\ l' arme e il bon ronzone: Non lo aiutando, ben seri\a fellone. $_ Et Atalante ben cridava assai Per distorlo da cio\ che avea pensato, Dicendo: #_ Ahime\, filiol, dove ne vai? Or non cognosci che sei disarmato? Se ben giongi tra loro, e che farai? Lor pur lo impicaranno a tuo mal grato. Tu non hai lancia ne/ brando ne/ scudo: Credi tu aver vittoria, essendo ignudo? $_ Il giovanetto a cio\ non attendia, Ma via correndo fu gionto nel piano, E, perche/ alcun sospetto non avia, Tolse una lancia a un cavallier di mano. Avea Grifaldo molti in compagnia, Ma non gli stima il giovane soprano, L' uno occidendo e l' altro trabuccando; E da quei morti tolse un scudo e un brando. Come ebbe il brando in mano, ora pensati Se egli mena da ballo il giovanetto; Non fo^rno altri giamai si\ dissipati: Chi fesso ha il capo, e chi le spalle e il petto. Grifaldo e' duo compagni eran campati, Ma treman come foglia, vi prometto, Veggendo far tal colpi al damigello, Il qual ben presto desligo\ Brunello. Ora Grifaldo ritorno\ piangendo Al re Agramante e non sapea che dire, Ma per vergogna, si\ come io comprendo, Non se curava ponto de morire. Maravigliosse il re questo intendendo Et in persona volse al campo gire, Che/ a lui par cosa troppo istrana e nova Avendo fatto un giovane tal prova. Ma quando vidde e colpi smisurati, Per meraviglia se sbigoti\ quasi, Perche/ tutti in duo pezzi eran tagliati Quei cavallier che al campo eran rimasi; Poi sorridendo disse: #_ Ora restati Ne la malora qua, giotton malvasi, Che/, se Macon me aiuti, io do ni%ente De aver perduta cosi\ fatta gente. $_ Come Brunello ha visto il re Agramante, In ogni modo via volea scampare; Ma Rugier l' avea preso in quello istante, Dicendo: #_ Converrai mia voglia fare, Ch' io vo' condurti a quel segnore avante. E ad esso e agli altri aperto dimostrare, Che fan contra a ragione e loro avisi, Perche/ io fui quel che Bardulasto occisi. $_ E, questo ditto, se ne venne al re Pur con Brunello, e fo^sse ingenocchiato #_ Segnor, $_ dicendo #_ io non so gia\ perche/ Fosse costui alla forca mandato; Ma ben vi dico che sopra di me La colpa toglio e tutto quel peccato, Se peccato se appella alla contesa Occidere il nemico in sua diffesa. Da Bardulasto fui prima ferito A tradimento, che/ io non mi guardava, Et essendo da poscia lui fuggito, Io qua lo occisi, e ben lo meritava; E se egli e\ quivi alcun cotanto ardito (Eccetto il re, o se altri lui ne cava) Qual voglia cio\ con l' arme sostenere, Io vo' provar ch' io feci il mio dovere. $_ Parlando in tal maniera il damigello, Ciascun lo riguardava con stupore, Dicendo l' uno a l' altro: #_ E\ costui quello, Che acquistar debbe al mondo tale onore? E veramente ad un cotanto bello Convien meritamente alto valore, Perche/ lo ardir, la forza e gentilezza Piu\ grata e\ assai ne l' om che ha tal bellezza. $_ Ma sopra a gli altri re Agramante il fiero Di riguardarlo in viso non se sacia, Fra se/ dicendo: ## Questo e\ pur Rugiero! $# E di cio\ tutto il celo assai ringracia. Or piu\ parole qua non e\ mestiero; Subitamente lo bacia et abracia. Di Bardulasto non se prende affanno: Se quello e\ morto, lui se n' abbi il danno. Il giovanetto, di valore acceso, Di novo incomincio\ con voce pia #_ Parmi $_ dicendo #_ aver piu\ volte inteso Che il primo officio di cavalleria Sia la ragione e il dritto aver diffeso: Onde, avendo io cio\ fatto tuttavia, Che/ di campar costui presi pensiero, Famme, segnor, ti prego, cavalliero. E l' arme e il suo destrier me sian donate, Che/ altra volta da lui me fu promesso, Et anco l' ho dapoi ben meritate, Che/ per camparlo a risco mi son messo. $_ Disse Agramante: #_ Egli e\ la veritate, E cosi\ sara\ fatto adesso adesso. $_ Prendendo da Brunel l' arme e 'l destriero, Con molta festa il fece cavalliero. Era Atalante a quel fatto presente, E cio\ veggendo prese a lacrimare, Dicendo: #_ O re Agramante, poni mente, E de ascoltarmi non te desdignare; Perche/ di certo al tempo che e\ presente Quel che esser debbe voglio indovinare; Non mente il celo, e mai non ha mentito, Ne/ mancara\ di quanto io dico, un dito. Tu vo^i condurre il giovane soprano Di la\ dal mare ad ogni modo in Francia; Per lui sera\ sconfitto Carlo Mano, E cresceratti orgoglio e gran baldancia; Ma il giovanetto fia poi cristi%ano. Ahi traditrice casa di Magancia! Ben te sostiene il celo in terra a torto; Al fin sera\ Rugier poi per te morto. Or fusse questo lo ultimo dolore! Ma restara\ la sua genologia Tra Cristi%ani, e fia de tanto onore, Quanto alcun' altra che oggi al mondo sia. Da quella fia servato ogni valore, Ogni bontate et ogni cortesia, Amore e legiadria e stato giocondo, Tra quella gente fiorita nel mondo. Io vedo di Sansogna uno Ugo Alberto, Che giu\ discende al campo paduano, De arme e di senno e de ogni gloria esperto, Largo, gentile e sopramodo umano. Odeti, Itali%ani, io ve ne acerto: Costui, che vien con quel stendardo in mano, Porta con seco ogni vostra salute; Per lui fia piena Italia di virtute. Vedo Azzo primo e il terzo Aldrovandino, Ne/ vi so iudicar qual sia maggiore, Che/ l' uno ha morto il perfido Anzolino, E l' altro ha rotto Enrico imperatore. Ecco uno altro Ranaldo paladino: Non dico quel di mo, dico il segnore Di Vicenzia e Trivisi e di Verona, Che a Federico abatte la corona. Natura mostra fuor il suo tesoro: Ecco il marchese a cui virtu\ non manca. Mondo beato e felici coloro Che seran vivi a quella eta\ si\ franca! Al tempo di costui gli zigli d' oro Seran congionti a quella acquila bianca Che sta nel celo, e seran sue confine Il fior de Italia a due belle marine. E se l' altro filiol de Amfitri%one, Qual la\ si mostra in abito ducale, Avesse a prender stato opini%one, Come egli ha a seguir bene e fuggir male, Tutti li occei, non dico le persone, Per obedirlo avriano aperte l' ale. Ma che voglio io guardar piu\ oltra avante? Tu la Africa destruggi, o re Agramante, Poi che oltra mar tu porti la semente De ogni virtu\ che nosco dimorava; De qui nascera\ il fior de l' altra gente, E quel, qual sopra a tutto il cor mi grava, Che esser conviene, e non sera\ altramente! $_ Cosi\ piangendo il vecchio ragionava; Il re Agramante al suo dir bene attende, Ma di tal cosa poco o nulla intende. Anci rispose, come ebbe finito, Quasi ridendo: #_ Io credo che lo amore, Il qual tu porti a quel viso fiorito, Te faccia indovinar sol per dolore. Ma a questa cosa pigliarem partito, Che/ tu potrai venir con seco ancore, Anci verrai: or lascia questo pianto. $_ Addio, segnor, che/ qua finito e\ il canto. {tit}{ed}{it}Libro tercio de Orlando Inamorato ove sono descrite le maravigliose aventure et le grandissime bataglie et mirabil morte del paladino Rugiero e come la nobeltade e la cortesia ritornarno in Italia dopo la edificatione de Moncelice.{/it}{/ed}{/tit} Se a quei che tri%omfarno il mondo in gloria, Come Alessandro e Cesare romano, Che l' uno e l' altro corse con vittoria Dal mar di mezo a l' ultimo ocea\no, Non avesse soccorso la memoria, Seri\a fiorito il suo valore invano; Lo ardire e senno e le inclite virtute Serian tolte dal tempo e al fin venute. Fama, seguace de gli imperatori, Ninfa, che e gesti e' dolci versi canti, Che dopo morte ancor gli uomini onori E fai coloro eterni che tu vanti, Ove sei giunta? A dir gli antichi amori Et a narrar battaglie de' giganti, {add} Merce/ {/add; Merce\ Z} del mondo che al tuo tempo e\ tale, Che piu\ di fama o di virtu\ non cale. Lascia a Parnaso quella verde pianta, Che/ de salirvi ormai perso e\ il camino, E meco al basso questa istoria canta Del re Agramante, il forte saracino, Qual per suo orgoglio e suo valor si vanta Pigliar re Carlo et ogni paladino. D' arme ha gia\ il mare e la terra coperta: Trentaduo re son dentro da Biserta. E poi che ritrovato e\ quel Rugiero, Qual di franchezza e di beltate e\ il fiore, L' un piu\ che l' altro a quel passaggio e\ fiero: Non fu veduto mai tanto furore. Or ben se guardi Carlo lo imperiero, Che/ adosso se gli scarca un gran romore; Contar vi voglio il nome e la possanza Di ciascadun che vo^l passar in Franza. Venuto e\ il primo insin de Libicana, Re Dudrinaso, che e\ quasi un gigante: Tutta senz' arme e\ sua gente villana, Ricciuta e negra dal capo alle {t} piante; {/t S; piante, Z} Ma lui cavalca sopra ad una {t} alfana, {/t S; alfana; Z} Armato bene e\ di dietro e davante, E porta al paramento e sopra al scudo In campo rosso un fanciulletto nudo. E Sorridano e\ gionto per secondo, Qual signoreggia tutta la Esperia; Cotanto e\ in la\, che quasi e\ fuor del mondo, Et e\ pur negra ancor la sua zinia. Rossi ambi gli occhi e il viso furibondo Costui che io dico e i labri grossi avia; Sotto ha una alfana, si\ come il primiero. Or viene il terzo, che e\ spietato e fiero: Tanfiri%one, il re de l' Almasilla, Anci nomar si puo\ re del diserto, Che/ non ha quel paese o casa o villa, Ma tutta sta la gente al discoperto. Chi me donasse l' arte de Sibilla, Indovinando io non sarri\a di certo Della sua gente {add} sciogliere {/add T; scegliere Z S} il megliore, Che/ senza ardir son tutti e senza core. Non vi meravigliati poi se Orlando Caccia costor tal fiata alla disciolta, E se cotanti ne taglia col brando, Che/ nuda e\ quasi questa gente istolta; E sempre e\ bon cacciare alora quando Fugge la torma e mai non se rivolta. Ma dal proposto mio troppo mi parto: Dett' ho del terzo, odeti per il quarto, Ch' e\ Manilardo, il re de la Norizia, La qual di la\ da Setta e\ mille miglia; De pecore e di capre ha gran divizia, E la sua gente a cio\ se rassomiglia. Non han moneta e non hanno avarizia De oro e de argento; e non e\ maraviglia, Che tra noi anco il bove ne/ il montone Cio\ non desia, perche/ e\ senza ragione. Il re di Bolga, il quinto, e\ Mirabaldo, Che e\ longi al mare et abita fra terra. Grande e\ il paese, tutto ardente e caldo, Sempre sua gente con le serpe han guerra. Il giorno va ciascun sicuro e baldo, La notte ne le tane poi si serra; D' erba se pasce, e non so che altro guste: Scrive Turpin che vive de locuste. Re Folvo e\ il sesto, il qual venne di Fersa: Non trovo gente di questa peggiore; Come il sol se alcia al mezo giorno, e\ persa, Biastemando chi 'l fece e 'l suo splendore. La feccia qua del mondo se roversa, Per dar travaglia a Carlo imperadore. Or vengano pur via, gente balorda, Che ogni cristian ne avra\ cento per corda. E se nulla vi manca, per aiuto Gia\ Puli%ano, il re di Nasamona, Con gente di sua terra e\ qua venuto. Non trovaresti armata una persona; Chi porta mazza e chi bastone acuto, Trombe ni corni a sua guerra si suona; Avengache/ il suo re sia bene armato, Di molto ardire e gran forza dotato. Il re de le Alvaracchie e\ Prusi%one, Che le Isole Felice son chiamate, E tra gli antiqui ne e\ larga tenzone, E ne le istorie molto nominate. Ma lui condusse alla terra persone Ignude quasi, non che disarmate; Ciascun portava in mano un tronco grosso, E sol di pelle avean coperto il dosso. Venne Agrigalte, il re de la Amonia, Qual ha il suo regno in mezo de la arena. Una gran gente detro a lui seguia, Ma tutta quanta de pedocchi e\ piena. Apresso di questo altro ne vien via Re Martasino, e la sua gente mena, Qual piu\ de altre de arme non se vanta: Il giovanetto e\ re di Garamanta. Perche/, dopo che morto fu il vecchione, Quale era negromante e incantatore, Il re concesse questa regi%one A Martasino, a cui portava amore. Apresso a questo venne Dorilone; Aveva pur costui gente megliore, Che/ e\ re di Septa et ha porto su il mare; La gente sua selvatica non pare. Vennevi ancora Argosto di Marmonda, Che stimato e\ guerrer molto soprano. Il suo paese di gran pesci abonda, Perche/ e\ disteso sopra allo ocea\no, Tornando dietro al mare, alla seconda. Bambirago d' Arzila, a destra mano. La gente di costor e\ de una scorza Nera, come e\ il carbon quando se smorza. Ma tra' Getuli avea perso Grifaldo, Che, via passando, non me venne a mente. Lontano e\ al mare il suo paese caldo, Populo ignudo, tristo e da ni%ente. Bardulasto era morto, quel ribaldo, Ma novo re fu posto alla sua gente, La qual condotta venne da Alghezera; Questa tra l' altre e\ ben gagliarda e fiera. Vero e\ che non han ferro in sua provenza, Ma tutti portano ossa de dragoni Tagliente e acute, e non vedresti un senza; Per elmi in capo han teste de leoni, Si\ che a mirarli e\ strana appariscenza. In Francia periran questi poltroni; Tutti han scoperte le gambe e le braccia; Un sol non vi e\, che assembri uno omo in faccia. Bucifaro il suo re fu nominato, Qual di prodezza e\ tra' baroni il terzo. Il re di Normandia gli viene a lato, Forte et ardito, e nome ha Baliverzo; Ma il popol che ha condotto e\ sciagurato, Qual sordo, quale e\ zoppo e quale e\ guerzo: Gente non fu giamai cotanto istrana; Poi vien Brunello, il re de Tingitana. Piu\ sozza fronte mai non fie' natura, E ben li ha posti del mondo in confino, Che/ a l' altra gente potria far paura, Che se scontrasse avante al matutino. Ne/ gia\ il suo re gli avanza di figura, Negretto come loro e piccolino; Piu\ volte vi narrai come era fatto, Pero\ lo lascio e piu\ de lui non tratto. E torno ver ponente alla marina, Ove e\ il paese piu\ domesticato, Benche/ la gente e\ negra e piccolina, Ne/ trovaresti tra mille uno armato. Di la\ vien Farurante di Maurina; Feroce e\ lui, ma male accompagnato. Ora nel nostro mar mi volto adesso: Il re di Tremison gli viene {t} apresso {/t S; appresso, Z} (Alzirdo ha nome, e la sua schiera e\ armata Di lancie e scudi, e de archi e de saette), E Marbalusto, la anima dannata, Che seco ha tante gente maledette, E per menarle meglio alla spiegata La Francia tutta in preda gli promette, Onde quei pacci volentier vi vano; Costui de cui ragiono, e\ re d' Orano. Un altro, che al suo regno gli confina, Venne con gente armata con vantaggio: Cio\ fu Gualciotto di Bellamarina, Forte ne l' armi e di consiglio saggio. Poi Pinadoro, il re di Costantina; Questo dal mare e\ longi in quel vi%aggio: Quando gia\ fece con gli {add} Ara\bi {/add; Arabi Z} guerra, Fie' Costantino al monte quella terra. Non par, segnor, che io ne abbia detto assai Che lasso son cercando ogni confino? E parmi ben ch' io non finiro\ mai; Pur mo se me apresenta il re Sobrino, Che e\ re di Garbo, come io vi contai. Non e\ di lui piu\ savio saracino; Tardocco, re di Alzerbe, venne apresso. Tre vi ne sono ancora, io ve 'l confesso. Quel Rodamonte che e\ passato in Francia, E\ re di Sarza, et e\ tanto gagliardo, Che non e\ pare al mondo di possancia. Ora vi venne ancora il re Branzardo Con belle gente armate a scudo e lancia; Re di Bugia se appella quel vecchiardo. Lo ultimo venne, perch' e\ piu\ lontano, Mulabuferso, che e\ re di Fizano. Era gia\ prima in corte Dardinello, Nato di sangue e di casa reale, Che fu figlio de Almonte il damigello, Destro ne l' arme, come avesse l' ale, Molto cortese, costumato e bello, Ne/ se potrebbe apponervi alcun male. Il re Agramante, che gli porta amore, Re de Azumara l' ha fatto e segnore. Io credo ben che sera\ notte bruna Prima che tutti possa nominare, Perche/ giamai non fu sotto la luna Tal gente insieme, per terra o per mare. Re Cardorano a gli altri anco se aduna: Chi gli potrebbe tutti ramentare? E vien con seco il nero Balifronte: Quasi il lor regno e\ fuor de l' orizonte. Il primo ha in Cosca la sua regi%one, Mulga se appella poi l' altro paese. Africa tutta e le sue nazi%one Intorno de Biserta son distese, Varii di lingue e strani di fazone, Diversi de le veste e de lo arnese; Ne/ se numerarebbe a minor pena Le stelle in celo o nel litto l' arena. Fece Agramante e re tutti alloggiare Dentro a Biserta, che e\ di zoie piena; La\ con baldanza stanno ad armeggiare Con balli e canti e con festa serena; Altro che trombe non se ode suonare, L' un piu\ che l' altro gran tempesta mena; Chi a destrier corre, e chi l' arme si prova, Cresce nel campo ognior piu\ gente nova. Da Tripoli e Bernica e Tolometta Vien copia de pedoni e cavallieri; Questa e\ ben tutta quanta gente eletta Con arme luminose e bon destrieri. Quivi il re di Canara anco se aspetta, Ma gia\ non son cotali e suoi guerrieri, Che/ alle lor lancie non bisogna lima; Corne di capre gli han per ferri in cima. Era il suo re nomato Bardarico, Terribil di persona e bene armato; Or quando fu giamai nel tempo antico Per tale impresa un popolo adunato, Tanto diverso quanto e\ quel che io dico, La terra e il mar coperto in ogni lato? Oh quanto era superbo il re Agramante, Che a suo comando avea gente cotante! Benche/ gli {add} Ara\bi {/add; Arabi Z} e il suo re Gordanetto Ad obedirlo ancor non sian ben pratichi; Questi non hanno ne/ casa ne/ tetto, Ma ne le selve stan come selvatichi; Ragione e legge fanno a suo diletto, Ne/ son tra loro astrologi o gramatichi. Non e\ de questi alcun paese certo, Robbano ogniuno e fuggono al diserto. E chi volesse dietro a lor seguire, Seri\a perdere il tempo con affanno; Essi de frutti se sanno nutrire E vivere al scoperto senza panno; Pero\ fan gli altri di fame morire, Ne/ se acquista a seguirli se non danno; Onde Agramante per questa paura De subiugarli mai non prese cura. E standosi in Biserta a sollacciare, Come io vi dissi, con molto conforto, Un messo li aporto\ come nel mare Son piu\ nave apparite sopra al porto, Le qual gia\ Rodamonte ebbe a menare, Ma de lui non se sa se e\ vivo o morto; E che seco avean loro un gran pregione, Che e\ cristiano et ha nome Dudone. Il re turbato incomincio\ gran pianto, Stimando che sia morto Rodamonte; Ma io il vo' piangendo abandonare alquanto, Per tornare a que' duo che a fronte a fronte De ardire e de fortezza se da\n vanto. Forse stimati che io parli del conte, Qual con Ranaldo a guerra era venuto; Ma io dico Rodamonte e Ferraguto, Che non ha tutto il mondo duo pagani Di cotal forza e tanta vigoria. Crudel battaglia quei baron soprani Menata han sempre e menan tuttavia. De arme spezzate avean coperti i piani, Ne/ alcun de lor sa gia\ chi l' altro sia; Ma ciascun giuraria senza riguardo Non aver mai trovato un piu\ gagliardo. De l' altro e\ Feraguto assai minore, Ma non gli lasciaria del campo un dito, Che/ a lui non cede ponto di valore, Perche/ ogni piccoletto e\ sempre ardito; Et e\vi la ragion, pero\ che il core Piu\ presso a l' altre membra e\ meglio unito; Ma ben vorebbe aver la pelle grossa Il cane ardito, quando non ha possa. Durando anco tra lor lo assalto fiero, Per l' aspri colpi orribile a guardare, Passava per quel campo un messaggiero, Qual, fermo un poco, gli prese a parlare: #_ Se alcun di voi de corte e\ cavalliero, Male novelle vi sazo contare, Che/ 'l re Marsilio, il perfido pagano, Posto ha lo assedio intorno a Montealbano. E dissipato in campo ha il duca Amone, E con soi figli l' ha dentro cacciato, Seco Anzoliero e il suo parente Ivone: Alardo e\ preso, e non so se e\ campato; E quel paese e\ in gran destruzi%one, Che/ tutto intorno l' hanno arso e robbato. Questo vidi io, che son de la\ venuto Per dimandare a Carlo Mano aiuto. $_ Non fece alcuna indugia quel corriero, Che dopo le parole e\ caminato. Assai turbosse Feraguto il fiero, Poi che a quel fatto non se era trovato; E stato essendo alquanto in tal pensiero Da Rodamonte al fin fu domandato Se di tal guerra avea ponto che fare, Che/ non vi avendo, e\ da lasciarla andare. E Feraguto a ponto gli contava Come era il re Marsilio suo ci%ano, E poi cortesemente lo pregava Che seco voglia pace a mano a mano; Ne/ mai piu\ de impicciarsi gli giurava Per la figliola del re Stordilano. Non lascio\ gia\ per tema cotal prova, Ma sol per gire a quella guerra nova. Re Rodamonte, che l' avea provato Di tal franchezza e di tanto ardimento, Assai nel suo parlar l' ebbe onorato, Facendo il suo volere a compimento; E poi se furno l' un l' altro abracciato, E fratellanza ferno in giuramento, Con si\ grande amistate e tanto amore Che tra duo altri mai non fu maggiore. E destinati non se abandonare L' un l' altro mai sin che in vita serano, Insieme cominciarno a caminare, Per ritrovarse entrambi a Montealbano; E, via passando senza altro pensare, Scontrarno Malagise e Vivi%ano: Venian que' duo fratei, de' qual vi parlo, Per impetrar soccorso dal re Carlo Per Montealbano, il quale e\ assedi%ato, Come di sopra potesti sentire. Or Malagise se trasse da lato, Come e due cavallier vidde venire, Dicendo a Vivi%an: #_ Per Dio beato! Chi sian costoro io vo' saperti dire $_; Et intrato li\ presso in un boschetto, Fece il suo cerchio et aperse il libretto. Come il libro fu aperto, piu\ ne/ meno, Ben fu servito di quel che avea voglia, Che/ fu a demonii il bosco tutto pieno: Piu\ de ducento ne e\ per ogni foglia. E Malagise, che gli tiene a freno, Comanda a ciascadun che via se toglia, Largo aspettando insin che altro comanda; Poi di costoro a Scarapin dimanda. Era un demonio questo Scarapino, Che dello inferno e\ proprio la tristizia: Minuto il giottarello e piccolino, Ma bene e\ grosso e grande di malizia; Alla taverna, dove e\ miglior vino, O del gioco e bagascie la divizia, Nel fumo dello arosto fa dimora, E qua tentando ciascadun lavora. Costui, da Malagise adimandato, Gli disse il nome e lo esser de' baroni; La\ dove il negromante ebbe pensato Pigliarli entrambi et averli pregioni. Tutti e demonii richiamo\ nel prato In forma de guerreri e de ronzoni, Mostrando in vista piu\ de mille schiere, Con cimeri alti e lancie e con bandiere. Lui da una parte, da l' altra Viviano Uscirno di quel bosco a gran furore. Diceva Feraguto: #_ Odi, germano, Ch' io non sentitte mai tanto rumore! Questo e\ veramente Carlo Mano. Or bisogna mostrar nostro valore; Abench' io voglia te sempre obedire, Per tutto il mondo non voria fuggire. $_ #_ Come fuggir? $_ rispose Rodamonte #_ Hai tu di me cotale opini%one? Senza te solo io vo' bastare a fronte A tutti e cristi%ani e al re Carlone, E alle gente di Spagna seco aggionte. Se sopra il campo vi fosse Macone E tutto il paradiso con lo inferno, Non me farian fuggire in sempiterno. $_ Mentre che e duo baron stavano in questa, Ragionando tra lor con cotal detti, E Malagise usci\ de la foresta, Gia\ non stimando mai che alcun lo aspetti, Pero\ che seco avea cotal tempesta De urli e de cridi da quei maledetti, Che sotto gli tremava il campo duro: Dal lor fiatare e\ fatto il celo oscuro. Veni\a davanti agli altri Draginazza, Che avea le corne a l' elmo per insegna; Questo di rado a vil gente se abbrazza: Tra gli superbi alle gran corte regna. La lancia ha col pennone e spada e mazza, Ma di portare il scudo se disdegna. Questo si serra adosso a Rodamonte, E con la lancia il gionse ne la fronte. Avea la lancia il fer tutto di foco, Che entro\ alla vista et arse ambe le ciglia: E questo mosse Rodamonte un poco, Perche/ ebbe di tal fatto meraviglia; Ma urto\ il ronzon cridando: #_ Aspetta un poco, Giotton, giotton, che/ tua faccia somiglia Proprio al demonio mirandoti apresso, E certamente io credo che sei desso. $_ Al fin de le parole il brando mena, Come colui che avea forza soprana, E fu il gran colpo de cotanta lena, Che dentro lo passo\ piu\ d' una spana, E dette a Draginazza una gran pena, Benche/ il passasse come cosa vana; Ma gli altri maledetti gli e\no adosso Con tanta furia, che contar nol posso. E lui per questo non e\ meno ardito, Non ve pensati che 'l dimandi aiuto; Or questo or quel demonio avea colpito: Gia\ se pente ciascun d' esser venuto, E Draginazza via ne era fuggito: Ma molti sono adosso a Feraguto, E sopra a tutti un gran di%avolone, E questo e\ Malagriffa dal rampone. Con quel rampone agriffa gli usurari, Conducendoli a ponto ove li piace, Perche/ ha possanza sopra de li avari, E giu\ gli coce in quel fuoco penace, E piglia preti e frati e i scapulari, Perche/ ciascun di loro e\ suo seguace. Ora al presente a Feraguto e\ intorno; Ben se diffende il cavalliero adorno. E quel feri\ de un colpo si\ diverso, Che io vi so dir che l' altro non aspetta, E a tutti gli altri mena anco a traverso; Ma tanta era la folta maledetta, Che sol cridando quasi l' han somerso. Ora ecco un altro, che ha nome Falsetta, Ingannatore e de ogni vizio pieno: A fraude e trufferia mai non vien meno. Costui con Feraguto fie' battaglia, Non gli stando pero\ molto dapresso, Ma errando intorno gli dava travaglia, Fuggendo e ritornando a gioco spesso. Mal fa chi si\ gran pezzo al panno taglia, Che non sa de cusirlo per espresso; Credea Falsetta ad arte e con inganni Tenire il cavallier sempre in affanni. Ma Rodamonte, che veni\a da lato, A caso riscontro\ quel maledetto; Intra le corne il brando ebbe callato, E divise la testa e tutto il petto. Via va cridando quel spirto dannato, Ma dove andasse, io non so per effetto, E Rodamonte da\ tra quei malvasi, Benche/ ormai pochi al campo sian rimasi. Fuggiano urlando e stridendo con pianti, Che/ eran spezzati e non potean morire; E dove prima al bosco eran cotanti, Ora son pochi, e ciascun vo^l fuggire. A benche/ Malagise con incanti Facesse alquanto il campo mantenire, Pur non gli puote ritenere al fine, Che irno in profondo alle anime tapine. Esso, veggendo il fatto andar si\ male, A fuggir comincio\ con Vivi%ano; Ma tal fuggire ad essi poco vale: Feraguto gli segue per il piano Sopra a un destrier che par che metta l' ale, E in somma ambi li prese a mano a mano, Benche/ pur ferno alquanto de diffesa; Ma Rodamonte gionse alla contesa. Et ambi gli legarno in su un ronzone, E verso Montealbano andarno via, Per presentarli al re Marsili%one. Segnori e grazi%osa compagnia, Io voglio mo finire il mio sermone, Seguendo poi con bella diceria La istoria cominciata e la gran guerra: Dio vi contenti in celo e prima in terra. Quella battaglia orribile e infernale Che io ve ho contata, e piena di spavento, Me piacque si\ che, s' io non dico male, Mirarla in fatto avria molto talento, Sol per veder se il demonio e\ cotale E tanto sozzo come egli e\ dipento, Che/ non e\ sempre a un modo in ogni loco: Qua maggior corne, e la piu\ coda un poco. Sia come vo^le, io ne ho poca paura, Che/ solo a' tristi e a' desperati no^ce, E men fatica ancor piu\ me assicura, Che/ io so ben fare il segno de la croce. Or via lasciamlo in la mala ventura Nel fuoco eterno che il tormenta e coce, Et io ritorno a dilettarvi alquanto Ove io lasciai l' istoria a l' altro canto. Andando Feraguto a Montealbano E Rodamonte, come io ve contai, Che preso ha Malagise e Vivi%ano, Via caminando non restarno mai, Sin che trova^r lo esercito pagano, Che avea gran nobiltate e gente assai; Re, duci, cavallier, marchesi e conti Coperti di trabacche han piani e monti. Feraguto ando\ avanti al re Marsilio, E conta in breve, stando ingenocchiato, Si\ come a Malagise die\ di piglio, E Rodamonte assai gli ebbe lodato. Il re, che piu\ l' amava assai che figlio, Oltra meza ora lo tenne abracciato, Baciandolo piu\ volte, e per suo amore A Rodamonte fece un grande onore. Balugante era in campo e Falcirone, Fratei del re, con molta baronia, L' un de Castiglia e l' altro di Leone, E Maradasso, il re de Andologia, E il re di Calatrava, Sinagone, Grandonio di Volterna in compagnia, Qual dapoi mise e Cristi%ani al fondo (Sopra a Moroco regna il furibondo); Re de' Galegi, il quale era pedone, Che/ destriero al portar non ha bali\a, Vi venne Maricoldo col bastone; Ma di Biscaglia alcun non vi veni\a, Perche/ il re Alfonso tien la regi%one, Bon cristi%ano e de alta gagliardia, Di cui la stirpe e 'l bel seme iocondo Non Spagna sol, ma illuminato ha il mondo. Ne/ trovo per scrittura, o per ragione Piu\ real sangue, e non credo che sia; Fanne Sardegna dimostrazi%one, Le due Cecilie e in parte Barbaria: Et e\ verace quella opini%one Che fu da' Goti sua genologia. Chi fosser questi, gia\ non vi respondo: La terra il seppe e il mar che gira in tondo. Or veritate et anco affezi%one Me ha tratto alquanto de la strata mia; Ma torno adesso e dico le persone Sopra a le qual Marsilio ha signoria. Larbin di Portugallo era in arcione, E Stordilano ancor, che possedia Tutta Granata; e gia\ non vi nascondo Il Maiorchin, che nome ha Baricondo; Ma poi la corte di Marsili%one, Di tanto pregio e tal cavalleria. Serpentin de la Stella, il fier garzone, Et Isolier s' aspetta tuttavia, Che e\ sir de Pampaluna, e Folicone, Del re bastardo e conte de Almeria; Non par di Spagna il terzo, ne/ il secondo, Quel colorito, e questo bianco e biondo. Ma perche/ vi faccio io tanta dimora Il nome e le provenze a racontare, Che poi ne le battaglie in poco de ora Gli sentireti a ponto divisare? Re Carlo giongera\ senza dimora, Poscia per tutti vi sera\ che fare, A benche/ alcun pagan qua non l' aspetti, Che tutti in zoia stanno e gran diletti. Aveano usanza tutti i re pagani, La quale in questo tempo anco e\ rimasa, Che, campeggiando, o vicini o lontani, Ma' le lor dame lasciavano a casa; Ne/ so se lor pensier sian fermi o vani, Che/ pur sta mal la paglia con la brasa; Ma, da altra parte ancora, per amore Lo animo cresce e piu\ se fa de core. Per questo erano in campo le regine Quasi di tutta Spagna, e pur le belle; Ma sopra a tutte l' altre peregrine Era stimata il fior de le donzelle La Doralice; come tra le spine Splende la rosa e tra foglie novelle, Cosi\ lei di persona e di bel viso Sembra tra l' altre dea del paradiso. Re Rodamonte, che tanto l' amava, Ogni giorno per lei facea gran prove; Or combatte a ristretto et or giostrava, Sempre con paramenti e foggie nove, E Feraguto a cio\ l' accompagnava; Onde per questo par che non se trove Altro baron che a lui tenga la fronte, Tanto era forte e destro Rodamonte. Il re Marsilio per piu\ fargli onore Facea gran feste e tri%omfal conviti, E sempre Rodamonte ha piu\ favore Tra quelle dame dai visi fioriti. Or cosi\ stando un giorno, alto rumore E trombe con gran cridi fo^rno oditi, E la novella vien de mano in mano Come assalito e\ il campo giu\ nel piano. Re Carlo ne veni\a per la campagna, Et avea seco il fior de' Cristi%ani De l' Ongheria, di Franza e de la Magna, E la sua corte, quei baron soprani; Ma quando vidde la gente di Spagna Tutta assembrata per callare a i piani, Chiamo\ Ranaldo et ebbe a lui promesso Non dar la dama a Orlando per espresso, Pur che facesse quel giorno col brando Si\ fatta prova e dimostrazi%one, Che piu\ di lui non meritasse Orlando. Poi d' altra parte il figlio de Milone Fece chiamar da parte, e ragionando Con lui gli die\ segreta intenzi%one Che mai la dama non avra\ Ranaldo, Pur che combatta il giorno al campo saldo. Ciascun di lor quel giorno se destina Di non parer de l' altro mai peggiore. Ahi sventurata gente saracina, Che adosso ben ti viene un gran romore! Quei duo baron faran tanta ruina, Che mai fu fatta al mondo la maggiore. Or tacete, segnori, e non v' incaglia, Ch' io vo' contare un' aspra e gran battaglia. Re Carlo Mano avea fatte le schiere Molto ordinate e con gran sentimento; Il nome de ciascuno e le bandiere Poi sentirete e l' altro guarnimento, Secondo che usciran le gente fiere Che contra lor ne van con ardimento. Ma la prima che e\ gionta alla campagna E\ Salamone, il bon re de Bertagna. Con la bandiera a scacchi neri e bianchi Ricardo e' soi Normandi e\ seco in schiera; Guido e Iachetto, che e\n duo baron franchi, L' un de Monforte e l' altro de Riviera. Sei de sei millia non credo che manchi Di questa gente, che e\ animosa e fiera; Ne vien correndo e mena gran pulvino, Per assalire il campo saracino. Marsilio avea mandato Balugante, Che refrenasse quello assalto un poco, Accio\ che le sue gente, che son tante, Potesse trare alquanto di quel loco. Serpentino era seco e lo Amirante E il re Grandonio, l' anima di foco; Con piu\ de trenta millia de Pagani Callarno il monte e gionsero in que' piani. Suona^r le trombe, e con molta tempesta L' un verso l' altro a gran crido se mosse A tutta briglia, con le lancie a resta, E con fraccasso l' un l' altro percosse. Aspra battaglia non fu piu\ di questa: Volarno i tronchi al cel de l' aste grosse E l' arme resuonarno insieme e' scudi, Quando scontrarno insieme a li urti crudi. Era al principio questo un bel riguardo Per l' arme relucente e per cimieri; Ciascun destriero ancora era gagliardo, Coperte e paramenti erano intieri; Ma, poi che Salamone e il bon Ricardo E Iachetto con Guido, e baron fieri, Intrarno furi%osi alla gran folta, La bella vista in brutta fu rivolta. Roncioni e cavallier morti e tagliati Tutto infiamarno il campo sanguinoso, E l' arme rotte e gli elmi spenacchiati Facean riguardo tristo e doloroso. E paramenti e' squarci dissipati, E ciascun pien di sangue e polveroso; Il rui%nare a terra e il gran fraccasso Avrian smariti gli occhi a un satanasso. Ricardo entro\ primiero alla battaglia, Il qual portava per cimiero un nido, E Salamone adosso alla canaglia, E Iachetto con seco e 'l franco Guido. Ciascun si\ crudamente i Pagan taglia, Che sino al cel se odiva andare il crido; Ma alor se mosse incontra Balugante, Grandonio e Serpentino e lo Amirante. E per la lor prodezza e suo valore, E per sua gente ancor, che gli abondava, La nostra certo ari\a avuto il peggiore, Che indietro a poco a poco rinculava; Ma, cio\ veggendo Carlo imperatore, Che a lato alla baruffa sempre istava, Mando\ in soccorso Olivieri il marchese, E Naimo e il conte Gano e il bon Danese; E seco Avino e Ottone e Berlengiero E Avorio, che anco lui fu paladino; Avenga che io nol ponga per primiero, Pur va con gli altri, e dietro a lui Turpino. Alor se radoppio\ lo assalto fiero E levossi di novo alto polvino; Altro che trombe non se ode ni%ente, E lancie rotte de una e de altra gente. Carlo chiamo\ da parte Bradamante, Ch' e\ fior de gagliardia, quella donzella, E 'l bon Gualtiero, il cavalliero aitante, Et alla dama in tal modo favella: #_ Tu vedi il monte il quale e\ qua davante. La\ con Gualtiero a quel bosco ti cella, Con questi cavallier che teco mando, Ne/ te partir di la\, se io nol comando. $_ Ella ne ando\; ma sopra di quel piano Era battaglia si\ crudele e stretta, Che nol potria contare ingegno umano. A furia vien la gente maledetta; Benche/ il franco Olivier col brando in mano Di qua di la\ gli taglia a pezzi e fetta, Pur si diffende assai la gente fiera: Ecco de il monte scende un' altra schiera. Questo e\ il re Stordilano, e Malgarino E Baricondo e\ seco e Sinagone, E Maradasso piu\ gli era vicino: La schiera guida al campo Falcirone. Costui portava al suo stendardo un pino Col foco ne le rame e nel troncone, Et ha la gente spessa come piova: Ben vi so dir che il gioco se rinova. Alor Grandonio, quella anima accesa, Qual mai non se ha potuto adoperare, Sol per tenir la sua gente diffesa (Che/ a ricoprirla troppo avea che fare), Ora una lancia in su la coscia ha presa, E sopra Salamon se lascia andare. Avendo posta gia\ quella asta a resta, Roverso al campo il getta con tempesta. Guido abattuto fu da Serpentino, Io dico Guido il conte de Monforte, E non il Borgognon, che e\ paladino, Il qual si stava con re Carlo in corte. Or Balugante, il forte saracino, Al conte de Rivera die\ la morte, Dico a Iachetto; gionselo al costato, E via passando lo distese al prato. Quando il Danese vidde Balugante, Che avea in tal modo morto il giovanetto, Turbato acerbamente nel sembiante Sprona il ronzone adosso al maledetto. Gionse al cimier, che e\ un corno de elefante, E speccio\l tutto e roppe il bacinetto, E se dritto il colpiva a compimento, Tutto il fendeva di sotto dal mento. Ma il brando per traverso un poco calla, Si\ che una guanza con la barba prese, E venne gioso e colse nella spalla, Ne/ piastra grossa o maglia la diffese. Nel scudo de osso il bon brando non falla, Ma seco ne meno\ quanto ne prese, E fo si\ gran ferita e si\ diversa, Che quasi ha lui da poi la vita persa. Ma Balugante volta il suo ronzone Menando le calcagne forte e spesso, Sin che fo avante al re Marsili%one, Come io vi contaro\ qua poco apresso. Ora Oliviero abatte Sinagone, Et hagli il capo insino ai denti fesso: Barbuta non gli valse o l' elmo fino; E poi se volta e segue Malgarino. Ma non lo aspetta lui, che e\ impaurito; Mostro\gli Sinagon cio\ che 'l die' fare, Et ebbe senno a pigliar bon partito. Ecco Grandonio, che un serpente pare: E gionse Avino, il giovanetto ardito, E sottosopra il fece trabuccare; Poi Belengero abatte in sul sabbione, E seco Avorio e il suo fratello Ottone. Gionse anche Serpentino a un' altra banda E scontro\ il bon Ricardo paladino: For dello arcione alla campagna il manda; Ne/ qui se arresta e scontrase a Turpino, E benche/ 'l prete a Dio se ricomanda, Pur fu abattuto da quel saracino. Rimescolata e\ tutta quella traccia, Qua fugge questo, e la\ quell' altro caccia. Vidde Olivier Grandonio di Volterna, Che abatte sopra al campo gente tanta Che altri che lui non par che se discerna, E tutto e\ sangue dal capo alla pianta. Dicea Oliviero: #_ O Maiestate Eterna, Io pur diffendo la tua Fede santa, Come far deggio, e il tuo culto divino; Dammi possanza contra al Saracino! $_ Egli avea gia\ racolta un' altra lanza Cosi\ dicendo, e con animo ardito Spronava il suo destrier con gran baldanza. Or non so dir se ben fusse seguito, Pero\ che gionse il conte di Maganza, E per traverso ha il Saracin colpito; Non se guardando forse da quel lato, Tutto el distese fuor de arcione al prato. Quando Grandonio se vidde abattuto, Non dimandati se rodea la brena; Presto ricciato rembracciava il scuto, E mena il brando, e non e\ dritto apena; Ma il conte Gano, che stava aveduto, Volta il destriero e le calcagna mena; Ma il re Grandonio afferra il suo ronzone, Rimette il brando e salta nello arcione. Poi che salito fu sopra al destriero, Tra la gran folta col brando se caccia; Mai non fu Saracin cotanto fiero: Questo abatte per terra e quello amaccia. Ecco raggionto il marchese Oliviero, Che avea ferito Falcirone in faccia, E spezzato gli ha l' elmo e rotto il scuto, Quando gionse Grandonio a darli aiuto. Gionse Grandonio, e ben gli bisognava, Che/ non potea durar lunga stagione; Presto Oliviero a questo se voltava, Lasciando mezo morto Falcirone. Or l' uno e l' altro gran colpi menava; Benche/ piu\ forte sia quel can fellone, Era Olivier di lui poi piu\ maestro, Ma molto accorto e piu\ legiero e destro. Meno\ Grandonio un colpo a quel marchese, E nel fondo del scudo agionse al basso, Qual ponto nol coperse ne/ diffese, Ma tutto se fiacco\ con gran fraccasso, E passo\ il brando et arivo\ allo arnese: Se egli avea forza, a voi pensar vi lasso. Poco prese la coscia, e nello arcione Via passo\ il brando e gionse 'l bon ronzone. Colse il ronzone a quella spalla stanca, E sconciamente l' ebbe innaverato; Per questo ad Oliviero il cor non manca, Mena a due mano il suo brando affilato; Gionse a Grandonio quella anima franca Sopra del scudo, e tutto l' ha spezzato, Ne/ piastra integra al forte usbergo lassa: Tutte le speza e dentro al petto passa. Come io ve dico, ove gionse Altachiera Non lascia a quello usbergo piastra sana; Spezza ogni cosa quella spada fiera, E 'l fianco aperse piu\ de una gran spana. Ciascadun de essi a tristo partito era, Spargendo il sangue in su la terra piana, Ne/ per cio\ l' uno a l' altro dava loco, Et ogni colpo accresce legne al foco. Cresce lo assalto dispietato e fiero, E ben de l' arme sentirno il polvino; Ma da altra parte il bon danese Ogiero Per tutto il campo caccia Malgarino, E di suo scampo non ve era mestiero, Se non vi fosse agionto Serpentino, Quel dalla Stella, il giovanetto adorno, Che avea fatate l' arme tutte intorno. Come fu gionto, e vidde che il Danese Condotto ha Malgarino a mal partito, Sopra de Ogiero un gran colpo distese Dal lato manco in su l' elmo forbito, Quale era grosso e ponto nol diffese, Perche/ aspramente al capo l' ha ferito. Volta il Danese a lui, forte adirato: Bene ha di che, si\ come io vi ho contato. Cominciarno battaglia aspra e feroce Que' duo guerrer mostrandosi la fronte, Benche/ Curtana a quelle arme non no^ce, Che/ eran fatate per tagli e per ponte. Or cresce un novo crido et alte voce, Che/ un' altra schiera giu\ calla del monte, Maggiore assai de l' altre due davante: Non fur vedute mai gente cotante. Colui che vien davanti e\ Folicone, Il figlio de Marsilio, che e\ bastardo, Che ha de Almeria la terra e il bel girone: Ben vi posso acertar che egli e\ gagliardo. Larbin de Portugallo, il fier garzone, Gli viene apresso in su un corsier leardo; Maricoldo il Galego, che e\ gigante, Vien seco, e lo Argalifa e il re Morgante; Et Alanardo, conte in Barzelona, Vi venne, e Dorifebo, il fier pagano, Qual porta di Valenza la corona, E il conte de Girona, Marigano, E il franco Calabrun, re de Aragona. Par che quel monte giu\ roini al piano; A si\ gran folta ne vien via la gente, Che par che il cel profondi veramente. Quando re Carlo vidde gente tante, Ben se crede quel di\ de aver gran scorno; Chiamando a se/ Ranaldo e il sir de Anglante, #_ Filioli, $_ dicea #_ questo e\ il vostro giorno! $_ E poi mandava un messo a Bradamante Che, giu\ voltando quella costa intorno, Quanto nascosta puo\, per quella valle Ferisca a i Saracin dietro alle spalle. E dapoi che ebbe la dama avisata, Ranaldo e Orlando chiamo\, con amore Dicendo a lor: #_ Questa e\ quella giornata Che sempre al mondo vi puo\ fare onore: Or questa e\ quella che ho sempre espettata Per discerner qual sia di voi megliore; Per mia man seti entrambi cavallieri, Ne/ so di qual di voi meglio mi speri. Or via, miei paladini, alla battaglia! Ecco e nimici! Io non vi gli nascondo; Fatime un squarcio entro a quella canaglia, Che sempre mai di voi se dica al mondo. Io non li stimo tutti un fil di paglia, Quando io vi guardo il viso furibondo; Nel vostro viso ben mi sono accorto Che il mio nemico e\ gia\ sconfitto e morto. $_ Non aspetta^r piu\ oltra e duo baroni Il ragionar che fece Carlo Mano. Come dal cel turbato escon duo troni, E duo venti diversi allo ocea\no, Cosi\ van loro a furia di ronzoni. Ahi sventurato e tristo quel pagano, Qual sia scontrato da Ranaldo ardito! Ne/ quel de Orlando avra\ meglior partito. Ranaldo avanti il conte un poco avancia, Perche/ aveva il destrier piu\ corridore; A mezo il corso aresta la sua lancia, Spronando tutta fiata a gran furore. Il re Larbino avea molta arrogancia, Come hanno tutt' e Portugesi il core; E veggendo venire il fio de Amone, #_ Chi e\ costui, $_ disse #_ che ha si\ bel ronzone? Come ne vene! E' par che metta l' ale! E pure ha un gran poltrone armato adosso; Per manco nol darebbe come il vale, Ne/ lasciarebbe del suo pregio un grosso. E veramente che io faccio ben male Ferire a quel meschin, ma piu\ non posso; Qua fusse Orlando con Ranaldo a un fasso, Che/ io so che a un colpo l' uno e l' altro passo. $_ Cosi\ dicendo il re, che e\ bravo tanto, Un tronco for di modo ebbe arestato. Ranaldo ne veni\a da l' altro canto, E l' uno a l' altro a gran corso e\ scontrato; Quel roppe il tronco grosso tutto quanto, E questo lui passo\ da l' altro lato, Dico Ranaldo il passa, e la sua lancia Dietro alle spalle un gran braccio gli avancia. Poi lo urta a terra e quella asta abandona, E da\ tra gli altri con Fusberta in mano. Forte era Calabron, re de Aragona, Quanto fosse nel campo altro pagano, Ad ogni prova de la sua persona. Costui, veggendo il senator romano Che vien spronando con la lancia a resta, Verso di lui se mosse a gran tempesta. Chi li avesse cernuti ad uno ad uno, Duo piu\ superbi non avea quel campo, Come era quel Larbino e Calabruno, Che contra al conte vien con tanto vampo; Benche/ gli seri\a meglio esser digiuno Di cotal prova e di cotale inciampo, Che/ il conte lo passo\ da banda a banda, E morto for de arcione a terra il manda. Poi da\ tra gli altri e trasse Durindana, Perche/ allo incontro avea rotta la lanza. Come apre il mare intrando una fiumana, Cosi\ quel paladin, che e\ il fior di Franza, Nel mezo a quella gente ch' e\ pagana, Dimostra molto ardire e gran possanza, Tagliando e dissipando ad ogni mano; L' arme spezzate insino al cel ne vano. Ecco nel campo ha visto un gran pedone: Questo era Maricoldo di Galizia, Che fa de' nostri tal destruzi%one Che a riguardare egli era una tristizia. Il conte lo mirava di storzone, Che/ de si\ fatti avea morti a dovizia, Fra se/ dicendo: ## Si\ grandon ti veggio, Ch' io te voglio ascurtar un piede e meggio. $# E parlando cosi\ come io ve conto, Con lui se azuffa e fu corto quel gioco, Che/ dove avea segnato, lo ebbe agionto; Ni%ente vi lascio\ del collo, o poco, Et ascurtollo un piede e mezo aponto. Poi da\ tra gli altri; come fusse un foco Posto di zugno in un campo de biada, Cosi\ destrugge e taglia con la spada. Re Stordilano abatte e Baricondo, E' soi destrier e lor getta in un fasso. Colpito ha in fronte il primo, e quel secondo Avea ferito nel gallone al basso; La gente saracina va in profondo. Ecco scontrato al campo ha Maradasso, Maradasso da Argina, lo Andaluccio, Che ha per insegna e per cimero un struccio. Si\ come io dico, e\ re de Andologia Quel Maradasso che il struccio portava. Per tutto il campo Orlando lo seguia, Ma per ni%ente lui non lo aspettava; Onde cacciosse tra l' altra genia. Chi contarebbe e colpi che menava? Questo ha per largo e quel per lungo aperto: Dal capo al pie\ di sangue era coperto. Ne/ gia\ Ranaldo fa minor roina Ove si trova con Fusberta in mano, Che/ intrato e\ tra la gente saracina, E tutta in pezzi la distende al piano; Menar Fusberta mai non se raffina. Ora ecco ha visto il forte Marigano, Qual, come io dissi, e\ conte de Girona; Sopra di lui Ranaldo se abandona. Et ebbel gionto in testa con Fusberta, E fraccasso\ il cimiero e il bacinetto; La fronte e la gran barba gli ebbe aperta, E callo\ il brando insino a mezo il petto. Fugge allo inferno la anima diserta, Rimase in terra il corpo maledetto. Quivi lo lascia il paladin gagliardo E dietro in caccia e\ posto ad Alanardo: Conte Alanardo, quel barcelonese. Ranaldo non gli pone differenza; O sia de l' uno o de l' altro paese, Tutti gli mena al pare a una semenza. Questo stordito per terra distese; Poi Dorifebo, che era di Valenza, Abatte al campo si\ de un colpo crudo: Rotto avia l' elmo e fraccassato il scudo. Come alla verde selva del ginepre Se 'l foco dentro vi e\ posto talora Per cacciar fora caprioli e lepre, La fiama intorno e in mezo se avalora; Tal da Ranaldo convien che si sepre Quella canaglia, e non prende dimora, Che/ gli spaventa e caccia in ogni loco, Come la lepre e il capriolo il foco. Lui lo Argaliffa abatte e Folicone, E il re Morgante for di sella caccia: Il primo avea ferito nel gallone, El secondo nel petto, e 'l terzo in faccia. Chi contaria la gran destruzi%one? A questo taglia il collo, a quel le braccia; Non se vidde giamai tanta tempesta: Sin da le piante e\ sangue in su la testa. Dico, segnor, che il bon Ranaldo ardito Tutto era sangue dal capo alle piante: Non dico gia\ che lui fosse ferito, Ma per le gente che ha occise cotante. Ora di lui vi lascio a tal partito, Pero\ che io vo' tornare a Balugante, Qual, dissipato a gran confusi%one, Gionse davante al re Marsili%one. Rotto avea il capo e aperta una masella, Fessa una spalla, e il scudo avea perduto, E dimenando se crollava in sella, Come morendo al fin fosse venuto. E benche/ apena con dolor favella, Pur quanto piu\ potea, cridava: #_ Aiuto! Aiuto! aiuto! che/ il re Carlo Mano Tutta tua gente ha dissipata al piano. $_ Quando cio\ vidde il re Marsili%one, Ambe le man se batte in su la fronte, E forte biastemando il suo Macone Facea le ficche al celo a pugne gionte; Poi comanda a ciascun che sia in arcione. Feraguto fu il primo e Rodamonte, Re Malzarise apresso e Folvirante; Questo non e\ spagnol, ma di Levante, Benche/ al presente sia re di Navara, Che/ il re Marsilio a lui l' avea donata; Ma questo giorno li costara\ cara. Or viene a furia giu\ la gran brigata, Che a riguardar pari\a mille migliara. Non dico che sian tanti tutta fiata; Ma chi all' incontro e suoi nemici vede, Piu\ del dovere assai gli estima e crede. Come io ve dico, giu\ callano al piano: Par che profondi il mondo da quel lato; Tutti meschiati e senza ordine vano, Si\ come vo^l Marsilio disperato. Bavarte era davanti e Languirano (Ciascuno era de un regno incoronato), E Doriconte apresso e Baliverno E il vecchio Urgin, che e\ schiavo de l' inferno. Par che la terra e il mare e il cel ruine; Ciascun di essere il primo a denti freme. Ma quelle dame misere e tapine Li guardan drieto, e chi piange e chi geme; E tutte le donzelle e le regine Battean le palme lacrimando insieme, Dicendo ai cavallier: #_ Per nostro amore Oggi mostra\ti se aveti valore! Voi ben vedeti che alle vostre mani Macone ha posta nostra libertate; Via nel bon ponto, o cavallier soprani, Contra a' nemici! e si\ ve diportate, Che non giongiamo in forza di que' cani, Sendo in eterno poi vituperate. Nostra persona e l' anima col core Vi acquistareti e insieme il vostro onore. $_ Non fu nel campo re ne/ cavalliero, Qual non se commovesse a cotal dire; Ma sopra a gli altri Rodamonte il fiero Di starsi in loco non potea soffrire; Ma gia\ partirse gli facea mestiero, Perche/ Marsilio gli mandava a dire Ad esso e a Feraguto alora alora Che sian con seco senza altra dimora. Onde callarno quei duo saracini, Che erano al mondo fior di gagliardia. Oh quanti cristi%an faran tapini! Donaci aiuto, o Santa Matre pia! Non menaran la cosa in quei confini Che se e\ menata e mena tuttavia; Ranaldo e Orlando, che or paion di foco, Avran suo carco e soprasoma un poco. Callarno quei baron, che aveano il vanto, Come io vi dico, di forza e di ardire; Parve che il mondo ardesse de quel canto E che la terra se volesse aprire. Questo cantare e\ stato lungo tanto, Che ormai ve increscerebbe il troppo dire, Onde io prendero\ possa e voi diletto; Ne l' altro canto ad ascoltar vi espetto. Quando la tromba alla battaglia infesta Suonando a l' arme sveglia il crudo gioco, Il bon destrier superbo alcia la testa, Battendo e piedi, e par tutto di foco; Squassa le crine e menando tempesta Borfa le nare e non ritrova loco, Ferendo a calci chi se gli avicina; Sempre anitrisce e mena alta ruina. Cosi\ ad ogni atto degno e signorile, Qual se raconti, di cavalleria, Sempre se allegra lo animo gentile, Come nel fatto fusse tuttavia, Manifestando fuore il cor virile Quel che gli piace e quel ch' egli disia; Onde io di voi comprendo il spirto audace, Poi che de odirme vi diletta e piace. Non debbo adunque a gente si\ cortese Donar diletto a tutta mia possanza? Io debbo e voglio, e non faccio contese, E torno ove io lasciai ne l' altra stanza Di Feraguto, che il monte discese, E Rodamonte con tanta arroganza Che de i lor guardi e de la orribil faccia Par che il cel tremi e il mondo se disfaccia. Venian davanti a gli altri e duo baroni Piu\ de una arcata per quella pianura. Si\ come fuor del bosco duo leoni Che abbian scorto lo armento e la pastura, Cosi\ venian spronando e lor ronzoni Sopra la gente che de cio\ non cura; Io dico e Cristi%ani e Carlo Mano, Che ben veduti gli han callare al piano. Lo imperator gli vidde alla costiera, Dico e Pagani e il re Marsili%one, A benche/ allora non sapea chi egli era; Pur fece presto a cio\ provisi%one. Subitamente fece una gran schiera De cavallieri arditi e gente bone; Ove gli trova, senza altro riguardo Tutti gli aduna intorno al suo stendardo. Poi mosse Carlo questa compagnia, Sopra a un destriero a terra copertato; Per quel furor la terra sbigotia, Tamburi e trombe suonan da ogni lato. Marsilio d' altra parte anco vien via, Ma son davanti, come io ve ho contato, Il franco Feraguto e Rodamonte; E duo de' nostri a lor scontrarno a fronte, Il conte Gano e lo ongaro Otachiero, Contra di lor spronando a gran baldanza; E Rodamonte, che gionse primero, Scontro\ nel scudo al conte di Maganza. Tutto il fraccassa il saracino altiero, E usbergo e 'l fianco passa con la lanza. Turpino il dice, et io da lui lo scrivo, Che Satanasso alor lo tenne vivo. Questo servizio allor gli fie' di certo, Per far dapoi dell' anima piu\ straccio. Or Feraguto, il cavalliero esperto, Ben dette ad Otachier piu\ presto spaccio; Usbergo e scudo tutto gli ebbe aperto, Dietro a le spalle ando\ di lancia un braccio. Caderno entrambi a grave disconforto: L' un mezo e\ vivo, e l' altro al tutto morto. E dui pagan lascia^r costoro in terra, E {add} da\n {/add; dan Z} tra' nostri a briglia abandonata; Il conte Gano ben presto si sferra, E se nascose, l' anima dannata. Or chi me aiuta a ricontar la guerra Che fan color, crudele e disperata? Io non mi credo mai di poter dire L' aspre percosse e il lor crudo ferire. Lingua di ferro e voce di bombarda Bisognarebbe a questo racontare, Che par che 'l cel de lampi e di foco arda, Veggendo e brandi intorno fulminare; E benche/ nostra gente sia gagliarda, Contra a' duo saracin non puo\ durare, Come iudichi il cel quel giorno a morte Lo imperatore e la sua real corte. Questo da quella e quel da questa banda Armi e persone tagliano a traverso; Il re Carlone a Dio si racomanda, Che/, come gli altri, di stupore e\ perso, Benche/ per tutto provede e comanda; Ma tanto e\ il crido orribile e diverso Di gente occisa e de arme il gran rumore, Che non intende alcun lo imperatore. Ma ciascaduno, ove meglio far crede, Corre alla zuffa come disperato; Ben vi so dir, se Dio non gli provede, Che Carlo questo giorno e\ disertato, E rimarra\ la Francia senza erede, Che/ ogni barone a quel campo e\ tagliato, Et e\ occiso anco il popol piu\ minuto Da Rodamonte insieme e Feraguto. Dal destro lato intro\ re Rodamonte Col brando di Nembroth ad ambe mano, E parti\ Ranibaldo per la fronte, Duca de Anversa, che e\ bon cristi%ano. Da poi Salardo, che de Alverna e\ conte, Taglia a traverso e lascia morto al piano; Ugo e Raimondo trova il maledetto, L' un sino al collo e l' altro fende al petto. Quel di Cologna, e questo era Picardo: Il Saracino a terra gli abandona, E gli altri occide senza alcun riguardo Quel re che di prodezza e\ la corona; Ne/ di lui Feraguto e\ men gagliardo, Che/ meraviglia fan de la persona: Ranier di Rana, il patre de Oliviero, Ferito a morte abatte del destriero; E il conte Ansaldo, il quale era alemano, Et e\ segnor de la citta\ de Nura, Percote sopra a l' elmo ad ambe mano, E tutto il parte insino alla cintura. Tutta la gente fugge per il piano: Chi non avria di que' colpi paura? Duca di Clevi, il duca di Sansogna, Ciascuno ha un colpo, e piu\ non vi bisogna; Pero\ che il collo a l' un taglio\ di netto, Volo\ via il capo e l' elmo col cimiero; L' altro divise da la fronte al petto, Poi da\ tra gli altri quel saracin fiero. Re Carlo avea di cio\ tanto dispetto, Che non capi\a di doglia nel pensiero. Ecco Marsilio ariva e la gran gente: Non sa re Carlo che farsi ni%ente. Ni%un Ranaldo vi e\, ni%uno Orlando, Ni%un Danese e ni%uno Oliviero; Chi qua, chi la\ nel campo combattando, Ciascun di adoperarse avea mestiero; Onde il bon re, de intorno riguardando, Poi che non vede conte o cavalliero Che a' soi nemici piu\ volti la faccia, Fasse la croce e il forte scudo imbraccia, Dicendo: #_ O Dio, che mai non abandoni Chiunque in te spera con perfetto core, Si\ come fanno adesso e miei baroni, Che abandonano al campo il suo segnore: Meglio e\ morire e poter star tra' boni, Che piu\ campare al mondo in disonore; Aiutame, mio Dio, dammi baldanza: In te sol fido et ho la mia speranza. $_ Tra le parole una grossa asta aresta, Sempre chiamando a Dio del celo aiuto, E dove e\ la battaglia e piu\ tempesta, Sprona il destriero e scontra Feraguto. Proprio alla vista il gionse nella testa, Poco manco\ che non fosse caduto; Ma tal possanza avea il crudo barone, Che se mantiene a forza ne l' arcione. La lancia volo\ in pezzi con romore, E Feraguto, che il colpo avea preso, Qual mai pigliato non avea il maggiore, Se rivolto\, de furia e de ira acceso; Gionse ne l' elmo al franco imperatore, E sopra al prato lo mando\ disteso. Ciascun che 'l vidde, crede che 'l sia morto: Bene hanno e nostri e cruccio e disconforto. Ma sopra agli altri il franco Balduino, Benche/ sia nato de la falsa gesta, Forte piangendo se chiama tapino, E via correndo di cercar non resta Per ritrovare Orlando paladino. Ugetto di Dardona ancora in questa Veggendo il fatto se parti\ di saldo, E va correndo per trovar Ranaldo. Ma il re Marsilio intro\ nella battaglia, Suonando trombe e corni e tamburini, E tanto e\ il crido de la gran canaglia, Che par che ne lo abisso il cel ruini. La nostra gente tutta se sbaraglia, Perche/ adosso gli sono i Saracini, Che gli tagliano tutti a pezzi e a fetta: Chi puo\ fuggir, nel campo non aspetta. Ma Balduin cercando atrovo\ il conte, Che pure alora occise Balgurano; Come di sangue la\ fusse una fonte, Fatto avea rosso tutto intorno il piano; E Balduin, battendosi la fronte, Conta piangendo come Carlo Mano E\ morto al campo, e sta con tal marti\re Che in poco de ora converra\ morire. Orlando alle parole stette un poco, Per la gran doglia che gli gionse il core, Ma poi divenne rosso come un foco, Battendo i denti insieme a gran furore. Da Balduino avendo inteso il loco Ove abattuto e\ Carlo imperatore, La\ se abandona quella anima fiera: Ciascun fa loco piu\ che volentiera. Chi non il fa ben presto, se ne pente, Che/ lui non cegna, ma del brando mena, Et e\ tanto turbato e tanto ardente, Che non discerne e soi da gli altri apena. Per quel camino occise una gran gente; Ma ritorno ad {t} Ugiero {/t S; Ugetto Z} di Dardona, Qual mai non posa cercando a ogni mano, Sin che ha trovato il sir di Montealbano. Ne/ il cognoscea, tanto era sanguinoso, Che/ il scudo avea coperto e l' armatura; Poi che il cognobbe, tutto lacrimoso Gli raconto\ la gran disaventura, Come era andato il fatto doloroso, E che il re Carlo sopra alla pianura Era abattuto, de la vita in bando, Se non lo ha gia\ soccorso il conte Orlando; Perche/ venendo lo vidde passare, Et era seco a lato Balduvino, Qual forse questo gli debbe contare, Pero\ che anch' esso a Carlo era vicino. Quando Ranaldo odi\a cio\ racontare, Forte piangendo disse: #_ Ahime\ tapino! Che se egli e\ ver cio\ che costui favella, Perduta ho in tutto Angelica la bella. Se di me prima la\ vi gionge Orlando, Io so che Carlo aiutara\ di certo, Et io sero\, come fui sempre, in bando, Disgrazi%ato, misero e diserto. Almen potevi tu venir trottando! Venuto sei di passo, io il vedo aperto, Ne/ me il faria discreder tutto il celo, Che/ il tuo destrier non ha sudato un pelo. $_ #_ A tutta briglia venni speronando, $_ Rispose Ugetto #_ e tu pur fai dimora; Or che sai tu se qualche impaccio Orlando Ha retenuto, e non sia gionto ancora? Tu provar debbi la ventura, e quando Venga fallita, lamentarti alora; Si\ presto e\ il tuo destrier, che a questo ponto Prima de ogni altro ti vedo esser gionto. $_ Parve a Ranaldo che il dicesse il vero, Pero\ ben presto se pose a camino. Spronando a tutta briglia il suo destriero, A gran fraccasso va quel paladino; Qualunque trova sopra del sentiero, O voglia esser cristiano o saracino, Con lo urto getta a terra e con la spada, Ne/ vi ha riguardo, pur che avanti vada. Marcolfo il grande, che fu un pagano Che servia in corte il re Marsili%one, Il qual, seguendo e nostri in su quel piano, Scontrossi a caso nel figlio de Amone, Che de Fusberta lo gionse a due mano E tutto lo parti\ sino al gallone; E poco apresso truova Folvirante, Re di Navarra, di cui dissi avante. Ranaldo de una ponta l' ha percosso, Dietro alle spalle ben tre palmi il passa, E de urto gli caccio\ Baiardo adosso Percotendolo a terra, e quivi il lassa; E Balivorne, quel saracin grosso, Che avea rivolto al capo una gran fassa, De cotal colpo tocca con Fusberta, Che gli ha la faccia insino al collo aperta. Ranaldo non gli stima tutti uno asso, Pur che se spacci a trovar Carlo Mano. Ecco uno abbate ch' e\ davanti al passo, Limosinier di Carlo e capellano: Grassa era la sua mula, e lui piu\ grasso, Ne/ sa che farsi, a benche/ sia nel piano: Questo avea tanta tema de morire, Che stava fermo e non sapea fuggire. Ranaldo l' urta a mezo del camino, Lui cadde sotto, sopra e\ la sua mulla; Quel che ne fosse, non scrive Turpino, Et io piu\ oltra ve ne so dir nulla. Sopra a lui salta il franco paladino, E ben col brando intorno se trastulla, Facendo braccie e teste al cel volare: Ben vi so dir che largo se fa fare. Ecco davanti vidde una gran folta, Ma che sia in mezzo non po^ discernire. Questa e\ gente pagana, che era involta De incerco a Carlo per farlo morire; E dietro tanta vi ne era aricolta, Che ad alcun modo non ne potea gire; Ben che lui mostri arditamente il viso E si diffenda, pur l' avriano occiso. Ranaldo adosso a lor sprona Baiardo, Avenga che non sappia di quello atto, Ma, come dentro al cerchio fie' riguardo, Subitamente se accorse del fatto. Qui vi so dir che se mostra gagliardo, Onde il re Carlo il cognobbe di tratto, #_ Aiutami, $_ dicendo, #_ filiol mio, Che/ al mio soccorso te ha mandato Iddio! $_ Parlava Carlo, e tuttavia col scuto Stava coperto e la spada menava, E veramente gli bisogna aiuto, Tanta la gente adosso gli abondava. Di Corduba era il conte qua venuto (Partano il saracin se nominava), Qual mai non lascia che Carlo se mova; Per dargli morte pone ogni gran prova. Ma gionto da Ranaldo all' improviso Non se diffese, tanto impauri\; A benche/ in ogni modo io faccia avviso Che il fatto seri\a pur gito cosi\. Ranaldo da\ ne l' elmo, e fesse il viso, E 'l mento e il collo, e il petto gli parti\. Lascialo andare, e mena a piu\ non posso A un altro, che al re Carlo e\ pure adosso. Questo era il conte de Alva, Paricone: Ranaldo lo taglio\ tutto a traverso E prestamente prese il suo ronzone. Pero\ che quel de Carlo era gia\ perso; E tanto se sostenne il fio de Amone, Dando e togliendo in quel stormo diverso, Che a mal dispetto de ciascun pagano Sopra al destrier sali\ re Carlo Mano. Ne/ bisognava che fosse piu\ tardo, Perche/ non era apena in su la sella, Che Feraguto, il saracin gagliardo, E 'l re Marsilio gionse proprio in quella. Venian quei duo pagan senza riguardo, Ciascaduno a due man tocca e martella; Come tra gente rotta e dissipata, Venian ferendo a briglia abandonata. La nostra gente avante a lor non resta, Ma fugge in rotta, piena di spavento; Chi avia frappato il viso e chi la testa: Non fu veduto mai tanto lamento. Ma quando Carlo e i baron di sua gesta Al campo se volta^r con ardimento, Et apparbe Ranaldo in su Baiardo, Chi piu\ fuggiva, piu\ torno\ gagliardo. Suona^r le trombe e il crido se rinova, E la battaglia piu\ s' accende e aviva. Ciascuno intorno a Carlo se ritrova, Ne/ mostra de esser quel che mo fuggiva, Anci per amendar pone ogni prova. Marsilio, che si\ ratto ne veniva, E Feraguto ancor da l' altro canto, A cio\ mirando, se affermarno alquanto. Ciascun di loro in su la briglia sta, Gia\ non temendo che altri se gli appressi; Or l' uno e l' altro a furia se ne va Ove e nimici son piu\ folti e spessi. E' si suol dir che Dio gli uomini fa, Poi se trovano insieme per se stessi, Si\ come Carlo al re Marsili%one Trovosse, e Feraguto al fio de Amone. Oh colpi orrendi! oh battaglia infinita! Che chi l' avesse con gli occhi veduta, Credo che l' alma tutta sbigotita Per tema avria cridato: #" Aiuta! aiuta! $" E, poi che fosse for del corpo uscita, Mai non serebbe in quel loco venuta, Per non vedere in viso e due guerrieri De ira infiamati e de arroganza fieri. Or de Marsilio e de lo imperatore Vi lasciaro\, ch' io non ne fo gran stima, E contaro\ la forza e il gran valore De gli altri duo, che son de ardire in cima. A cominciarla mi spaventa il core: Che debbo io dire al fin? che diro\ in prima? Duo fior di gagliardia, duo cor di foco Sono a battaglia insieme a questo loco. E cominciarno con tanta ruina L' aspra baruffa e con tanto fraccasso, Che gia\ non sembra che da la mattina Sian stati in arme al sol che era gia\ basso. Ciascun stare al suo loco se destina, Ne/ se tira^r dal campo a dietro un passo, Menando colpi di tanto furore Che a' riguardanti fa tremare il core. Ranaldo gionse in fronte a Feraguto, E se non era quello elmo affatato, Lo avria fiaccato in pezzi si\ minuto, Che ne l' arena non se avria trovato. Callo\ Fusberta e giu\ colse nel scuto, Che era di nerbo e di piastra ferrato; Tutto lo spezza e tocca ne lo arcione: Mai non se vidde tal destruzi%one. E ben responde il saracino al gioco, Ferendo a lui ne lo elmo di Mambrino, E quel se divampava a fiamma e foco, Ma nol puote attaccar, cotanto e\ fino. Il scudo fraccasso\ proprio a quel loco Che a lui avea fiaccato il paladino, E gionse ne lo arcione a gran tempesta: Piu\ de tre quarti en porta a la foresta. Ne/ pone indugia, che/ un altro ne mena, E gionse pur ne lo elmo di traverso. Pensa\ti se egli avea soperchia lena: Quasi Ranaldo a terra ando\ roverso, E se sostenne con fatica e pena; La vista aveva e lo intelletto perso. Baiardo il porta e nel corso se serra, Ciascun che 'l guarda, dice: #_ Eccolo in terra! $_ Ma pur rivenne, e veggendo il periglio A che era stato e la vergogna tanta, Tutto nel viso divenne vermiglio Dicendo: #_ Un Saracin di me si vanta? Ma se mo mo vendetta non ne piglio, La vita vo' lasciarvi tutta quanta, E l' anima allo inferno e il corpo a' cani, Se mai de cio\ se vanta tra' Pagani. $_ Mentre che parla, ponto non se aresta, Ma mena a Feraguto invelenito, E gionse il colpo orribile alla testa, Tal che alle croppe il pose tramortito. Ferir non fu giamai di tal tempesta: Ben stava il saracino a mal partito, Per uscir da ogni lato dello arcione; Quasi mezza ora stette in stordigione. Il sangue gli uscia fuor di bocca e naso, Gia\ ne avea lo elmo tutto quanto pieno. Or lasciar me il conviene in questo caso, Che/ la istoria ad Orlando volge il freno. Dietro a Ranaldo e\ il paladin rimaso, Pero\ che 'l suo destrier corre assai meno, Io dico Brigliador, che non Baiardo; Pero\ qua gionse il conte un poco tardo. Quando fu gionto e vidde il re Carlone Fuor di periglio in su lo arcion salito, Che avea afrontato il re Marsili%one, Anci in tre parte gia\ l' avea ferito; E d' altra parte il franco fio de Amone Conduce Feraguto a mal partito: Quando cio\ prese il conte a rimirare, #_ Ahime\! $_ diceva, #_ qua non ho che fare! A quel che io vedo, le poste son prese; Male aggia Balduino il traditore! Qual bene e\ de la gesta maganzese, Che in tutto il mondo non e\ la peggiore. Per lui son consumato alla palese, Perduta e\ la speranza del mio amore; Persa e\ mia gioia e il mio bel paradiso Per lui che tardo gionse a darmi avviso. Ben dira\ Carlo ch' io venni in gran fretta Per dargli aiuto, come io debbo fare! Ma tu, gente pagana maledetta, Tutta la pena converrai portare; Sopra di voi sera\ la mia vendetta, E, se io dovessi il mondo rui%nare, Faro\ quanto Ranaldo questo giorno, O che davanti a Carlo mai non torno. $_ Cosi\ dicendo in dietro si rivolta, Torcendo gli occhi de disdegno e de ira. Si\ come un tempo oscuro alcuna volta, Che brontolando intorno al cel se gira, E il tristo villanel che quello ascolta, Guarda piangendo e forte se martira; E quel pur viene et ha il vento davante, Poi con tempesta abatte arbori e piante: Cotal veniva col brando a due mano Il conte Orlando, orribile a guardare. Non ebbe tanto ardire alcun pagano Che sopra al campo osasse de aspettare; Tutti a ruina e in folta se ne vano, Ma il conte altro non fa che speronare, Dicendo a Brigliador gran villania, Dandoli gran cagion del mal che avia. Il primo che egli agionse in suo mal ponto, Fu Valibruno, il conte de Medina, E tutto lo parti\, come io vi conto, Dal capo in su lo arcion con gran ruina. Poscia Alibante di Toledo ha gionto, Che non avea la gente saracina Di lui maggior ladrone e piu\ scaltrito; Orlando per traverso l' ha partito. Poi da\ tra gli altri e trova Baricheo, Che ha il tesor di Marsilio in suo {add} domi\no; {/add; domino; Z} Costui primeramente fu giudeo, E da poi cristi%an, poi saracino, Et in ciascuna legge fu piu\ reo, Ne/ credeva in Macon ne/ in Dio divino. Orlando lo parti\ dal zuffo al petto: Non so chi se ebbe il spirto maledetto; Non so se tra' Giudei o tra' Pagani Giu\ ne lo inferno prese la sua stanza. Il conte il lascia, e tra' Saracin cani Ferisce ad ogni banda con baldanza. Si\ come in Puglia ne gli aperti piani Ponesse il foco alcun per mala usanza, Quando tra' il vento e la biada e\ matura, Ben faria largo e netto alla pianura; Cotal tra' Saracini il sir de Anglante Tagliando e dissipando ne veniva. Ecco longi cernito ebbe Origante, Ma nol volse ferir quando fuggiva; Anci correndo gli passo\ davante, E poi se volta e nel scudo lo ariva, E taglia il scudo e lui con Durindana, Si\ che in duo pezzi il manda a terra piana. Di Malica segnore era il pagano Qual v' ho contato che e\ in duo pezzi in terra; Orlando tocca Urgino ad ambe mano, E in due bande aponto lo disserra. A Rodamonte, il quale era lontano E facea in altro loco estrema guerra, Fu aportato il furore e 'l gran periglio Nel quale e\ Feraguto e il re Marsilio. Incontinente lascia Salamone, Quel di Bertagna, che era rimontato; E mal per lui, pero\ che nel gallone E in faccia Rodamonte l' ha piagato; E gia\ lo trabuccava de lo arcione, Che tutto il mondo non lo avria campato, Quando quel messo ch' io dissi, giongia; Lui lascia Salamone e tira via. Ne lo andar trovo\ il duca Guielmino, Sir de Orli%ense, de gesta reale; Insino ai denti il parte il saracino, Che/ la barbuta, o l' elmo non vi vale. Quanto piu\ andando avanza del camino, Piu\ gente urta per terra e fa piu\ male; Ovunque passa quel pagano ardito, Qual morto abatte e qual forte ferito. Misse\re Ottino, il conte di Tolosa, E il bon Tebaldo, duca di Borbone, Per terra abatte in pena dolorosa, E via passando con destruzi%one Trovo\ la terra tutta sanguinosa, E un monte de destrieri e di persone, L' un sopra a l' altro morti e dissipati: Il conte e\ quel che gli ha si\ mal menati. Quivi le strida e il gran lamento e il pianto Sono a quel loco ove se trova Orlando, Quale era sanguinoso tutto quanto, E mena intorno con ruina il brando. Ma gia\ finito nel presente e\ il canto, Che non me ne ero accorto ragionando; Segue lo assalto di spavento pieno, Qual fo tra il conte e il figlio de Uli%eno. Se mai rime orgogliose e versi fieri Cercai per racontare orribil fatto, Ora trovarle mi fara\ mestieri, Pero\ che io me conduco a questo tratto Alla battaglia con duo cavallieri, Che questo mondo e l' altro avrian disfatto; Tra ferro e foco inviluppato sono, Che/ l' altre guerre ancor non abandono. Perche/ dove e\ il Danese e Serpentino, Ov' e\ Olivieri e Grandonio si geme; E il re Marsilio e il figlio di Pipino, Quanto se puo\, ciascun sopra se preme; Ranaldo e Feraguto il saracino Fan piu\ lor duo che tutti gli altri insieme; Et or di novo Orlando e Rodamonte Per piu\ ruina son condutti a fronte. Si\ come a l' altro canto io vi ebbi a dire, Ciascun di loro avanti avea gran cazza; Cristian ne/ Saracin potean soffrire, Perche/ l' un piu\ che l' altro assai ne amazza. Quando la gente gli vide venire, Ognun a piu\ poter fa larga piazza; Come avante al falcone e storni a spargo, Fugge ciascun cridando: #_ Largo! largo! $_ E quei duo cavallier con gran baldanza Se urtarno adosso, senza piu\ pensare. Avea prima ciascun rotta sua lanza, Ma con le spade ben vi fo che fare, Menando i colpi con tanta possanza, Che ciascadun che sta intorno a mirare Di trare il fiato apena non se attenta, Tanto al ferire estremo se spaventa. Barbute e scudi e usberghi e maglie fine Ne porta seco a ogni colpo di spada, Come lo inferno e il cel tutto ruine, E mare e terra con fraccasso cada; E la piastra percossa a polverine Vola de intorno e non so dove vada, Che/ ogni pezzo e\ si\ minuto e poco Che non se trovarebbe in alcun loco. E se non fosse per gli elmi affatati Che aveano in capo, e la bona armatura, Non vi seriano a quest' ora durati, Per la battaglia tenebrosa e scura; Che/ tanto sono e colpi smisurati, Che pure a racontarli e\ una paura; Quando giongon e brandi in abandono, Par che 'l cel s' apre e gionga trono a trono. Re Rodamonte, il quale ardea de andare Ove era il re Marsilio e Feraguto, Temendo forse che per dimorare Giongesse dapoi tardo a dargli aiuto, Ad ambe mano un colpo lascia andare, E tocca nel cantone in cima al scuto; Per lungo il fende a l' altra ponta bassa, Gionge a l' arcion e tutto lo fraccassa. Quando se avidde di quel colpo Orlando, Turbato d' altro, forte disdegnoso, Ira sopra ira piu\ multiplicando, Lascia a due mano un colpo tenebroso; Gionse nel scudo il furi%oso brando, E piu\ di mezo il manda al prato erboso, Ne/ pone indugia e tira un gran roverso, E nel guanciale il gionse di traverso. Fo il colpo orrendo tanto e smisurato, Che trasse di se stesso quel pagano, E fo per trabuccar da l' altro lato, E da la briglia abandona la mano. Il brando che nel braccio avea legato, Tirando drieto trasinava al piano, E si\ gli avea ogni lena il colpo tolta, Che per cader fo assai piu\ che una volta. Poi che fu il spirto e l' anima venuta, Ne la sua vita mai fu tanto orribile; Di presto vendicarse ben se aiuta: Mena ad Orlando un gran colpo e terribile, Qual dileguo\ in tal modo la barbuta, Che via per l' aria ne volo\ invisibile, Piu\ trita e piu\ minuta che l' arena; Che ormai sia al mondo, non mi credo apena. Lo elmo de Almonte, che tanto fu fino, Ben campo\ alora Orlando dalla morte, Avenga che a quel colpo il paladino Del morir corse fino in su le porte; Di man gli cadde il bon brando acciarino, Ma la catena al braccio il tiene forte: Fuor delle staffe ha i piedi, e ad ogni mano Spesso se piega per cadere al piano. La gente che de intorno era a guardare, Et avea de tal colpi assai che dire, Subitamente comincio\ a cridare: #_ Aiuto! aiuto! $_ e poi prese a fuggire; Perche/, avendosi indietro a riguardare, Gran schiere sopra a lor vidder venire, E questo era Gualtier da Monli%one E Bradamante, la figlia de Amone. Eran costor fuor dello aguaito usciti, Si\ come avea commesso Carlo Mano: Ben diece millia cavallieri arditi, Che avuto impaccio quel giorno non hano. Per questo i Saracin son sbigotiti, Ciascuno a piu\ poter spazza quel piano; E ben presto spaciarsi gli bisogna, Si\ Bradamante a lor gratta la rogna. Avanti a gli altri la donzella fiera Piu\ de un' arcata va per la pianura, Tanto robesta e si\ superba in ciera Che solo a riguardarla era paura; La\ quel stendardo e qua questa bandiera Getta per terra, e de altro non ha cura Che di trovare al campo Rodamonte, Che/ del passato se ramenta l' onte, Quando in Provencia gli occise il destriero E fece di sua gente tal ruina. Ora di vendicarse ha nel pensiero, E di cercarlo mai non se rafina. Sprezando sempre ogni altro cavalliero, Via passa per la gente saracina, Ne/ par pur che di lor se accorga apena, Benche/ de intorno sempre il brando mena. Pur Archidante, il conte de Sanguinto, Et {add} Oliviero, {/add; Olivalto, Z} il sir de Cartagena, L' un pose morto a terra, e l' altro vinto, Perche/ de intorno gli donavan pena; Ad {add} Oliviero {/add; Olivalto Z} nel scudo depinto Una aspra ponta la donzella mena, E spezzo\ quello usbergo come un vetro; Ben piu\ de un palmo gli passo\ di dietro. Questo abandona e mena ad Archidante Ad ambe man, si\ come era adirata, E ne la fronte li gionse davante: Per sua ventura se volto\ la spata; E lui cadendo a su volto\ le piante E rimase stordito ne la strata. La dama non ne cura e in terra il lassa, E rui%nando via tra gli altri passa. E mena in volta le schiere pagane, Facendo deleguare or quelle or queste; Ove ella corre, il segno vi rimane E fa le strate a tutti manifeste, Che restan piene di piedi e di mane, Di gambe e busti e di braccie e di teste; E la sua gente, che alle spalle mena, E\ di gran sangue caricata e piena. Veggendo tal ruina Narbinale, Conte de Algira, quel saracin fiero (Ben che abbia altro mestier, che/ fu corsale, Era ancor destro e forte in su il destriero): Costui veggendo il gran dalmaggio e il male Che fea la dama per ogni sentiero, Con una lancia noderuta e grossa A lei se afronta e da\gli alta percossa. Ma lei de arcion non se crolla ni%ente, E mena sopra a l' elmo a quel pagano, E calla il brando giu\ tra dente e dente; Quel cadde morto del destriero al piano. Quando cio\ vidde la pagana gente, Ben vi so dir che a folta se ne vano, Chi qua chi la\ fuggendo a piu\ non posso; Ma sempre e Cristi%an lor sono adosso. Tenne la dama diverso camino, Lasciando a man sinestra gli altri andare, E gionse dove Orlando il paladino Stava for dello arcion per trabuccare. Vero e\ che Rodamonte il saracino Non lo toccava e stavalo a mirare; La dama ben cognobbe il pagan crudo Al suo cimiero e alle insegne del scudo. Onde se mosse, e verso lui se afronta. Or se rinova qui l' aspra battaglia E' crudel colpi de taglio e di ponta, Spezzando al guarnimento piastra e maglia; Ma nel presente qua non se raconta, Perche/ Turpin ritorna alla travaglia Di Brandimarte e sua forte aventura, Sin che il conduca in Francia alla sicura. Avendo occiso al campo Barigaccio, Come io contai, quel perfido ladrone, Con la sua dama in zoia et in sollaccio Veni\a sopra a Batoldo, il bon ronzone; E caminando gionse ad un palaccio, Che avea verso a un giardino un bel verone, E sopra a quel verone una donzella Vestita de oro, e a maraviglia bella. Quando ella vidde il cavallier venire, Cignava a lui col viso e con la mano Che in altra parte ne dovesse gire, E che al palazzo passasse lontano; Ora, Segnori, io non vi saprei dire Se Brandimarte intese, o non, certano; Ma cavalcando mai non se ritiene Sin che a la porta del palazzo viene. Come fu gionto alla porta davante, Dentro mirando vidde una gran piazza Con loggie istori%ate tutte quante: Di quadro avea la corte cento brazza. Quasi a mezo di questa era un gigante, Qual non avea ne/ spada ne/ mazza, Ne/ piastra o maglia, od altre arme ni%ente, Ma per la coda avea preso un serpente. Il cavallier de cio\ ben si conforta, Poi che ha trovata si\ strana aventura; Ma in su quel dritto aperta e\ un' altra porta, Che del giardin mostrava la verdura, E un cavallier, si\ come alla sua scorta, Si stava armato ad una sepoltura; La sepoltura e\ in su la soglia aponto Di questa porta, si\ come io vi conto. Ora il gigante stava in gran travaglia Con quel serpente, come io vi contai, Ma sempre a un modo dura la battaglia: Quel per la coda nol lascia giamai. Benche/ il serpente, che de oro ha la scaglia, Piegasse a lui la testa volte assai, Mai nol puote azaffare o darli pena, Che/ per la coda sempre intorno il mena. Mentre il gigante quel serpente agira Brandimarte alla porta ebbe veduto, Onde, soffiando di disdegno e de ira, Correndo verso lui ne fo venuto, E detro a se/ il dragon per terra tira. Or doni il celo a Brandimarte aiuto, Che/ questo e\ il piu\ stupendo e grande incanto Che abbia la terra e il mondo tutto quanto. Come e\ gionto, il gigante alcia il serpente, Con quello a Brandimarte mena adosso. Non ebbe mai tal doglia al suo vivente, Perche/ quel drago e\ lunghissimo e grosso; Pur non se sbigotisce de ni%ente, Ma quel gigante ha del brando percosso Sopra a una spalla, e giu\ calla nel fianco: Lunga e\ la piaga un braccio, o poco manco. Crida il gigante e pur alcia il dragone, E gionse Brandimarte ne la testa, E tramortito lo trasse de arcione, E, il serpente menando, non se arresta; Anci gionse a Batoldo, il bon ronzone, E disteselo a terra con tempesta. Rivene il cavalliero, e in molta fretta E\ destinato a far la sua vendetta. Col brando in mano il gran gigante affronta, E se accomanda alla virtu\ soprana; Ma quel mena del drago a prima gionta, E di novo il distese a terra piana. Gia\ Brandimarte avea tratto una ponta, E passato l' avea piu\ de una spana; Avendo l' uno e l' altro il colpo fatto, Quasi alla terra se ne andarno a un tratto. Ma quel serpente fece capo umano, Si\ come proprio avea prima il gigante, E collo e petto e busto e braccie e mano E insieme l' altre membre tutte quante; E quel gigante venne un drago istrano, Proprio come questo altro era davante, E, si\ come era per terra disteso, Fo dal gigante per la coda preso. E verso Brandimarte torna ancora Menando, come il primo fatto avia; Lui, che levato fu senza dimora, Gia\ di tal cosa non se sbigotia, Anci menando del brando lavora, Dando e cogliendo colpi tuttavia; Tanto animoso e fiero e\ Brandimarte! Ferito ha gia\ il gigante in quattro parte. A benche/ anco esso pisto e percosso era, Tanto il feriva spesso il maledetto; E la battaglia assai fo lunga e fiera; Ma, per venire in ultimo allo effetto, Brandimarte lo agionse de Tranchera, E tutto lo divise insino al petto, Onde se fece drago incontinente, E fo gigante quel che era serpente. Si\ come in prima, per la coda il prese, E verso il cavalliero anco se calla, Tornando pur di novo alle contese; Ma Brandimarte il gionse in una spalla Et a terra mando\ quanto ne prese, Ne/ gia\ per questo il brando se aristalla, Ma giu\ callando a gran destruzi%one Tutto lo fende insin sotto al gallone. Come davanti se fo^r tramutati, Questo e\ gigante e quello era dragone, E ben sei volte a cio\ fo^rno incontrati, Crescendo sempre piu\ la questi%one. Sei volte Brandimarte gli ha atterrati, Ne/ trova piu\ rimedio quel barone, Onde dolente e con gran disconforto Senza alcun dubbio estima de esser morto. Pur, come quel che molto era valente, Non avea al tutto ancor l' animo perso, Anci con gran ruina arditamente Mena un gran colpo orribile e diverso, E gionse a mezo il busto del serpente Dietro da l' ale, e tagliollo a traverso. Quando il gigante vide quel ferire, Trasse via il resto e posese a fuggire. Verso la porta, ove e\ la sepoltura, Fugge il gigante forte lamentando, Che/ di quel che gli avenne avea paura. Il cavallier gli pose in testa il brando, E partil tutto insino alla cintura, Onde lui cadde alla terra tremando; Poi che in tal forma del compagno e\ privo, Moritte al tutto e non torno\ piu\ vivo. Non era a terra quel gigante apena, Che il campi%on che a l' altra porta stava, Ver Brandimarte venne di gran lena, Onde la zuffa qua se cominciava, E de gran colpi l' uno a l' altro mena, Ma sempre Brandimarte lo avanzava; E per conclusi%one in uno istante Morto il distese apresso a quel gigante. E Fiordelisa, quale era seguita Dentro alla loggia il cavallier soprano, Veggendo la battaglia esser finita Dio ne ringrazi%ava a gionte mano. Or la porta ove entrarno, era sparita, E per vederla se riguarda in vano; Ben per trovarla se affannarno assai, Ma non se vede ove fusse pur mai. Onde si stanno, e non san che si fare, E solo una speranza li assicura: Che quella dama che gli ebbe a cennare, Gli mostri a trarre a fin questa ventura. Ma, stando quivi in ocio ad aspettare, Cominciarno a mirar la depintura Che avea la loggia istori%ata intorno Vaga per oro e per color adorno. La loggia istori%ata e\ in quattro canti, Et ha per tutto intorno cavallieri Grandi e robusti a guisa de giganti, E con lor soprainsegne e lor cimieri. Sopra allo arcione e armati tutti quanti Si\ nella vista se mostravan fieri, Che ciascadun che intrava de improviso, Facean cambiar per meraviglia il viso. Chi fu il maestro, non saprebbi io dire, Il quale avea quel muro istori%ato De le gran cose che dovean venire, Ne/ so chi a lui l' avesse dimostrato. Il primo era un segnor di molto ardire, Benche/ ha lo aspetto umano e delicato, Qual per la Santa Chiesa e per suo onore Avea sconfitto Rigo imperatore. Apresso alla Ada ne' prati Bressani Se vedea la battaglia a gran ruina, E sopra al campo morti li Alemani, E dissipata parte gibillina. L' acquila nera per monti e per piani Era cacciata misera tapina Dal volo e da gli artigli de la bianca, A cui ventura ne/ virtu\ non manca. Era il suo nome sopra alla sua testa, Descritto in campo azurro a lettre d' oro; Benche/ la istoria assai la manifesta, Nomar se debbe di virtu\ tesoro. Molti altri ivi eran poi de la sua gesta; E de' gran fatti e de le guerre loro Tutta era istori%ata quella faccia, Che e\ da man destra a lato alla gran piaccia. Ne la seconda vi era un giovanetto, Che natura mostro\ ma presto il tolse; Per non lasciar qua giu\ tanto diletto, Il cel, che ne ebbe invidia, a se/ lo volse; Ma cio\ che puote avere un om perfetto De ogni bontate, in lui tutto se accolse: Valor, beltate e forza e cortesia, Ardire e senno in se/ coniunti avia. Contra di lui, di la\ dal Po nel piano, Eran Boemi et ogni gibillino, Con quel crudel che il nome ha di Romano, Ma da Trivisi il perfido Azolino, Che non se crede che de patre umano, Ma de lo inferno sia quello assassino; Ben chiariva la istoria il suo gran storno, Che/ ha dame occise e fanciullini intorno. Undeci millia Padovani al foco Posti avea insieme il maledetto cane, Che non se odi\ piu\ dire in alcun loco Tra barbariche gente o itali%ane; Poi se vedeva la\ nel muro un poco Con le sue insegne e con bandiere istrane Di Federico imperator secondo, Che la Chiesa de Dio vo^l tor del mondo. Di la\ le sante chiave, e in sue diffese L' acquila bianca nel campo cilestro, E quivi eran depente le contese E la battaglia di quel passo alpestro; Et Azolin se vedia la\ palese, Passato di saetta il pie\ sinestro E ferito di mazza nella testa, E' soi sconfitti e rotti alla foresta. E la faccia seconda era finita De la gran loggia con lavor cotale. Ma ne la terza e\ lunga istoria ordita De una persona sopranaturale, Si\ vaga nello aspetto e si\ polita, Che non ebbe quel tempo un' altra tale; Tra zigli e rose e fioretti d' aprile Stava coperta la anima gentile. Essendo in prima etate piccolino, In mezo a fiere istrane era abattuto, E non avea parente ne/ vicino Qual gli porgesse per pietate aiuto. Duo leoni avea in cerco il fanciullino, E un drago, che di novo era venuto; E l' acquila sua stessa e la pantera Travaglia gli dona^r piu\ d' altra fiera. Il drago occise et acqueto\ e leoni, E l' acquila caccio\ con ardimento; A la pantera si\ scurto\ li ungioni, Che se ne avede ancor, per quel ch' io sento. Poi se vedea, da conti e da baroni Accompagnato, con le velle al vento Andar cercando con devozi%one La Santa Terra et altre regi%one. Indi se volse e, come avesse l' ale, Tutta la Spagna vidde e lo occea\no; E\ recevuto in Francia alla reale, Forse come parente e prossimano. Error prese il maestro, e fece male, Che/ non dipense come egli era umano, Come era liberale e d' amor pieno; Non vi {add} capi\a, {/add; capia, Z} che/ 'l campo venne meno. La terza istoria in quel modo se spaccia; La quarta somigliava a questo figlio, Che, essendo fanciullin, fortuna il caccia, Vago e dipento e bianco come un ziglio, Di pel rossetto et acquillino in faccia; Ma lui sol a virtute die\ di piglio, E quella ne porto\ fuor di sua casa; Ogni altra cosa in preda era rimasa. La\ se vedea, cresciuto a poco a poco Di nome, de sapere e di valore, Or con arme turbate et or da gioco Mostrar palese il generoso core; E quindi apresso poi parea di foco In gran battaglia e tri%omfale onore. In diverse regioni e terre tante Sempre e nemici a lui fuggon davante. Sopra del capo aveva una scrittura Che tutta e\ de oro, e tale era il tenore: #+ Se io vi potessi in questa dipentura Mostrare espressa la virtu\ del core, Non avria il mondo piu\ bella figura, Ne/ piu\ reale e piu\ degna de onore; A dessignarla non posi io la mano, Pero\ che avanza lo intelletto umano. $+ Or Brandimarte cio\ stava a mirare, Tanto che quella dama venne giu\, La dama che al veron gli ebbe a cennare. Come fo gionta, disse: #_ Che fai tu, Perdendo il tempo a tal cosa guardare, E non attende a quel che monta piu\? A te bisogna quel sepolcro aprire, O qua rinchiuso di fame morire. Ma, poi che quel sepolcro sera\ aperto, Ben ti bisogna avere il core ardito, Perche/ altrimenti seresti deserto, E te con noi porresti a mal partito. $_ Or, bei segnori, io mi credo di certo Che abbiate a male il canto che e\ finito, Che/ non aveti al fine il tutto inteso; Ma a l' altra stanza lo diro\ disteso. Il vago amor che a sue dame soprane Portarno al tempo antico e cavallieri, E le battaglie e le venture istrane, E l' armeggiar per giostre e per tornieri, Fa che il suo nome al mondo anco rimane, E ciascadun lo ascolti volentieri; E chi piu\ l' uno, e chi piu\ l' altro onora, Come vivi tra noi fossero ancora. E qual fia quel che, odendo de Tristano E de sua dama cio\ che se ne dice, Che non mova ad amarli il cor umano, Reputando il suo fin dolce e felice, Che, viso a viso essendo e mano a mano E il cor col cor piu\ stretto alla radice, Ne le braccia l' un l' altro a tal conforto Ciascun di lor rimase a un ponto morto? E Lancilotto e sua regina bella Mostrarno l' un per l' altro un tal valore, Che dove de' soi gesti se favella, Par che de intorno il celo arda de amore. Traggase avanti adunque ogni donzella, Ogni baron che vo^l portare onore, Et oda nel mio canto quel ch' io dico De dame e cavallier del tempo antico. Ma dove io vi lasciai, voglio seguire, Di Brandimarte e sua forte aventura, Qual quella dama di cui vi ebbi a dire, Avea condotto a quella sepoltura, Dicendo: #_ Questa converrai aprire, Ma poi non ti bisogna aver paura. Conviente essere ardito in questo caso: A cio\ che indi uscira\, darai un baso. $_ #_ Come! Un baso? $_ rispose il cavalliero. #_ E\ questo il tutto? Ora e\vvi altro che fare? Non ha lo inferno un demonio si\ fiero, Che io non gli ardisca il viso de accostare. Di queste cose non aver pensiero, Che dece volte lo avero\ a basare, Non che una sola, e sia quello che voglia; Orsu\! Che quella pietra indi si toglia. $_ Cosi\ dicendo prende uno annel d' oro, Che avea il coperchio de la sepoltura, E, riguardando quel gentil lavoro, Vide intagliata al marmo una scrittura, La qual dicea: #+ Fortezza, ne/ tesoro, Ne/ la beltate, che si\ poco dura, Ne/ senno, ne/ lo ardir puo\ far riparo, Ch' io non sia gionta a questo caso amaro. $+ Poi che ebbe Brandimarte questo letto, La sepoltura a forza disserrava, Et uscinne una serpe insino al petto, La qual forte stridendo zuffelava; Ne gli occhi accesa e d' orribil aspetto, Aprendo il muso gran denti mostrava. Il cavalliero, a tal cosa mirando, Se trasse adietro e pose mano al brando. Ma quella dama cridava: #_ Non fare! Non facesti, per Dio, baron giocondo! Che/ tutti ci farai pericolare, E caderemo a un tratto in quel profondo. Or quella serpe ti convien baciare, O far pensier de non essere al mondo: Accostar la tua bocca a quella un poco, O morir ti conviene in questo loco. $_ #_ Come? Non vedi che e denti digrigna? $_ Disse il barone #_ e tu vo^i che io la basi? Et ha una guardatura si\ maligna, Che de la vista io mi spavento quasi. $_ #_ Anci $_ disse la dama #_ ella t' insigna Come de\i fare; e molti altri rimasi Son per viltate in quella sepoltura: Or via te accosta e non aver paura. $_ Il cavallier se accosta, e pur di passo, Che/ molto non gli andava volentiera; Chinandosi alla serpe tutto basso, Gli parve tanto terribile e fiera, Che venne in viso morto come un sasso, E disse: #_ Se fortuna vo^l ch' io pe\ra, Tanto fia un' altra fiata come adesso, Ma dar cagion non voglio per me stesso. Cosi\ certo fossi io del paradiso, Come io son certo, chinandomi un poco, Che quella serpe me trara\ nel viso, O pigliarami a' denti in altro loco. Egli e\ proprio cosi\ come io diviso! Altri che me fia gionto a questo gioco, E da\mmi quella falsa tal conforto Per vendicare il suo baron che e\ morto. $_ Dicendo questo indietro se retira, E destinato e\ piu\ non se accostare. Or ben forte la dama se martira, E dice: #_ Ahi vil baron! che credi fare? Tanta tristezza entro il tuo cor se agira, Che in grave stento te fara\ mancare. Del suo scampo lo aviso, e non mi crede! Cosi\ fa ciascadun che ha poca fede. $_ Or Brandimarte per queste parole Pur torno\ ancora a quella sepoltura, Benche/ e\ pallido in faccia, come suole, E vergognosse de la sua paura. L' un pensier gli disdice, e l' altro vo^le, Quello il spaventa, e questo lo assicura; Infin tra l' animoso e il disperato A lei se accosta, e un baso gli ebbe dato. Si\ come l' ebbe alla bocca baciata, Proprio gli parve de toccare un giaccio; La serpe, a poco a poco tramutata, Divenne una donzella in breve spaccio. Questa era Febosilla, quella fata Che edificato avea l' alto palaccio E il bel giardino e quella sepoltura Ove un gran tempo e\ stata in pena dura. Perche/ una fata non puo\ morir mai, Sin che non gionge il giorno del iudicio, Ma ben nella sua forma dura assai, Mille anni, o piu\, si\ come io aggio indicio Poi (si\ come di questa io ve contai, Qual {add} fabricata {/add; fabbricata Z S} avea il bello edificio) In serpe si tramuta e {add} stava {/add; stavi Z S} tanto Che di basarla alcun se doni il vanto. Questa, tornata in forma de donzella, Tutta de bianco se mostra vestita, Coi capei d' oro, a meraviglia bella: Gli occhi avea neri e faccia colorita. Con Brandimarte piu\ cose favella, E proferendo a dimandar lo invita Quel che ella possa de incantazi%one, De affatar l' arme o vero il suo ronzone. E molto il prega che quell' altra dama Che quivi era presente tuttavia, Qual Doristella per nome se chiama, Voglia condur su il mar de la Soria, Perche/ il suo vecchio patre altro non brama, Che piu\ filiol ne/ figlia non avia. Re de la Liza e\ quel gran barbasoro, Ricco de stato e de arme e de tesoro. Brandimarte accetto\ la prima offerta De aver l' arme e il destrier con fatasone, Poi Doristella, si\ come ella merta, Condurre al patre con salvazi%one. La porta del palagio ora era aperta, Batoldo avanti a quello era, il ronzone: Quando del drago il gigante il percosse, Cadde alla terra, e piu\ mai non se mosse. E morto la\ seri\a veracemente, Se Febosilla, quella bella fata, Soccorso non l' avesse incontinente Con succi de erbe et acqua lavorata. Poscia l' usbergo e la maglia lucente Et ogni piastra ancora ebbe incantata. Da poi ch' ebbe fornita ogni dimanda, Da lei se parte e a Dio la ricomanda. In mezo alle due dame il cavalliero Via tacito cavalca e non favella, Pero\ che forse aveva altro pensiero; Onde, ridendo alquanto, Doristella Disse: #_ Io me avedo ben che egli e\ mestiero Che io sia colei che con qualche novella Faccia trovar lo albergo piu\ vicino, Perche/ parlando se ascurta il camino. E piu\ ancor tanto volentier lo faccio, Che io vi dimostraro\ per qual maniera Fosse condotta dentro a quel palaccio, Ove son stata un tempo pregioniera; Et a voi credo che sera\ solaccio, Et odireti molto volentiera Come a un zeloso mai scrimir non {t} vale, {/t S; vale Z} E ben gli sta, che/ e\ degno d' ogni male. Due figlie ebbe mio patre Dolistone. La prima, essendo ancora fanciullina, Fu rapita per forza da un ladrone, Nel litto de la Liza alla marina. Per sposa era promessa ad un barone, Filiol del re d' Armenia, la tapina, Ne/ novella di lei se seppe mai, Benche/ cercata sia nel mondo assai. $_ Or Fiordelisa, interrompendo il dire, Il nome de la matre adimandava: Ma Brandimarte, che ha voglia de odire, Un poco sorridendo se voltava, #_ Per Dio! $_ dicendo #_ lasciala seguire, Che/ voglia ho de ascoltar, se non ti grava. $_ E Fiordelisa, che lo amava assai, Queta si stette e non parlo\ piu\ mai. E Doristella segue: #_ Il damigello Nel quale era promessa mia germana, Dapoi crescette, fatto molto bello; Ne/ sendo una sua terra assai lontana Ove stava il mio patre ad un castello, Spesso veniva la persona umana A visitarlo, si\ come parente, Ben che non sia per quello inconveniente. Andando e ritornando a tutte l' ore Di quanto dimorammo in quel paese, Mi piacque si\, ch' io fui presa d' amore, Veggendol si\ ligiadro e si\ cortese. Lui de altra parte ancor me avea nel core; Forse perche/ io l' amava se raccese, Che/ quello e\ ben di ferro et ostinato Il qual non ama essendo ponto amato. Lui pur spesso ritorna a quel girone, E sempre il patre mio molto lo onora; In fin gli aperse la sua intenzi%one, Credendo che io non sia promessa ancora; Ma quel malvaggio, perfido, bricone, Che occidesti al palazo in sua malora, Me avea richiesta proprio il giorno istesso, E 'l vecchio patre me gli avea promesso. Quando cio\ seppi, tu debbi pensare S' io biastemavo il celo e la natura; E diceva: ## Macon non potria fare Che mai segua sua legge e sua misura, Poi che mi volse femina creare, Che/ nasciemo nel mondo a tal sciagura, Che occelli e fiere et ogni altro animale Vive piu\ franco et ha di noi men male. E ben ne vedo lo esempio verace: La cerva e la colomba tuttavia Ama a diletto e segue chi gli piace, Et io son data a non so chi se sia. Crudel Fortuna, perfida e fallace! Godera\ adunque la persona mia Questo barbuto, e terrammi suggetta, Ne/ vedro\ mai colui che mi diletta? Ma non sera\ cosi\, sazo di certo, Che/ ben vi sapro\ io prender riparo. Se ogni proverbio e\ veramente esperto, L' un pensa il giotto e l' altro il tavernaro. Se lo amor mio potro\ tenir coperto Che non lo intenda alcuno, io lo avro\ caro, E non potendo, io lo faro\ palese; Per un bon giorno io non stimo un mal mese. $# Io faceva tra me questo pensiero Che io te ragiono; ma il termine ariva Che andarne sposa mi facea mestiero. Io non rimasi ne/ morta ne/ viva, Che/ Teodoro, il mio bel cavalliero, Si resta a casa, et io di lui son priva. A Bursa andar convengo, in Natollia, Ove mi mena la fortuna ria. Sobasso era di Bursa il mio marito, E turcomano fo de nazi%one; Gagliardo era tenuto e molto ardito, Ma certo che nel letto era un poltrone, Abenche/ a questo avria preso partito, Pur che io gli avessi avuto occasi%one; Ma tanto sospettoso era quel fello, Che me guardava a guisa de un castello. E giorno e notte mai non me abandona, Ma sol de basi me tenea pasciuta, Ne/ il matino, o la sera, ni di nona Concede che dal sole io sia veduta, Perche/ non se fidava di persona. Ma sempre a' bisognosi il celo aiuta, Che/ al mio marito fo forza di andare Con gli altri Turchi che han passato il mare. Passarno i Turchi contra Avatarone, Che avea de' Greci il dominio e l' imperio, E mio marito con molte persone Convenne andar, non gia\ per disiderio. Avea egli un schiavo chiamato Gambone, Che a riguardar proprio era un vituperio; L' uno occhio ha guerzo e l' altro lacrimoso, Troncato ha il naso, et e\ tutto rognoso. A questo schiavo me ricomandava, Che de la mia persona avesse cura, E con aspre parole il minacciava De ogni tormento e de ogni pena dura, Se dal mio lato mai se discostava Ne/ tutto il giorno, ne/ la notte oscura. Or pensa, cavallier, come io rimase; De la padella io caddi nelle brase. Venne de Armenia in Bursa Teodoro, Quale io te dissi che cotanto amava, Per dare a l' amor nostro alcun ristoro; Et alla via piu\ presto se attaccava, Che/ portato avea seco assai tesoro, Onde Gambone in tal modo acquetava, Che ciascaduna notte a suo diletto L' uscio gli aperse e meco il pose in letto. Ora intervenne fuor di nostra stima Che 'l mio marito gionse avanti al giorno, Et alla nostra porta picchio\, prima Che in Bursa se sapesse il suo ritorno. Or per te stesso, cavalliero, estima Se ciascadun de noi ebbe gran scorno, Io, dico, e Teodoro, il caro amante, Quale era gionto forse una ora avante. Incontinente il cognobbe Gambone Alla sua voce, che/ l' aveva in uso, E disse: #" Noi siam morti! Ecco il patrone! $" E Teodoro ancor esso era confuso. Ma io mostrai del scampo la ragione, E pianamente lo condussi giuso, Dicendo a lui: #" Come entra il mio marito, Cosi\ di botto fuor serai uscito. Come sei fuora e ch' e\n calati i panni, Chi avria giamai di questo fatto prova? Se mio marito ben crida mille anni, A confessar non creder che io me muova. Lui dira\ brontolando: #+ Tu me inganni $+. Trista la musa che scusa non trova! Se giuramento ce puo\ dare aiuto, Alla barba l' avrai, becco cornuto! $" Or mio marito alla porta cridava, Di tanta indugia avendo gia\ sospetto; E Gambone adirato biastemava E diceva: #" Macon sia maledetto! Che/ de la chiave in mal ponto cercava, Quale ho smarito alla paglia del letto. Ecco, pur l' ho trovata in sua malora; A voi ne vengo senza altra dimora. $" Cosi\ dicendo alla porta callava, E quella con romore in fretta apriva; E, come Usbego, il mio marito, entrava, Alle sue spalle Teodoro usciva. Or, mentre che la porta si serrava, Il mio marito in camera saliva, Et io queta mi stava come sposa, Mostrandomi adormita e sonocchiosa. E mio marito prese un lume in mano, Cercando sotto al letto in ogni canto; Et io tra me dicea: #" Tu cerchi invano, Che/ pur le corne a mio piacer ti pianto. $" Di qua di la\ cercando quel villano Ebbe veduto ai pie\ del letto un manto; Da Teodoro il manto era portato: Per fretta poi l' avea dimenticato. Ma come Usbego il manto ebbe veduto, Grandi oltraggi me disse e diverse onte; Per cio\ non ebbi io l' animo perduto, Ma sempre li negai con bona fronte. Ora a Gambone bisognava aiuto, Il qual {add} merce/ {/add; merce\ Z} chiedea con le man gionte, E credo che la cosa volea dire; Ma lui turbato mai nol volse odire. E gia\ per tutto essendo chiaro il giorno, Agli altri schiavi lo fece legare, E a lor commesse che, suonando il corno, Si\ come alla iustizia si suol fare, Poi che lo avean condotto alquanto intorno Sopra alla forche il debbano impiccare; E tutti quei sergenti a mano a mano, Per far cio\ che e\ comesso, se ne vano. Ma quel zeloso accolta avia tant' ira, Che desi%ava de vederlo impeso; Tanto l' orgoglio e 'l sdegno lo martira, Che nol vedendo mai non avria creso, E ratto a quei sergenti dietro tira; Ma prima in dosso un tabarone ha preso E un capellaccio de un feltron crinuto, Perche/ dagli altri non sia cognosciuto. Ora Teodoro, essendo gia\ scappato E per questo cessata la paura, Del manto se amento\ che avia lasciato, E comincio\ di questo ad aver cura. Cercando de Gambone in ogni lato, Lo ritrovo\ con tal disaventura Che pegio non puo\ star, se non e\ morto; Ma de Usbego ancor fu presto accorto, Qual dietro gli veniva a passo lento, Nascoso e inviluppato al tabarone. Il giovanetto fu de cio\ contento, E con gran furia va verso Gambone; Un pugno dette al naso e un altro al mento, E mena gli altri, e diceva: #" Giottone! Ladro! ribaldo! Or va, che/ a questo ponto, Come tu merti, alla forca sei gionto. Ove e\ il mio manto, di', falso strepone, Qual me involasti iersera a l' osteria? Or fusse qua vicino il tuo patrone, Che ben de l' altre cose gli diria, E pur voria saper se di ragione Tu debbi satisfar la roba mia; E quando io non ne possa aver piu\ merto, De pugni vo' pagarmi, io te fo certo. $" Ne/ avea compite le parole apena, Che un altro pugno gli pose su il viso, Sempre dicendo: #" Ladro da catena! Ben ti smacaro\ gli occhi, io te ne aviso $"; E tutta fiata pugni e calci mena, Si\ che la cosa non ando\ da riso Per questa fiata al tristo de Gambone, Benche/ cio\ fusse sua salvazi%one. Perche/ Usbego, mirando alla apparenza Del giovinetto che mostrava fero, Alle parole sue dette credenza, Come avrian fatto molti de ligiero; Pero\ che non avea sua cognoscenza, Ne/ avria stimato mai che un forestiero Fusse venuto tanto di lontano Per quello amor che lui stimava vano. Senza altramente palesarse ad esso, Fece Gambone adietro ritornare, E poi secreto il dimando\ lui stesso Cio\ che con quel garzone avesse a fare. Il schiavo, che era un giotto molto espresso, Seppe la cosa in tal modo narrare, Che per un dito fo creduto un braccio, E campo\ lui, e me trasse de impaccio. Non creder gia\ che per questa paura Che era incontrata, io me fossi smarita, Ma piu\ volte me posi alla ventura Dicendo: ## Agli animosi il celo aita. $# E benche/ sempre uscisse alla sicura, Non fu la zelosia giamai partita Dal mio marito, e crebber sempre sdegni, E pur comprese al fin de' brutti segni. E di guardarme quasi disperato, Se consumava misero e dolente, Sempre cercando un loco si\ serrato Che non se apresse ad anima vivente; E trovo\ al fine il palazo incantato, Ma non vi era il gigante, ne/ il serpente, Qual ritrovasti alla porta davante: Questo a sua posta fece un negromante. $_ Ragionava in tal modo Doristella Et altre cose assai volea seguire, Che/ non era compita sua novella, Quando vide de un bosco gente uscire, Ch' e\ parte a piedi e parte in su la sella: Tutti erano ladroni, a non mentire. Ciascaduno di lor crida piu\ forte: #_ Colui s' affermi, che non vo^l la morte! $_ #_ Stative adunque fermi in su quel prato, $_ Rispose a quei ladroni il cavalliero #_ Che/, se alcun passa qua dal nostro lato, De aver bone arme gli fara\ mestiero! $_ Un che tra lor Barbotta e\ nominato, Senza ragione e dispietato e fiero, Gli vien cridando adosso con orgoglio: #_ Se Dio te vo^l campare, et io non voglio. $_ Quel vien correndo e ponto non se arresta, Ma verso lui se affronta Brandimarte, E tocca de Tranchera in su la testa, E sino al petto tutto quanto il parte. Ma gli altri a lui ferirno con tempesta, E se quelle arme non fosser per arte Tutte affatate, quanto ne avea intorno, Campato non seri\a giamai quel giorno; Che/ tutti quei ladroni aveva adosso. Non fo mai gente tanto maledetta; Chi lo ha davante e chi dietro percosso, E piu\ de colpeggiar ciascuno affretta; Ma sopra a tutti gli altri un grande e grosso: Questo era Fugiforca dalla cetta, Qual, da che nacque, e\ degno di capestro, Ma non se puo\ toccar, tanto era adestro. Costui girando intorno al cavalliero Con quella cetta spesso lo molesta; E poi se volta e via va si\ legiero, Che cosa non fo mai cotanto presta. Salta piu\ volte in groppa del destriero, E prese Brandimarte nella testa; Ma come vede che gli volta il brando, Salta alla terra e via fugge cridando. Gia\ il cavalliero a lui piu\ non attende, E sopra a gli altri fa la sua vendetta, E chi per lungo e chi per largo fende: Ormai non vi e\ di lor pezzo ne/ fetta. Poi dietro a Fugiforca se distende; Ma quel ribaldo ponto non aspetta, E de quel corso ben seri\a scampato; Ma fortuna lo gionse e il suo peccato. Perche/, saltando sopra ad una macchia, Lo prese ad ambo e piedi una berbena, Come se prende al laccio una cornacchia, E lei battendo l' ale se dimena, E tra' del becco e se dispera e gracchia. Ma Fugiforca non e\ preso a pena, Che Brandimarte, qual correndo il caccia, Gli gionse adosso e ben stretto lo abraccia. E non lo volse de brando ferire, Parendo a lui che fosse una viltate, Ma ben diceva: #_ Io te faro\ morire, Si\ come tu sei degno in veritate. Meco legato converrai venire, Tanto che io trovi o castello o citate; E la\ per la iustizia del segnore Serai posto alle forche a grande onore. $_ E Fugiforca piangendo dicia: #_ Quel che ti piace ormai po^i di me fare; Ma ben ti prego per tua cortesia, Che non mi mena alla Liza in sul mare. $_ Ora, segnori e bella compagnia, Finito e\ nel presente il mio cantare. A l' altro racontar non sero\ lento; Dio faccia ciascadun lieto e contento. Un dicitor che avea nome Ari%one, Nel mar Cicili%ano, o in quei confini, Ebbe voce si\ dolce al suo sermone, Che allo ascoltar venian to/ni e delfini. Cosa e\ ben degna de amirazi%one Che 'l pesce in mar ad ascoltar se inchini; Ma molto ha piu\ di grazia la mia lira, Che voi, segnori, ad ascoltar retira. Cosi\ dal cel lo stimo in summa graccia, E la mente vi pongo e lo intelletto Nel dire a modo che vi satisfaccia, E che vi doni allo ascoltar diletto. Pur ho speranza che io non vi dispiaccia, Come mi par comprender ne lo aspetto, Se ne la istoria ancora io me ritorni Di cui gran parte ho detto in molti giorni. Nel canto qui di sopra io vi lasciai Di Fugiforca, il quale, essendo preso Per Brandimarte, menava gran guai, Et essendosi a lui per morto reso, Con molto pianto e con lacrime assai, Standoli avante alla terra disteso, Per pietate e {add} merce/ {/add; merce\ Z} l' avea a pregare Che non lo voglia alla Liza menare. #_ Se tu mi meni alla Liza, barone, Di me fia fatta tanta crudeltate, Che, ancor che ben la merti di ragione, Insino a' sassi ne verra\ pietate. Deh prendate di me compassi%one! Non che io voglia campare in veritate, Ch' io merto che la vita mi sia tolta, Ma non voria morir piu\ de una volta. E la\ di me fia fatto tanto strazio Quanto mai se facesse di persona; Quel re del mio morir non sera\ sazio, Che/ troppo ingiuriai la sua corona; E forse questo me ha condotto al lazio, Si\ come ne' proverbi se ragiona E come esperi%enzia fa la prova: Peccato antiquo e penitenzia nova. Perche/, essendo una volta alla marina, Qual da la Liza poco se alontana, Perodia vi era in festa, la regina, Con Dolistone, intorno a la fontana; Io, la\ correndo, presi una fantina, Qual poi col conte di Rocca Silvana Cambiai ad aspri, e fo^rno da due miglia: Questa di Dolistone era la figlia. Ne/ {add} puote/ {/add; puote\ Z} il re, ne/ altrui donarli aiuto, Si\ che a Rocca Silvana la portai, A benche/ da ciascun fui cognosciuto, Pero\ che in quella casa me allevai; Ne/ cotal tema poi me ha ritenuto, Ma robbato ho il suo regno sempre mai, Dispogliando ciascun sino alla braga; Ma questo e\ quello che per tutto paga. $_ Pensando Brandimarte a cotal dire, Ne fu contento assai per piu\ cagione; Pur disse al ladro: #_ Il te convien venire In ogni modo a quel re Dolistone, Qual, come merti, ti fara\ punire. $_ Cosi\ dicendo il lega in su un ronzone, Con gran minaccie se ponto favella, Poi la sua briglia dette a Doristella. E non parlava quel ladron ni%ente, Perche/ di Brandimarte avia paura. Or, giongendo alla Liza, una gran gente Trovarno armata sopra alla pianura; E Doristella fu molto dolente, #_ Lassa! $_ dicendo #_ in che disaventura Ritrovo il patre a questo mio ritorno, Che e\ posto in guerra et ha l' assedio intorno! $_ E facendo di cio\ molti pensieri, Scoprisse avanti da cento pedoni E circa da altretanti cavallieri, I qual cridarno: #_ Voi sete pregioni! $_ #_ Altro che zanze vi sara\ mestieri, $_ Rispose Brandimarte #_ o compagnoni, A volerci pigliar cosi\ di fatto! $_ Tra le parole il brando avia gia\ tratto. E gionse per traverso un contestabile, Quale era grande e portava la ronca, Armato a maglia e piastre innumerabile; Ma tutto a un tratto Tranchera lo tronca. Ne/ mai se vidde un colpo piu\ mirabile, Che/ la persona sua rimase monca De un braccio e de la testa a un tratto solo, E l' uno e l' altro in pezzi ando\ di volo. Ben ne fece de gli altri simiglianti, E de' maggior, se Turpin dice il vero, Onde gli pose in rotta tutti quanti: Beato se {add} tenia {/add; teni\a Z} chi era il primiero, Quel dico che a fuggire era davanti; E non tenean ne/ strata ne/ sentiero, Ne/ in dietro a riguardar se voltan ponto; Fugge ciascuno insin che al ponto e\ gionto. Ora nel campo si leva il romore. #_ A l' arme! a l' arme! $_ ciascadun cridava. Adosso a Brandimarte a gran furore Chi di qua chi di la\ ciascun toccava; E lui ben dimostrava un gran valore, Ma contra tanti poco gli giovava: A suo mal grado quella gente fella Pigliarno Fiordelisa e {t} Doristella; {/t S; Doristella. Z} E seco Fugiforca, quel ladrone: Via ne 'l menarno, come era legato; Ma non cessa pero\ la questi%one, Che/ Brandimarte al tutto e\ disperato, E fa col brando tal destruzi%one, Che sino alla cintura e\ insanguinato, Ne/ puote il suo destrier levare il passo Per la gran gente morta in quel fraccasso. Ma per le dame e\ cio\ poco ristoro, Quale ha perdute quel baron gagliardo. Lasciamo lui, e torniamo a coloro Che via ne le menarno senza tardo; E come avanti fo^rno a Teodoro, Lui cognobbe Doristella al primo guardo, E lei cognobbe anch' esso al primo tratto, Come lo vidde, e cio\ non fu gran fatto; Pero\ che ciascadun tanto se amava, Che altra sembianza non avea nel core. Or quando l' un quell' altro ritrovava, Non fu allegrezza al mondo mai maggiore; E ciascadun piu\ stretto se abracciava, Dandosi basi si\ caldi de amore, Che ciascadun che intorno era in quel loco, Morian de invidia, si\ parea bel gioco. Poi lui conta alla dama la ragione Perche/ alla Liza era intorno acampato, E facea guerra al patre Dolistone, Dicendo: #_ Io venni come disperato, A lui dando la colpa e la cagione Che via te conducesse il renegato, Dico Usbego, che Dio gli doni guai! Ove ne andasti, non seppi piu\ mai. $_ La dama ad ogni parte gli respose, E de\gli alla risposta gran conforto, E la ventura sua tutta gli espose, E come Usbego a quel palagio e\ morto; Poi lo pregava con voce piatose Che divetasse ad ogni modo il torto Quale era fatto a quel baron valente, Che fo assalito da cotanta gente. Per il dover fo lui mosso di saldo, E piu\ dai preghi della giovanetta, Onde da lui mando\ presto uno araldo, Ove era la battaglia, e un suo trombetta; E la\ trovarno Brandimarte caldo, Piu\ che ancor fosse, a far la sua vendetta. Ma come il real bando a ponto intese, Lascio\ la zuffa, tanto fu cortese. E venne con gli araldi in compagnia De Teodoro al pavaglion reale (Costui gia\ il regno de gli Armeni avia; Morto era il patre a corso naturale), E lo trovarno a mezo de la via, Con molta gente e pompa tri%omfale, Intra quelle due dame, ogniuna bella: Qua Fiordelisa e la\ sta Doristella. Ricevutolo in campo a grande onore, Re Teodoro il tutto gli conto\, Cominciando al principio del suo amore, Insino al giorno ove gionti son mo; E poi elesse un degno ambasciatore, Che a Dolistone e Perodia mando\, Per voler pace e amendar quel che e\ fatto, Pur che abbia Doristella ad ogni patto. La cosa era passata in tal travaso Quale io ve ho detto, e tal confusi%one, E Fugiforca e' pur preso e\ rimaso, Che/ un tristo mai non trova bon gallone. Legato ancor si stava quel malvaso Con le mano alle rene in sul ronzone, E Brandimarte, che l' ebbe trovato, Dimando\ al re che fusse ben guardato. Onde per questo con gran diligenza Era guardato e con molta custodia, Co' e ferri a' piedi, e non stava mai senza, E per il suo mal far ciascadun lo odia. Ora lo ambasciador con riverenza A Dolistone e a sua dama Perodia Parlo\ si\ bene, e fu tanto ascoltato, Che quel concluse per che egli era andato. E torno\ fora con lo olivo in testa, Che era un signale a quel tempo di pace, E poi la somma espose de sua inchiesta, Qual sopra a gli altri a Doristella piace. Tutti alla Liza intrarno con gran festa; Ma Fugiforca, quel ladro fallace, Via era condutto lui con mal pensiero Tra' carri%aggi, sopra ad un somiero. Ne la Liza per tutto e\ cognosciuto: Chi gli cridava dietro e chi da lato, E lui dicea: #_ Macon mi doni aiuto, Che/ un altro non fu mai peggio trattato! $_ E Brandimarte, poiche/ fu venuto Avanti al re, quel ladro ha presentato. Il re mirando lui se meraviglia: Ben sa che e\ quel qual gia\ tolse la figlia. Ma che sia preso si meravigliava, Cognoscendol si\ presto e tanto astuto. De la filiola poi lo adimandava, Se sapea lui quel che fosse avenuto; Et esso a pieno il tutto racontava, Insin che il prezio ne avea recevuto: Ma che poi se partitte incontinente, Si\ che di lei piu\ non sapea ni%ente. #_ Per prezzo al conte di Rocca Silvana Io la vendetti; $_ diceva il ladrone #_ Da mille miglia e\ forse di lontana Di sopra a Samadri\a la regi%one. $_ E Brandimarte alor con voce umana Adimandava quel re Dolistone Se ebbe segnal la figlia, che abbia a mente; Ma Perodia rispose incontinente. Come Perodia ha Brandimarte odito, Rispose al dimandar senza dimora; Ne/ aspetta che parlasse il suo marito, Ma disse: #_ Se mia figlia vive ancora, Sotto alla poppa destra forse un dito Ha per segnale una voglia di mora; De una mora di celso, ora me amento, Essendo di lei pregna ebbi talento. La\ mi toccai; et ella, come nacque, Sotto la poppa avea quel segno nero; Ne/ mai per medicine o forza de acque Se {add} puote/ {/add; puote\ Z} via levare, a dire il vero. $_ Or Brandimarte, si\ come ella tacque, Comincio\ poi la istoria, il cavalliero; A parte a parte il fatto gli divisa, Si\ come sua filiola e\ Fiordelisa. E fatto gli altri tuor di quel cospetto, Pero\ che Fiordelisa avia vergogna, La fece avanti a loro aprire il petto, Onde piu\ prova ormai non vi bisogna. Perodia e Dolistone han tal diletto Qual have il pregionier, quando si sogna La notte esser impeso e la dimane Poi viene assolto e in liberta\ rimane. Ciascuno ha pien di lacrime la faccia. Piangendo gli altri ancor di tenerezza, La matre lei e lei la matre abraccia: Ogniuna di basarse ha maggior frezza. A Fugiforca fu fatta la graccia, Pregando ogniom per lui nella allegrezza; Cridi e lieti romori a gran divizia, Campane e trombe suonan di letizia. Poi furno queste cose divulgate Fuor nella terra e per tutto il paese, E con tri%omfo le noce ordinate Con real festa a ciascadun palese, E le due damigelle fo^r sposate, Che/ Fiordelisa Brandimarte prese, E Teodor si prese Doristella; Non so se alcun trovo\ la sua polcella. Che/ tanto poche ne vanno a marito, Che meglio un corvo bianco se dimostra; Ma queste due, si\ come aveti odito, Eran pur state avanti a questo in giostra. Usavasi a quel tempo a tal partito, Ora altrimente nella etade nostra, Che/ ciascuna perfetta si ritrova; E chi nol crede, lui cerchi la prova. Ora queste due dame che io ve dico Catolice e\nno entrambe e cristi%ane, E Macone avean tolto per nimico E le sue legge scelerate e vane; Onde ne andarno dal suo patre antico, E si\ con prieghi e con parole umane Se adoperarno, per la Dio mercede, Che lo tornarno alla perfetta fede. Dapoi la matre con minor fatica Ridussero anco a sua credenza santa; E la corte da poscia a tal rubrica Se attenne e la citate tutta quanta; E, senza che di questo piu\ vi dica, La grazia de le dame fu cotanta, Che de i monti d' Armenia alla marina Corse ciascuno alla legge divina. Ora de ricontar non e\ mestiero La festa, che ogni di\ cresce maggiore; Qua se fa giostra, e la\ fassi torniero, Altrove e\ suono e danza con amore; Ma pur sta Brandimarte in gran pensiero, Ne/ se puo\ il conte Orlando trar del core. In fine un giorno la sua opini%one Fie' manifesta in tutto a Dolistone, Mostrando quasi aver fermato il chiodo Che in ogni forma Orlando vo^l seguire. Diceva Dolistone: #_ Io non te lodo Per questo tempo adesso il dipartire; Ma, se pur de lo andare ad ogni modo Sei destinato, non so piu\ che dire, Ne/ di cio\ la cagion piu\ te dimando, Il gire e il star sera\ nel tuo comando. $_ Una galea dapoi fu apparecchiata Di molte che ne avea quel barbasoro; Questa era la reale e meglio armata, Che avea la poppa tutta missa ad oro. Brandimarte e sua dama e piu\ brigata La\ se allogarno, con molto tesoro Qual Perodia ha donato alla sua figlia, Rubin, smeraldi e perle a meraviglia; Tra l' altre cose il piu\ bel pavaglione Che se trovasse in tutta la Soria. Ora spira levante, e il suo patrone Gli acerta che ogni indugia e\ troppo ria; Onde se accomandarno a Dolistone E a tutti gli altri, e vanno alla sua via, Passando Rodi e la isola di Creti; Col vento in poppa van zoiosi e lieti. Ma il navicare e nostra vita umana De una fermezza mai non se assicura, Pero\ che la speranza al mondo e\ vana, Ne/ mai bon vento lungamente dura; Qual ora si levo\ da tramontana, Chiamando il Greco, che e\ mala mistura A cui di Creti vo^l gire in Cicilia; L' aria se anera e l' acqua si scombilia. Dicea il parone: #_ Il cel turbato e\ meco, E non me inganno gia\, ma ben me sforza, Perche/ io vorebbi ne la taza il Greco, E lui me 'l dona ne la vela a l' orza. Io non posso alla zuffa durar seco: Ove gli piace, convien che io mi torza. $_ Poi dice a Brandimarte: #_ A dir il vero, Con questo vento in Franza andar non spero. Africa e\ quivi dal lato marino, Se drittamente ho ben la carta vista, E noi volteggiaremo nel camino, Che/, quando non se perde, assai s' acquista. Forse mutara\ il vento, Dio divino! E cessara\ questa fortuna trista; Pregar si puote che un siroco vegna, Qual ci conduca al litto de Sardegna. $_ Parlava quel parone in cotal sorte, Chiedendo quel che egli avrebbe voluto, Ma tramontana ognior cresce piu\ forte, E 'l mar gia\ molto grosso e\ divenuto; Onde ciascun per tema de la morte Facendo voti a Dio dimanda aiuto; Ma lui non li essaudisce e non li ascolta, E sottosopra il mar tutto rivolta. Pioggia e tempesta giu\ l' aria riversa, E par che 'l celo in acqua se converta, E spesso alla galea l' onda atraversa, Battendo cio\ che trova alla coperta. Vien la fortuna ogniora piu\ diversa, E spaventosa, orribile et incerta, Pur col vento che io dissi, tuttavia, Sin che condotti gli ebbe in Barbaria. Presso Biserta, al capo di Cartagine, Son gionti, ove gia\ fu la gran citade Che ebbe di Roma simigliante imagine, E quasi parti\ seco per mitade; Di lei non se vede or se non secagine, Persa e\ la pompa e la civilitade; E gran tri%omfi e la superba altura Tolti ha fortuna, e il nome apena dura. Or, come io dissi, il franco Brandimarte Fu gionto per fortuna in questo porto. Ma un fie' comandamento in quelle parte Che ogni cristian che ariva ivi, sia morto; Perche/ una profecia trovarno in carte, Che in fine, al lungo andare o in tempo corto, Da un re de Italia fia la terra presa, Per cui da poi sera\ la Africa incesa. E Brandimarte, che il tutto sapea, Non volse palesarse per ni%ente, Avengache/ di se/ poco temea, Ma si\ de la sua dama e d' altra gente. A tutti disse cio\ che far volea, Ma poi discese in terra incontinente, E presentossi allo amiraglio avante, Dicendo come e\ figlio a Manodante; E come vien da le Isole Lontane, Per vedere Agramante e la sua corte, Et a provarse a sue gente soprane, Qual son laudate al mondo tanto forte; Onde lo prega che quella dimane Lo faccia accompagnar con bone scorte, Sin che a Biserta sia salvo guidato, Proferendosi a cio\ de esser ben grato. E lo amiraglio, che era assai cortese, Lo fece accompagnar di bona voglia; E Fiordelisa di nave discese E molta altra brigata con gran zoglia. Verso Biserta la strada si prese, Et arivarno senza alcuna noglia Vicino alla citate una matina, E la\ ferma^rsi a canto alla marina. Dapoi che ebbe donato molto argento A questi che gli han fatto compagnia, Coi suoi se raguno\ baldo e contento Sopra una larga e verde prataria, Ove dal mar veni\a suave vento, Tra molte palme che quel prato avia. Sotto di queste senza altra tenzone Fece adricciare il suo bel pavaglione. Questo era si\ legiadro e si\ polito, Che un altro non fu mai tanto soprano. Una Sibilla, come aggio sentito, Gia\ stette a Cuma, al mar napolitano, E questa aveva il pavaglione ordito E tutto lavorato di sua mano; Poi fo portato in strane regi%one, E venne al fine in man de Dolistone. Io credo ben, Segnor, che voi sappiati Che le Sibille fo^r tutte divine, E questa al pavaglione avea signati Gran fatti e degne istorie pellegrine E presenti e futuri e di passati; Ma sopra a tutti, dentro alle cortine, Dodeci Alfonsi avea posti de intorno, L' un piu\ che l' altro nel sembiante adorno. Nove di questi ne la fin del mondo Natura invidi%osa ne produce, Ma di tal fiamma e lume si\ iocondo, Che insino a l' ori%ente facean luce; Chi avea iustizia e chi senno profondo, Quale e\ di pace, e qual di guerra duce; Ma il decimo di questi dieci volte Le lor virtute in se/ tenea raccolte. Pacifico guerrero e tri%omfante, Iusto, benigno, liberale e pio, E l' altre degne lode tutte quante Che puo\ contribuir natura e Dio. La Africa vinta a lui stava davante Ingenocchiata col suo popol rio; Ma lui de Italia avea preso un gran lembo, Standosi a quella con amore in grembo. E come Ercole gia\ sol per amore Fo vinto da una dama lidi%ana, Cosi\ a lui prese Italia vinta il core, Onde scordosse la sua terra Ispana, E semino\ tra noi tanto valore, Che in ogni terra prossima e lontana Ciascaduna virtu\ che sia lodata O da lui nacque, o fo da lui creata. Ma l' undecimo Alfonso giovanetto, Con l' ale e\ armato, a guisa de Vittoria, Si\ come la natura avesse eletto Uno omo a possidere ogni sua gloria; Che/, volendo di lui con dir perfetto Di ciascuna cosa seguir la istoria, Avria coperto, non che il pavaglione, Ma il mondo tutto in ogni regi%one. Pur vi era ordita alcuna eletta impresa De arme, o di senno, o di guerra, o de amore: Si\ come e\ Italia da' Turchi diffesa Per sua prodezza sola e suo valore; E la battaglia tutta era distesa Di Monte Imperi%ale a grande onore, E le fortezze rui%nate al fondo, Si\ belle che eran di tri%omfi al mondo. Il duodecimo a questo era vicino, Di etate puerile e in faccia quale Seri\a depinto un Febo piccolino, Coi raggi d' oro in atto tri%omfale. Ne l' abito si\ vago e pellegrino, Giongendovi gli strali e l' arco e l' ale, Tanta beltate avea, tanto splendore, Che ogniom direbbe: #" Questo e\ il dio d' Amore. $" Avanti a lui si stava ingenocchiata Bona Ventura, lieta ne' sembianti, E parea dire: #" O dolce figliol, guata Alle prodezze de gli avoli tanti, E alla tua stirpe al mondo nominata; Onde fra tutti fa che tu ti vanti Di cortesia, di senno e di valore, Si\ che tu facci al tuo bel nome onore. $" Molte altre cose a quel gentil lavoro Vi fo^r ritratte, e non erano intese, Con pietre prezi%ose e con tanto oro, Che tutto alluminava quel paese. Di sotto al pavaglione un gran tesoro In vasi lavorati se distese, De smeraldo e zaffiro e di cristallo, Che valeano un gran regno senza fallo. Non vi potrei contare in veritate Il bel lavoro fatto a gentilezza; Ninfe se gli vedeano lavorate, Che eran tanto legiadre a gran vaghezza, Che meritan da tutti essere amate; Vedeansi cavallier di tal prodezza: Quivi erano ritratti a non mentire; Ma a qual fine, alcun non sapria dire. Or Brandimarte presto lo abandona, Come lo vidde a quel campo dricciato; Sopra a Batoldo la franca persona Presso a Biserta se appresenta armato, E con molta baldanza il corno suona. Ne l' altro canto ve sara\ contato Come il fatto passasse e la gran giostra; Dio vi conservi e la Regina nostra. Segnori e dame, Dio vi dia bon giorno E sempre vi mantenga in zoia e in festa! Come io promissi, a ricontar ritorno De Brandimarte, che con tal tempesta Presso a Biserta va suonando il corno Et isfida Agramante e la sua gesta, Dicendo nel suonare: #_ O re soprano, Odi mio suono, e nol tenire a vano. Se non e\ falsa al mondo quella fama La qual per tutto tua virtu\ risuona, E per valore un altro {add} Ecto\r {/add; Ector Z} ti chiama, Perche/ hai de ogni prodeza la corona, Onde per questo ti verisce et ama Tal che giamai non vidde tua persona, Et io tra gli altri certamente sono, Che non te ho visto, et amo in abandono: Fa che risponda a cio\ che se ne dice, O valoroso et inclito segnore, Della tua corte, che e\ tanto felice Che de ogni vigoria mantiene il fiore. A me soletto in su quella pendice Provarli ad un ad un ben basta il core; Ma non so se al pensier cotanto ardito Mancara\ lena, e vengami fallito. $_ Stava Agramante in quel tempo a danzare Tra belle dame sopra ad un verone Che drittamente riguardava al mare, Ove era posto il ricco pavaglione. Odendo il corno tanto ben sonare, Lascio\ la danza e venne ad un balcone, Apoggiandosi al collo al bel Rugiero, E giu\ nel prato vidde il cavalliero. E stando alquanto a quel sonare attento, La voce e le parole ben comprese, E vo\lto alli altri disse: #_ A quel ch' io sento, Questo di noi ragiona assai cortese; E certo che me ha posto in gran talento De essere il primo che faccia palese Se ponto ha di prodezza o di valore; Siano qua l' arme e il mio bon corridore. $_ Benche/ dicesse alcun che facea male, E mormorasse assai la baronia Che sua persona nobile e reale Aponga ad un che non sa chi se sia: Lui di natura e de animo e\ cotale Che mena a fretta cio\ che far desia; Onde lascia da parte l' altrui dire, E prestamente se fece guarnire. De azuro e de o^r vestito era a quartiero, E a tale insegne e\ il destrier copertato; La rocca e' fusi porta per cimiero. Ver Brandimarte se ne vien al prato; E solo e\ seco il giovane Rugiero, Senza alcuna arma, for che 'l brando a lato, E dopo alcun parlar tutto cortese, Volto\ ciascuno e ben del campo prese. Poi ritornarno con le lancie a resta Quei dui baron, che avean cotanta possa, Drizzando i lor ronzon testa per testa. Ciascuna lancia a meraviglia e\ grossa, Ma entrambe se fiaccarno con tempesta, E l' uno a l' altro urto\ con tal percossa, Ch' e lor destrier posa^r le groppe al prato, Benche/ ciascun di subito e\ levato. E via correndo come imbalorditi Ne andarno a gran ruina quasi un miglio, E credo che piu\ avanti serian giti, Ma fu dato a ciascun nel fren di piglio. E duo baroni al tutto eran storditi, E a l' uno e a l' altro uscia il sangue vermiglio Di bocca e da l' orecchie e per il naso, Tanto fu il scontro orribile e malvaso! Or se vengono a dietro a passo a passo, Ciascun di vendicar voluntaroso; Poi spronarno e destrieri a gran fraccasso, L' un piu\ che l' altro a corso rui%noso. Alcun di lor non segna al scudo basso, Ma dritto in fronte a l' elmo luminoso; Le lancie de le prime eran piu\ grosse, Ma non restarno integre alle percosse. Pero\ che nel scontrar di quei baroni Sino alla resta se fiaccarno, in tanto Che non eran tre palmi e lor tronconi, Ne/ piu\ che prima se donarno il vanto De alcun vantaggio e forti campi%oni, E l' uno e l' altro e\ sangue tutto quanto; E, come e lor destrier sian senza freno, Ne anda^r correndo un miglio, o poco meno. Due lancie fece il re portare al prato, Che avea il tempio de Amone, antiquo deo, E, si\ come da vecchi era contato, Di Ercole l' uno, e l' altra fo de Anteo. Bene era ciascun tronco smisurato: Ognuna a sei bastasi portar feo; Vedise adunque aperto in questo loco Che la natura manca a poco a poco, Se questi antiqui fo^r tanto robusti, Che avean forza per sei de quei moderni; Ma non so se gli autor fosser ben giusti, E scrivesseno il vero a' lor quaderni. Or son portati al campo e duo gran fusti; E guarda pur, se vo^i: tu non discerni Qual sia piu\ forte, che/ senza divaro Di vena e di grossezza son al paro. A Brandimarte fu dato la eletta: Cio\ volse il re Agramante per suo onore. Ben vi so dir che ogniomo intorno aspetta Veder che abbia piu\ lena e piu\ vigore. Ma, mentre che ciascun di lor se assetta, Di verso al fiume se ode un gran romore. Fugge la gente trista e sbigottita: Tutti venian cridando: #_ Aita! aita! $_ Il re Agramante si\ come era armato Ver la\ se tira e lascia il gran troncone; E Brandimarte a lui se pose a lato, Per aiutarlo in ogni questi%one. Via vien fuggendo il popol sterminato; Et Agramante prese un ragazone, Qual sopra ad un ronzone era a bisdosso E senza briglia corre al piu\ non posso. #_ Ove ne andati? $_ diceva Agamante #_ Ove ne andati, pezzi de bricconi? $_ E quel rispose con voce tonante: #_ Per beverare andavamo e ronzoni Dietro a quel fiume che e\ quivi davante, E la\ fummo assaliti da leoni, Qual posti ce hanno in tal disaventura, Che bene e\ paccio chi non ha paura. Da trenta insieme sono, al mio parere, Che ce assalirno con tanta tempesta, Che de scampare apena ebbi il potere, Ben che io gli vidi uscir de la foresta. Che sia de gli altri, non potea vedere, Perche/ giamai non ho volta la testa A remirar quel che de lor se sia; Or fa al mio senno, e tuotti anco te via. $_ Il re sorrise e a Brandimarte volto Gli disse: #_ Certo alquanto ho di dispetto Che il piacer della giostra ce sia tolto, Benche/ alla caccia avrem molto diletto. $_ E Brandimarte, il qual non era stolto, Rispose: #_ Il tuo comando sempre aspetto; Si\ che adoprame pure in giostra o in caccia, Ch' io son disposto a far quel che ti piaccia. $_ Il re dapoi mando\ nella citate Che a lui ne vengan cacciatori e cani, De' qual sempre {add} tenia {/add; teni\a Z} gran quantitate, Segusi e presti veltri e fieri alani, Et altre schiatte ancora intrameschiate. Or via ne vanno e tre baron soprani, Brandimarte, Agramante e il bon Rugiero, Per dare aiuto ove facea mestiero. Ma ne la corte se lascia^r le danze, Come il messo del re la\ su se intese, E fuor portarno rete e speti e lanze, E furvi alcun che se guarni^r de arnese, Che/ a cotal caccia vo^le altro che cianze; Ne/ lepri o capre trova quel paese, Ma pien son e lor monti tutti quanti Di leoni e pantere et elefanti. E molte dame montarno e destrieri, Con gli archi in mano et abiti si\ adorni, Che ogniom le accompagnava volentieri, E spesso avanti a lor facean ritorni. E tutti e gran segnori e cavallieri Usci^r sonando ad alta voce e corni: Da lo abaglio de' cani e dal fremire Par che 'l cel cada e 'l mondo abbia a finire. Ma gia\ Agramante e il giovane Rugiero E Brandimarte, che non gli abandona, Sopra a quel fiume ove e\ l' assalto fiero, Ciascuno a piu\ poter forte sperona; E ben de esser gagliardi fa mestiero, Che/ ogni leone ha sotto una persona; Alcuna e\ viva e soccorso dimanda, E qual morendo a Dio se aricomanda. A ciascadun di lor venne pietate, E destinarno di donarli aiuto, Avendo prima gia\ tratte le spate: Non vo^le indarno alcun esser venuto. Ecco un leon con le chiome arrizzate, Maggior de gli altri, orribile et arguto, Che in su la ripa avea morto un destrero: Quello abandona e vien verso Rugiero. Rugier lo aspetta e mena un manroverso, E sopra della testa l' ebbe aggionto, E quella via taglio\ per il traverso, Che/ tra gli occhi e l' orecchie il colse a ponto. Ora ecco l' altro, ancora piu\ diverso E piu\ feroce di quel che io vi conto, Al re se aventa da la banda manca, E l' elmo azaffa e nel scudo lo abranca. E certamente il tirava de arcione, Se non ne fosse il bon Rugiero accorto, Qual la\ vi corse e gionselo al gallone, Si\ che de l' anche a ponto il fece corto. Brandimarte ancor lui con un leone Fatto ha battaglia, e quasi l' avea morto, Quando se odirno e corni e' gran rumori Di quella gente, e' cani e' cacciatori. Ora cantando a ricontar non basto Di loro e cridi grandi e la tempesta; Tutte le fiere abandonarno il pasto, Squassando e crini et alciando la testa. Quale avean morto, e qual e\ mezo guasto; Pur li lasciarno, e verso la foresta, Voltando il capo e mormorando d' ira, A poco a poco ciascadun se tira. Ma la gente che segue, e\ troppo molta, E fa stornir del crido e il monte e il piano; Dardi e saette cadeno a gran folta, A benche/ la piu\ parte ariva invano. De quei leoni or questo or quel se volta, Ma pur tutti alla selva se ne vano; E il re cinger la fa da tutte bande: Allor se incomincio\ la caccia grande. La selva tutto intorno e\ circondata, Che non potrebbe uscire una lirompa; Piu\ dame e cavallieri ha ogni brigata, Che mostrava alla vista una gran pompa. Il re dato avia loco ad ogni strata, Ne/ bisogna che alcun l' ordine rompa; Alani e veltri a copia sono intorno, Ne/ se ode alcuna voce, o suon di corno. Poi son poste le rete a cotal festa Che spezzar non le puo\ dente ne/ graffa, Indi e sagusi intrarno alla foresta: Altro non si sentia che biffi e baffa. Or se ode un gran fraccasso e gran tempesta, Che/ per le rame viene una ziraffa; Turpino il scrive, e poca gente il crede, Che undeci braccia avia dal muso al piede. Fuor ne veni\a la bestia contrafatta, Bassa alle groppe e molto alta davante, E di tal forza andava e tanto ratta, Che al corso fraccassava arbori e piante. Come fu al campo, intorno ha la baratta De molti cavallieri e de Agramante E molte dame che erano in sua schiera, Onde fu alfine occisa la gran fiera. Leoni e pardi uscirno alla pianura, Tigri e pantere io non sapria dir quante; Qual se arresta a le rete e qual non cura. Ma pur fo^r quasi morti in uno istante. Or ben fece alle dame alta paura, Uscendo for del bosco, uno elefante: Lo autore il dice, et io creder nol posso Che trenta palmi era alto e vinti grosso. Se il ver non scrisse a ponto, et io lo scuso, Che/ se ne stette per relazi%one. Ora usci\ quella bestia e col gran muso Un forte cavallier trasse de arcione, E piu\ di vinti braccia getto\ in suso, Poi giu\ cadette a gran destruzi%one, E mori\ dissipato in tempo poco; Ben vi so dir che gli altri gli da\n loco. Via se ne va la bestia smisurata, Ne/ de arestarla alcun par che abbia possa; La schiera ha tutta aperta ove e\ passata, A benche/ de piu\ dardi fu percossa, Ma non fu da alcun ponto innaverata; Tanto la pelle avea callosa e grossa E si\ nerbosa e forte di natura, Che tiene il colpo come una armatura. Ma gia\ non tenne al taglio di Tranchera, Ne/ al braccio di Rugiero in questo caso; A piedi ha lui seguita la gran fiera, Che/ il destrier spaventato era rimaso. Tanto ha quello animale orribil ciera Per grande orecchia e pel stupendo naso E per li denti lunghi oltra misura, Che ogni destriero avia di lui paura. Ma, come vidde solo il giovanetto, Che lo seguiva a piedi per lo piano, Voltando quel mostazzo maledetto, Qual gira e piega a guisa de una mano, Corsegli adosso, per darli di petto; Ma quel furore e lo impeto fu vano, Perche/ Rugier salto\ da canto un passo, Tirando il brando per le zampe al basso. Dice Turpin che ciascuna era grossa, Come e\ne un busto d' omo a la centura. Io non ho prova che chiarir vi possa, Perche/ io non presi alora la misura; Ma ben vi dico che de una percossa Quella gran bestia cadde alla pianura: Come il colpo aviso\, gli venne fatto, Che/ ambe le zampe via taglio\ ad un tratto. Come la fiera a terra fu caduta, Tutta la gente se gli aduna intorno, E ciascun de ferirla ben se aiuta: Ma il re Agramante gia\ suonava il corno, Perche/ oramai la sera era venuta, E ver la notte se ne andava il giorno. Or, come il re nel corno fu sentito, Ogniomo intese il gioco esser finito. Onde tornando tutte le brigate Se radunarno ove il re se ritrova; Tutti avean le sue lancie insanguinate, Per dimostrar ciascun che fatto ha prova. Le fiere occise non furno lasciate, Benche/ a fatica ciascuna se mova; Pur con ingegno e forza tutti quanti Furno portati a' cacciatori avanti. Da poi de cani un numero infinito Era menato in quella cacciasone: Qual da tigre o pantere era ferito, E quale era straziato da leone. Come io vi dissi, il giorno era partito, Che fo diletto di molte persone, Pero\ che ciascadun, come piu\ brama, Chi va con questa, e chi con quella dama. Qual de la caccia conta meraviglia, E ciascadun fa la sua prova certa; E qual de amor con le dame bisbiglia, Narrando sua ragion bassa e coperta. E cosi\, caminando da sei miglia Con gran diletto, gionsero a Biserta, Ove parea che 'l celo ardesse a foco, Tante lumiere e torze avea quel loco. E dentro entrarno a gran magnificenzia, Quasi alla guisa de processi%one; Omini e donne a tal appariscenzia Per la citade stavano al balcone. Brandimarte al castel prese licenzia Per ritornar di fora al paviglione, E benche/ il re il volesse retenire, Per compiacerlo al fine il lascio\ gire; E dal nepote il fece accompagnare, E da cinque altri. Li\ con grande onore La sera istessa il fece appresentare De piu\ vivande, ciascuna megliore; E una sua veste gli fece arrecare, Con pietre e perle di molto valore: La veste e\ parte azurra e parte de oro, Come il re porta, senza altro lavoro. Poi l' altro giorno, come e\ loro usanza, Una gran festa se ebbe ad ordinare, E venne Fiordelisa in quella danza, Che/ Brandimarte e lei fece invitare. Tre son vestiti ad una somiglianza, Che/ tal divisa altrui non puo\ portare; Brandimarte, Agramante con Rugiero D' azurro e d' or indosso hanno il quartiero. Standosi in festa et ecco un tamburino Vien giu\ del catafalco a gran stramaccio. Per tutto traboccava quel meschino, Che/ ogni festuca gli donava impaccio, O che la colpa fosse il troppo vino, O che di sua natura fosse paccio; Ma sopra al tribunal ove e\ Agramante, Pur se conduce e a lui se pone avante. Il re credendo de esso aver diletto, Lo recevette con faccia ridente; Ma, come quello e\ gionto al suo cospetto, Batte la mano e mostrase dolente, E diceva: #_ Macon sia maledetto, E la Fortuna trista e miscredente, Qual non riguarda cui faccia segnore, Et obedir conviensi a chi e\ peggiore! Costui de Africa tutta e\ incoronato, La terza parte del mondo possiede, Et ha cotanto popolo adunato Che spaventar la terra e il cel si crede. Or ne lo odor de algalia e di moscato Tra belle dame il delicato siede, Ne/ se cura de guerra, o de altro inciampo, Pur che se dica che sua gente e\ in campo. Non si die\no le imprese avere a ciancia: Seguir conviensi, o non le cominciare, E fornir con la borsa e con la lancia, Ma l' una e l' altra prima mesurare. Cosi\ faccia Macon che il re de Francia Te venga a ritrovar di qua dal mare, Che/ alor comprenderai poi se la guerra Fia meglio in casa, o ver ne l' altrui terra. $_ Parlando il tamburin, fo presto preso Da la guarda del re che intorno stava, Ne/ fu pero\ battuto, ne/ ripreso, Perche/ ebriaco ogniomo il iudicava. Ma il re Agramante che lo ha ben inteso, Gli occhi dolenti alla terra bassava; Mormorando tra se/ movia la testa, E poi crucioso usci\ fuor de la festa. Onde la corte fo tutta turbata: Langue ogni membro quando il capo dole; La real sala in tutto e\ abandonata, Ne/ piu\ se danza, come far se suole. Il re la zambra avea dentro serrata: Alcun compagno seco non vi vo^le; Pensando il grande oltraggio che gli e\ detto, Se consumava de ira e de dispetto. Poi, come l' altro giorno fo apparito, Fece il consiglio et aduno\ suo stato, Dicendo come ha fermo e stabilito Di fornire il passaggio che e\ ordinato; E poi fa noto a tutti a qual partito E da cui sera\ il regno governato, Perche/ il vecchio Branzardo di Bugea Vo^l che a Biserta in suo loco si stea, A lui dicendo: #_ Attendi alla iustizia, E ben ti guarda da procuratori E iudici e notai, che/ han gran tristizia E pongono la gente in molti errori. Stimato assai e\ quel che ha piu\ malizia, E gli avocati sono anco peggiori, Che/ voltano le legge a lor parere; Da lor ti guarda, e farai tuo dovere. Il re di Fersa, Folvo, anche rimane, E Bucifar, il re de la Algazera; L' uno al diserto alle terre lontane, E l' altro guarda verso la rivera. Se forse qualche gente cristi%ane Con caravella, o con fusta ligiera, Over gli Ara\bi te donino affanno, Sia chi soccorra e chi proveda al danno. $_ Dapoi gli fece consegnar Dudone, Che era condotto de Cristianitate, Dicendo a lui che lo tenga pregione, Si\ che tornar non possa in sue contrate; Ma poi nel resto il tratti da barone, Ne/ altro gli manchi che la libertate. Da poscia a Folvo e a Bucifar comanda Che a Branzardo obedisca in ogni banda. E perche/ cio\ non sia tenuto vano, Per la citate il fece publicare, Et a lui la bacchetta pose in mano, La quale e\ d' oro, e suole esso portare. Or se aduna lo esercito inumano: Chi potrebbe il tumulto racontare De la gente si\ strana e si\ diversa, Che par che 'l celo e il mondo se sumersa? Quando sentirno il passaggio ordinare, Chi ne ha diletto, e chi n' avea spavento. La gran canaglia se adunava al mare, Per aspettar sopra le nave il vento. Chi vo^le odir l' istoria seguitare, Ne l' altro canto lo faro\ contento, E se gran cose ho contato giamai, Seguendo le diro\ maggiore assai. La piu\ stupenda guerra e la maggiore Che racontasse mai prosa ne/ verso, Vengo a contarvi, con tanto terrore Che quasi al cominciare io me son perso; Ne/ sotto re, ne/ sotto imperatore Fu mai raccolto esercito diverso, O nel moderno tempo, o ne lo antico, Che aguagliar si potesse a quel che io dico. Ne/ quando prima il barbaro Anniballe, Rotto avendo ad Ibero il gran diveto, Con tutta Spagna et Africa alle spalle Spezzo\ col foco l' Alpe e con lo aceto; Ne/ il gran re persi%ano in quella valle Ove Leonida fe' l' aspro decreto, Con le gente di Scizia e de Eti%opia Ebbe de armati in campo maggior copia, Come Agramante, che sua gente anombra Solo a la vista, senza ordine alcuno. De le sue velle e\ tanto spessa l' ombra, Che il mar di sotto a loro e\ scuro e bruno; E si\ l' un l' altro il gran naviglio ingombra, Che fu mestier partirse ad uno ad uno, Avendo il vento in poppa alla seconda. Avanti a gli altri e\ Argosto di Marmonda: Ne la sua nave e\ la real bandiera, Che tutta e\ verde e dentro ha una Sirena. Il re Gualciotto apresso di questo era, Quale era ardito, e bella gente mena, Et era la sua insegna tutta nera, Di bianche columbine al campo piena; E Mirabaldo viene apresso a loro, Che porta il monton nero a corne d' oro: Il campo ove e\ il montone, e\ tutto bianco. E da questi altri veni\a longi un poco Sobrin, che e\ re di Garbo, il vecchio franco, Il qual portava in campo bruno il foco; E dietro mezo miglio, o poco manco, Il re de Arzila seguitava il gioco: Il nome de costui fu Brandirago, Che avea nel campo rosso un verde drago. Dapoi Brunello, il re de Tingitana, Avea la insegna di novo ritratta, Piu\ vaga assai de l' altre e piu\ soprana, Perche/ lui stesso a suo modo l' ha fatta; Come oggi al mondo fa la gente vana, Stimando generosa far sua schiatta E le casate sue nobile e degne Con far de zigli e de leoni insegne. Cosi\ Brunel, la cui fama era poca, Come intendesti, che/ era re di novo, Nel campo rosso avea depinta una oca, Che avea la coda e l' ale sopra a l' ovo. De cio\ parlando lui con gli altri, gioca #_ Ben $_ dicendo #_ fo antico, e cio\ ti provo: Che/ lo evangelio, che e\ dritto iudicio, Afferma che la oca era nel principio. $_ Il re Grifaldo apresso a lui ne viene, Che porta una donzella scapigliata, E quella un drago per l' orecchie tiene: Cotal divisa avea tutta la armata, Benche/ sua insegna a questa non conviene, Che/ solo e\ nera e di bianco fasciata. Il re di Garamanta era vicino, Giovane ardito, e nome ha Martasino. Costui portava nel campo vermiglio Le branche e il collo e il capo de un griffone; E dietro alla sua nave forse un miglio Veniva il re di Septa, Dorilone, Qual porta al campo azurro un bianco ziglio; Poi Soridano, che porta il leone. Il leon bianco in campo verde avia: Costui ch' io dico, e\ re de la Esperia. E re di Constantina, Pinadoro, Venne, che al rosso la acquila portava, Ch' e\ gialla, con due teste, in quel lavoro; E poco apresso Alzirdo il seguitava, Che ha la rosa vermiglia in campo d' oro; E Puli%ano alla bandiera blava Segnata avea de argento una corona; Franco e\ costui, che e\ re de Nasamona. Ne/ 'l re de la Amoni\a ponto vi manca, Benche/ sua gente e\ tutta pedochiosa, Dico Arigalte da la insegna bianca, Ne/ dentro vi ha dipenta alcuna cosa. Poi Manilardo, che porta la branca Qual tutta e\ d' oro a l' arma sanguinosa: La branca di cui parlo, e\ di leone. La armata apresso vien di Prusi%one. De la Norizia e\ re quel Manilardo, Questo altro de Alvarachie, ch' io vi conto. Saper volete qual sia piu\ gagliardo? Ne/ l' un ne/ l' altro, a dirvelo ad un ponto. Re di Canara, il qual venne ben tardo, Ma pure apresso di questi altri e\ gionto, Portava, se Turpin me dice il vero, Nel campo verde un corvo tutto nero. Era costui nomato Bardarico, Che in occidente ha sua terra lontana. Poi venne Balifronte, il vecchio antico, E Dudrinasso, il re de Libicana; Fo re di Mulga quel vecchio ch' io dico, E porta in campo azurro una fontana; E Dudrinasso alla bandiera e al scudo Porta nel rosso un fanciulletto nudo. E Dardinello, il giovanetto franco, Ha le sue nave a queste altre congionte. Il quartiero ha costui vermiglio e bianco, Come suolea portare il padre Almonte; E pur cotale insegna, piu\ ne/ manco, Portava indosso ancora Orlando il conte. Ma ad un di lor portarla costo\ cara; Questo garzone e\ re de la Zumara. Presso vi viene il forte Cardorano, Il re di Cosca; e porta per insegna Un drago verde, il quale ha il capo umano. Da poi Tardoco, che in Alzerbe regna, E seco Marbalusto, il re de Orano; Quello avia al scudo una serpe malegna, Che intorno avolto ha il busto tutto quanto, Per non odire il verso de lo incanto. E Marbalusto un capo de regina Portava, intorno a quello una ghirlanda. Poi Farurante, che e\ re di Maurina, Che al scudo verde ha una vermiglia banda. Alzirdo ha la sua armata a lui vicina (In campo azurro avea d' oro una gianda); E de Almasilla il re Tanfiri%one, Qual porta in bianco un capo di leone. Or gia\ vien de la corte il concistoro, Che a quella impresa e\ tutta gente eletta; Mordante avea il governo di costoro. La prima armata vien di Tolometta, Con due lune vermiglie in campo d' oro, Che portava Mordante e la sua setta; Costui fo grande e di persona fiero, Filiol bastardo fo di Carogiero. Da Tripoli seguia la gente franca: Non fo di questa la piu\ bella armata, Ne/ piu\ fiorita; e, se nulla vi manca, Da Rugier paladino era guidata. Lui ne lo azurro avea l' acquila bianca, Qual sempre da' suoi antiqui fu portata. Da poi veni\a la armata de Biserta, Ove Agramante ha la sua insegna aperta. Di Tunici ivi apresso era il naviglio, E quel governa il vecchio Daniforte, Omo saputo e di molto consiglio, Gran siniscalco de la real corte. Portava in campo verde un rosso ziglio Costui, che viene in Franza a tuor la morte; E poscia da Bernica e da la Rassa L' una armata con l' altra insieme passa. Di queste avea il governo Barigano, Quale ha nutrito il re da piccolino, E porta per insegna quel pagano In campo rosso un candido mastino. Dietro da tutti il gran re di Fizano, Mulabuferso, ha preso il suo camino; Lui porta divisato nel stendardo, Come nel scudo, in campo azurro un pardo. In cotal modo, come io vi discerno, La grande armata in Spagna se disserra; Il re Agramante ha de tutti il governo: Non fu tal furia mai sopra la terra. Come se aprisse il colmo de lo inferno, Se far volesse al paradiso guerra, E la sua gente uscisse tutta integra, Qual con pallida faccia e qual con negra: Morti e demonii, dico, tutti quanti, Del fuoco uscendo e d' ogni sepultura, Sarebbono a questi altri simiglianti, Per contrafatte membra e faccia oscura. Il stil diverso e i navigli son tanti, Che cento miglia e piu\ la folta dura, Qual nel litto di Spagna se abandona, E da Maliga tiene a Taracona. Il re Agramante lui sotto Tortosa Discese, ove il fiume Ebro ha foce in mare; La\ se aduno\ la gente copi%osa, E verso Franza prese a caminare A gran giornate, senza alcuna posa. Gia\ la Guascogna sotto a loro appare, Callando l' Alpe, e giu\ scendono al piano, Sin che fo^r gionti sopra a Montealbano. Di sotto a quel castello, alla campagna, Era battaglia piu\ cruda che mai, Pero\ che il re di Franza e il re di Spagna, Come di sopra gia\ vi racontai, Con lor persone e con sua corte magna, E gente de' suoi regni pure assai, Sono azuffati, e sopra di quel dosso Corre per tutto il sangue un palmo grosso. La\ se vedea Ranaldo e Feraguto, L' un piu\ che l' altro alla battaglia fiero; E il re Grandonio orribile e membruto Avea afrontato il marchese Oliviero; Ad alcun de essi non bisogna aiuto. E Serpentino e il bon danese Ogiero Se facean guerra sopra di quel piano; E il re Marsilio contra a Carlo Mano. Ma Rodamonte il crudo e Bradamante Avean tra lor la zuffa piu\ diversa; Che/, come io dissi, il bon conte de Anglante Avea de un colpo la memoria persa, Quando il percosse il perfido africante, Che tramortito a dietro lo riversa. Tutta la cosa vi narrai a ponto, Pero\ trapasso e piu\ non la riconto. Se non che, essendo quella dama altiera Ora affrontata al saracino ardito, E durando la zuffa orrenda e fiera, Il conte Orlando se fu risentito; E ben seri\a tornato volentiera A vendicarse, come aveti odito: Essendo dal pagan si\ forte offeso, Gli avria pan cotto per tal pasto reso. Ma pur, temendo a farli villania, Poi che era de altra mischia intravagliato, Sua Durindana al fodro rimettia, E, lor mirando, stavasi da lato. Quel loco ove era la battaglia ria, Posto e\ tra duo colletti in un bel prato, Lontano a l' altra gente per bon spaccio, Si\ che persona non gli dava impaccio. Tre ore, o poco piu\, stettero a fronte La dama ardita e quel forte pagano; E stando quivi a rimirare il conte, Alciando gli occhi vidde di lontano Quella gran gente che callava il monte, E le bandiere poi di mano in mano, Con tal romor che par che 'l cel ruine, Tanta e\ la folta; e non se vede il fine. Diceva Orlando: #_ O re del celo eterno, Dove e\ questo mal tempo ora nasciuto? Che/ il re Marsilio e tutto suo governo Di tanta gente non avrebbe aiuto. Credo io che sono usciti dello inferno, Benche/ sera\ ciascuno il mal venuto E il mal trovato, sia chi esser si vo^le, Se Durindana taglia come suole. $_ Cosi\ parlava con molta arroganza; Verso quel monte ratto se distende. Sopra del prato integra era una lanza: Chinosse il conte e quella in terra prende, Che/ cotal cosa avea spesso in usanza. Non so se lo atto a ponto ben s' intende; Dico, stando in arcione, essendo armato, Quella grossa asta su tolse del prato. Con essa in su la coscia passa avante Sopra de Brigliador, che sembra occello. Ma ritornamo a dir del re Agamante, Che, veggendo nel piano il gran zambello, Forte allegrosse di cotal sembiante, E fie' chiamarsi avante un damigello, Qual fu di Constantina incoronato, E Pinadoro il re fu nominato. A lui comanda che vada soletto Tra quelle gente e, senza altra paura, La\ dove il grande assalto era piu\ stretto E la battaglia piu\ crudiele e dura, Piglia qualche barone al suo dispetto, Vivo lo porti a lui con bona cura; O quattro o sei ne prenda ad un sol tratto, Accioche/ meglio intenda tutto il fatto. Re Pinadoro parte cavalcando, E prestamente scese la gran costa; Da poi, per la campagna caminando, Non pone a speronare alcuna sosta, Ma poco cavalco\ che trovo\ Orlando, Come venisse per scontrarlo a posta, E disfidandol con molta tempesta Se urtarno adosso con le lancie a resta. Quivi de intorno non era persona, Benche/ fosse la zuffa assai vicina; L' un verso l' altro a piu\ poter sperona A tutta briglia, con molta ruina. Ciascadun scudo al gran colpo risuona, Ma cade a terra il re di Constantina; Sua lancia ando\ volando in piu\ tronconi, E lui di netto usci\ fuor de l' arcioni. Orlando lo piglio\ senza contese, Poi che caduto fu de lo afferante, Pero\ che lui non fece altre diffese, Ne/ puote farle contra al sir de Anglante; E seco ragionando il conte intese Come quel ch' e\ nel monte e\ il re Agramante, Che per re Carlo e Francia disertare Con tanta gente avia passato 'l mare. De cio\ fu lieto il franco cavalliero: Guardando verso il cel col viso baldo Diceva: ## O summo Dio, dove e\ mestiero, Pur mandi aiuto e soccorso di saldo! Che/, se non vien fallito il mio pensiero, Sera\ sconfitto Carlo con Ranaldo, Et ogni paladin sera\ abattuto, Onde io sero\ richiesto a darli aiuto. Cosi\ lo amor di quella che amo tanto Sera\ per mia prodezza racquistato, E per la sua beltate oggi mi vanto Che, se de incontro a me fosse adunato Con l' arme indosso il mondo tutto quanto, In questo giorno averlo disertato. $# Cio\ ragionava il conte in la sua mente, E Pinadoro odi\a de cio\ ni%ente. Ma il conte, vo\lto a lui, disse: #_ Barone, Ritorna prestamente al tuo segnore, Se ti ha mandato per questa cagione Che tu rapporti a lui tutto il tenore. Dirai che il re Marsilio e il re Carlone Fan per battaglia insieme quel furore, E s' egli ha core et animo reale, Venga alla zuffa e mostri cio\ che vale. $_ Re Pinador lo ringraziava assai, Come colui che molto fo cortese; E torna adietro e non se arresta mai, Sin che il destriero avanti il re discese, Dicendo: #_ Alto segnore, io me ne andai Ove volesti, e dicoti palese Che la battaglia ch' e\ sopra a quel piano, E\ tra Marsilio e il franco Carlo Mano. Ne/ so circa a tal fatto il tuo pensiero, Ma giu\ non callerai per mio consiglio, Perche/ io trovai nel piano un cavalliero De la cui forza ancor mi meraviglio, Che il scudo e sopraveste de quartiero Ha divisato bianco e di vermiglio; E se ciascun de gli altri sera\ tale, Il fatto nostro andra\ peggio che male. $_ E disse sorridendo il re Sobrino, Che a questo ragionare era presente: #_ Quel dal quartiero e\ Orlando paladino: Or scemara\ il superchio a nostra gente; Ben lo cognosco insin da piccolino. Cosi\ Macon lo faccia ricredente, Come di spada e lancia ad ogni prova Il piu\ fiero omo al mondo non se trova. Or sapera\ se io ragionava invano Dentro a Biserta, allor che io fui schernito, Perche/ io lodai da possa Carlo Mano E lo esercito suo tanto fiorito. Traggasi avanti Alzirdo e Puli%ano E Martasino, il quale e\ tanto ardito, Che/ Rodamonte, alor cotanto acceso, Per la mia stima adesso e\ morto o preso. Tragansi avanti questi giovanetti, Che mostravano aver tanta baldanza, E sono usati a giostra, per diletti, Andar forbiti e ben portar sua lanza. Et accio\ che altri forse non suspetti Ch' io dica tal parole per temanza, Gir vo' con essi, e l' anima vi lasso, Se alcun di lor mi varca avanti un passo. $_ Re Martasino a questo ragionare De ira e de orgoglio tutto se commosse, E disse: #_ Certamente io vo' provare, Se questo Orlando e\ un om di carne e de osse, Poi che Sobrin non lo osa ad affrontare, Che sin da piccoletto lo cognosse. Chi vo^l callar, se calla alla pianura: Nel monte aresti chi de onor non cura. $_ Cosi\ parlava il franco Martasino: Non avea il mondo un altro piu\ orgoglioso. Grossetto fu costui, ma piccolino De la persona, e destro e ponderoso, Rosso de faccia e di naso acquilino, Oltra a misura altiero e furi%oso; Onde, cridando e crollando la testa, Giu\ de la costa sprona a gran tempesta. Re Marbalusto il segue e Farurante; Alzirdo e Mirabaldo viene apresso, E Bambirago e il re Grifaldo avante. Ne/ il re Sobrin, de cui parlava adesso, Mostra aver tema del segnor de Anglante, Ma piu\ de gli altri tocca il destrier spesso, E con tanto furore andar se lassa, Che a Martasino avanti e a gli altri passa. Ne/ valse de Agramante il richiamare, Che/ ciascaduno a piu\ furia ne viene; Di esser la\ giu\ mille anni a tutti pare, Come livreri usciti di catene. Quando Agramante vede ogniomo andare, Movese anch' esso, e gia\ non se ritiene, Ne/ pone ordine alcuno alla battaglia, Ma fa seguire in frotta la canaglia. Lui piu\ de gli altri furi%oso e fiero, Sopra de Sisifalto avanti passa, E seco a lato a lato il bon Rugiero, Et Atalante, che giamai non lassa. Contar l' alto romor non fa mestiero; Ciascun direbbe: #" Il mondo se fraccassa. $" Trema la terra e il cel tutto risuona, Cotanta gente al crido se abandona. Suonando trombe e gran tamburi e corni La diversa canaglia scende al piano. Pochi di lor ne avea di ferro adorni, Chi porta mazze e chi bastoni in mano. Non se numerariano in cento giorni, Si\ sterminatamente se ne vano. Ma tutti eran di lor con l' arme indosso Avanti van correndo a piu\ non posso. In questo tempo il re Marsili%one Gionto era quasi al ponto di morire, Ne/ piu\ se sosteniva ne lo arcione, Ma gia\ da banda se lasciava gire, Pero\ che adosso ha il franco re Carlone, Che ad ambe man non resta di ferire, E, come io dico, lo travaglia forte, Che quasi l' ha condutto in su la morte. Ma, alciando gli occhi, vidde il re Agramante, Qual giu\ callando al piano era vicino, Con tante insegne e con bandiere avante, Che empi\ano intorno per ogni confino. Quando vidde callar gente cotante, Fasse la croce il figlio di Pepino; Per meraviglia e\ quasi sbigotito, Veggendo il gran trapel di novo uscito. Il re Marsilio abandono\ di saldo, Per porre altrove l' ordine et aiuto. Poco lontano ad esso era Ranaldo, Che male avea condotto Feraguto. Benche/ ancor fosse alla battaglia caldo, Il brando pur di man gli era caduto; Or con la mazza ben gran colpi mena, Ma de la morte se diffende appena. Ranaldo l' avria morto in veritate, Come io vi dico, e sempre il soperchiava, Perche/ poco estimava sue mazzate, E de Fusberta a lui spesso toccava. Tra le percosse orrende e sterminate Odi\ re Carlo, che a voce chiamava: Si\ forte lo chiamo\ lo imperatore, Che pur intese intra tanto romore. #_ Figlio, $_ cridava il re #_ figlio mio caro, Oggi d' esser gagliardo ce bisogna; Se tosto non se prende un bon riparo, Noi siam condotti alla ultima vergogna. Se mai fu giorno doloroso e amaro Per Montealbano e per tutta Guascogna, Se la Cristianita\ debbe perire, Oggi e\ quel giorno, o mai non de' venire. $_ A questo crido de lo imperatore Il franco fio de Amon fu rivoltato, A benche/ combattesse a gran furore Con Feraguto, come io vi ho contato, Il qual de la battaglia avia il peggiore; E poco gli giovava esser fatato: Tanto l' avea Ranaldo urtato e pisto, Che un si\ malconzo piu\ non fu mai visto. E si\ fu per affanno indebilito, Et avea l' armi si\ fiaccate intorno, Che intrare a nova zuffa non fu ardito, Ma prese posa insino a l' altro giorno. Ranaldo al campo lo lascio\ stordito, Tornando a Carlo, il cavalliero adorno, Che ordinava le schiere a fronte a fronte Verso Agramante, che discende il monte. De le schiere ordinate la primiera Dette il re Carlo a lui, come fu gionto, Dicendo: #_ Va via ratto alla costiera, Ove e nemici giu\ callano a ponto. Fa che seco te azuffi a ogni maniera Nel pie\ del monte, si\ come io ti conto; Apizza la battaglia al stretto loco, Ove e\ quel re che ha in campo nero il foco. Ora certanamente me divino Che il re Agramante avra\ passato il mare, Che/ quel da tale insegna e\ re Sobrino: Ben lo cognosco e so cio\ che puo\ fare. Di certo egli e\ gagliardo saracino. Or via, filiolo, e non te indugi%are! $_ Poi la seconda schiera Carlo dona Al duca de Arli e al duca di Baiona. Entrambi son del sangue di Mongrana: Sigieri il primo, e l' altro ha nome Uberto. Poscia il re Otone e sua gente soprana L' altra schiera ebbe sopra al campo aperto. La quarta, ch' era a questa prossimana, Governa il re di Frisa, Daniberto; La quinta poi il re Carlo arriccomanda A Manibruno, il quale era de Irlanda. El re di Scozia giu\ mena la sesta; La settima governa Carlo Mano. Or se incomincia il crido e la tempesta. Gionto alla zuffa e\ il sir de Montealbano, Sopra Baiardo, con la lancia a resta: Tristo qualunche iscontra sopra il piano! Qual mezo morto de lo arcion trabocca, Qual come rana per le spalle insprocca. Rotta la lancia, fuor trasse Fusberta: Ben vi so dir che spaccia quel cammino. #_ Or chi e\ costui che mia gente diserta, $_ Diceva, a lui guardando, il re Sobrino #_ Et ha il leon sbarato alla coperta? Io non cognosco questo paladino. Nel gran paese dove Carlo regna, Mai non viddi colui, ne/ questa insegna. Ma debbe esser Ranaldo veramente, Di cui nel mondo se ragiona tanto. Or provaro\ se egli e\ cosi\ valente, Come de lui se dice in ogni canto. $_ Nel dir sperona il suo destrier corrente Quel re che di prodezza ha si\ gran vanto; La lancia rotta avia prima nel piano, Ma ver Ranaldo vien col brando in mano. Ranaldo il vidde e, stimandol assai Per le belle arme e per la appariscenza, Fra se/ diceva: ## Odito ho sempre mai Che il bon vantaggio e\ di quel che incomenza; Al mio poter tu non cominciarai, Che/ chi coglie de prima, non va senza. $# Cosi\ dicendo sopra de la testa Ad ambe man lo tocca a gran tempesta. Ma l' elmo che avea in capo era si\ fino Che ponto non fu rotto ne/ diviso, E ni%ente se mosse il re Sobrino, Benche/ non parve a lui colpo da riso. Ma gia\ son gionto a l' ultimo confino Del canto consueto; onde io me aviso Che alquanto riposar vi fia diletto: Poi sera\ il fatto a l' altro canto detto. Baroni e dame, che ascoltati intorno Quella prodezza tanto nominata, Che fa de fama il cavallier adorno Alla presente etade e alla passata, Io vengo a ricontarvi in questo giorno La piu\ fiera battaglia e sterminata, E la piu\ orrenda e piu\ pericolosa Che racontasse mai verso ne/ prosa. Se vi amentati bene, aveti odito Ove sia questa guerra e tra qual gente, E come il re Sobrin fosse ferito Dal pro' Ranaldo in su l' elmo lucente; Ma tanto era feroce il vecchio ardito, Che mostrava di cio\ curar ni%ente; E vo\lto contra il sir de Montealbano Sopra la fronte il colse ad ambe mano. Ranaldo a lui rispose con ruina, E tra lor duo se comincio\ gran zuffa; Ma l' una schiera e l' altra se avicina, E tutti se meschiarno alla baruffa. Benche/ sia piu\ la gente saracina, Ciascun cristian dua tanta ne ribuffa: Grande e\ il romor, orribile e feroce Di trombe, di tamburi e de alte voce. Di qua di la\ le lancie e le bandiere L' una ver l' altra a furia se ne vano, E quando insieme se incontra^r le schiere Testa per testa a mezo di quel piano, Mal va per quei che sono alle frontiere, Perche/ alcun scontro non ariva in vano; Qual con la lancia usbergo e scudo passa, Qual col destriero a terra se fraccassa. E tuttavia Ranaldo e il re Sobrino L' un sopra a l' altro gran colpi rimena, Benche/ ha disavantaggio il saracino, E dalla morte se diffende apena. Ecco gionto alla zuffa Martasino, Quello orgoglioso che ha cotanta lena; E Bambirago e\ seco, e Farurante, E Marbalusto, il quale era gigante. Alzirdo e il re Grifaldo viene apresso, Argosto di Marmonda e Puli%ano; Tardoco e Mirabaldo era con esso, Barolango, Arugalte e Cardorano, Gualciotto, che ogni male avria commesso, E Dudrinasso, il perfido pagano. De quindeci ch' io conto, vi prometto, Stasera non andra\ ben cinque a letto. Se non vien men Fusberta e Durindana, Non vi andranno, se non vi son portati, Ma restaranno in su la terra piana, Morti e destrutti e per pezzi tagliati. Ora torniamo alla gente africana E a questi re, che al campo sono entrati Con tal romore e crido si\ diverso, Che par che il celo e il mondo sia sumerso. La prima schiera, qual meno\ Ranaldo, Che avea settanta miglia di Guasconi, Fu consumata da costor di saldo, E' cavallier sconfitti con pedoni. Cosi\ come le mosche al tempo caldo, O ne l' antiqua quercia e formigoni, Tal era a remirar quella canaglia Senza numero alcuno alla battaglia. Ma de quei re ciascun somiglia un drago Adosso a' nostri; ogniom taglia e percote, E sopra a tutti Martasino e\ vago De abatter gente e far le selle vote; E cosi\ Marbalusto e Bambirago Al campo di costui seguon le note, E gli altri tutti ancor senza pietate Pongono i nostri al taglio de le spate. Il crido e\ grande, i pianti e la ruina Di nostra gente morta con fraccasso, Crescendo ognior la folta saracina, Che giu\ del monte vien correndo al basso. Re Farurante mai non se raffina; Grifaldo, Alzirdo, Argosto e Dudrinasso, Tardoco, Bardarico e Puli%ano Senza rispetto tagliano a due mano. Ranaldo, combattendo tutta fiata Contra a Sobrino, il quale avea il peggiore, Veduta ebbe sua gente sbaratata, Onde ne prese gran disdegno al core, E lascia la battaglia cominciata, Battendo e denti de ira e de furore. Stati per Dio, segnori, attenti un poco, Che/ or da dovere si comincia il gioco. Battendo e denti se ne va Ranaldo, Gli omini e l' arme taglia d' ogni banda; Ove e\ il zambello piu\ fervente e caldo Urta Baiardo e a Dio si racomanda. Il primo che trovo\ fu Mirabaldo, In duo cavezzi fuor d' arcione il manda; Tanto fu il colpo grande oltra misura, Che per traverso il fesse alla centura. Questo veggendo Argosto di Marmonda Divenne in faccia freddo come un gelo, Mirando quel per forza si\ profonda Tagliar quest' altri come fosse un pelo. Ranaldo ce gli mena alla seconda, Facendo squarzi andare insino al celo; Cimieri e sopraveste e gran pennoni Volan per l' aria a guisa de falconi. Di teste fesse e di busti tagliati, Di gambe e braccie e\ la terra coperta, E' Saracini in rotta rivoltati Fuggendo e ansando con la bocca aperta; Ne/ puon cridar, tanto erano affrezzati. Sempre Ranaldo tocca di Fusberta, Facendo di costor pezzi da cane: Tristo colui che la\ oltra rimane! Si\ come Argosto, che in dietro rimase, E Ranaldo il feri\ con gran possanza, E sino in su l' arcione il parti\ quase: Tre dita non se {add} tenia {/add; teni\a Z} della panza. E quelle genti perfide e malvase Chi getta l' arco e chi getta la lanza, E chi lascia la tarca e chi il bastone, Tutti fuggendo a gran confusi%one. Combatte in altra parte Martasino, Che ha per cimiero un capo de grifone, E sotto a quello uno elmo tanto fino, Che non teme di brando offensi%one. Costui, veggendo per quel gran polvino Sua gente persa e la destruzi%one Che fa tra loro il sir di Montealbano, La\ s' abandona con la spada in mano. Gionse a Ranaldo dal sinistro lato E ne l' elmo il feri\ de un manriverso; Quasi stordito lo mando\ nel prato, Tanto fu il colpo orribile e diverso. Tardoco ancor di novo era arivato, E Bardarico gionse di traverso Con Marbalusto, che e\ si\ grande e grosso; Ciascun tocca Ranaldo a piu\ non posso. Lui da cotanti se diffende apena, Si\ spesso del colpire e\ la tempesta; Ciascun de questi quattro e\ di gran lena, Ne/ l' un per l' altro di ferir se arresta. Ranaldo irato a Bardarico mena, E colse de Fusberta ne la testa, E fesse l' elmo e la barbuta e 'l scudo: A mezo il petto ando\ quel colpo crudo. Ma lui gionse ne l' elmo Marbalusto, Il qual portava in mano un gran bastone, Che avea ferrato tutto intorno il fusto; Lui gionse ne la testa il fio de Amone. Cotanta forza ha quel pagan robusto, Che quasi lo getto\ fuor de lo arcione; Gia\ tutto da quel canto era piegato, Ma Tardoco il feri\ da l' altro lato. Tardoco, il re de Alzerbe, il tiene in sella, Ferendo, come io dico, a l' altro canto, E Martasino adosso gli martella, Et il cimier gli ruppe tutto quanto. E mentre che Ranaldo stava in quella, Il popol de' Pagan, che era cotanto, Da Grifaldo guidato e Dudrinasso, Di novo i nostri posero in fraccasso. Tanta la gente sopra a' nostri abonda, Che non vi val diffesa a ogni maniera, A benche/ alcun pero\ non se nasconda. Ma tutta consumata e\ quella schiera, Onde al soccorso mosse la seconda, Che alle baruffe entro\ ben volentiera; Ne/ soi megliori aveva il re de Francia Di questi dui, de ardire e di possancia: Del duca d' Arli, dico, il bon Sigieri, E 'l bono Uberto, duca di Baiona, Usi in battaglia e franchi cavallieri; E l' uno e l' altro avea forte persona. Via se ne vanno al par de' bon guerrieri, De arme e de cridi il cel tutto risuona. E par che 'l mondo seco se comova; Or la battaglia al campo se rinova. Uberto se incontro\ col re Grifaldo, Sigiero e Dudrinasso l' africante; Usci^r d' arcione e duo pagan di saldo, Voltando verso il celo ambe le piante. Vicino a questo loco era Ranaldo, Qual combattendo, come io dissi avante, Con quei pagan, condutto era a mal porto, Benche/ de' quattro Bardarico ha morto. Pur sempre il re Tardoco e Martasino E quel gigante il quale e\ re de Orano Toccano adosso al nostro paladino, L' un col bastone e' duo col brando in mano. Ora Sigieri, essendo la\ vicino, Presto cognobbe il sir de Montealbano, E la\ per dargli aiuto se abandona: A tutta briglia il suo destrier sperona. E mena al re Tardoco in prima gionta, E tra lor duo se comincio\ la danza, Con gran percosse di taglio e di ponta. Ma pur Sigieri il saracino avanza, Come Turpino al libro ce raconta; Al fin gli messe il brando per la panza, E le rene foro\ sotto al gallone, Via piu\ de un palmo passo\ ancor l' arcione. Ne/ avendo ancora il brando ri%avuto, Che/ forte ne l' arcione era inclinato, Per voler dare al re Tardoco aiuto Aponto Martasino era voltato; Ma, poi che il vidde a quel caso venuto, Che il freno aveva e il brando abandonato, Sopra a Sigieri un colpo orrendo lassa, E la barbuta e l' elmo gli fraccassa. Tanta possanza avea quel maledetto, Che per la fronte gli parti\ la faccia, E 'l collo aperse e giu\ divise il petto, Che/ non vi valse usbergo ne/ coraccia. Or bene ebbe Ranaldo un gran dispetto, E con Fusberta adosso a lui se caccia: Dico Ranaldo adosso a Martasino Lascia un gran colpo in su l' elmo acciarino. Forte era l' elmo, come aveti odito, E per quel colpo ponto non se mosse, Ma rimase il pagano imbalordito, Che/ la barbuta al mento se percosse, E stette un quarto de ora a quel partito, Che non sapeva in qual mondo se fosse; E, mentre che in tal caso fa dimora, Re Marbalusto col baston lavora. Ad ambe mano alzo\ la grossa maccia, E sopra al fio de Amon con furia calla; Ranaldo a lui rimena, non minaccia, Con sua Fusberta che giamai non falla. Meza la barba gli tolse di faccia, Che/ la masella pose in su la spalla, Ne/ elmo o barbuta lo diffese ponto, Che/ 'l viso gli taglio\, come io vi conto. Smarito di quel colpo il saracino Subitamente se pose a fuggire, E ritrovo\ nel campo il re Sobrino, Qual, veggendo costui in tal marti\re, #_ Ove e\, $_ cridava #_ dove e\ Martasino, E Bardarico, che ebbe tanto ardire? Ov' e\ Tardoco, il giovane mal scorto? So che Ranaldo ogniun di loro ha morto. Non fu dato credenza al mio parlare; Da Rodamonte apena me diffese, Quando a Biserta io presi a racontare La possanza di Carlo in suo paese. Se io dissi veritate ora si pare, Che/ faciamo la prova a nostre spese; Or fuggi tu, dapoi che ti bisogna, Che/ qua voglio io morir senza vergogna. $_ Cosi\ dicendo quel crudo vecchiardo Via va correndo e Marbalusto lassa; Tagliando e nostri senza alcun riguardo E sempre dissipando avanti passa. Da ciascun canto quel pagan gagliardo Destrieri insieme et omini fraccassa. E ne lo andare il forte saracino Trovo\ Ranaldo a fronte e Martasino. Perche/, dapoi che in se/ fu rivenuto, Fu con Ranaldo di novo alle mano, Ma certamente gli bisogna aiuto, Che/ male il tratta il sir de Montealbano. Come Sobrino il fatto ebbe veduto, Cridava, essendo alquanto anco lontano: #_ Ove son le prodezze e l' arroganze Che dimostravi in Africa di zanze? Ove lo ardir che avesti, e quella fronte Che dimostravi in quello giorno, quando Con tal ruina giu\ callavi il monte E che stimavi tanto poco Orlando? Or questo che ti caccia non e\ il conte, Che avevi morto e preso al tuo comando; Questo non e\ colui che ha Durindana, E pur ti caccia a guisa de puttana. $_ Non guarda Martasino a tal parlare, E ponto non l' intende e non l' ascolta, Che/ certamente aveva altro che fare, Tanto Ranaldo lo menava in volta. Ma il re Sobrin non stette ad aspettare: Avendo ad ambe man sua spada co\lta, Percosse di gran forza il fio d' Amone Sopra al cimier, che e\ un capo di leone. Un capo di leone e il collo e il petto Portava il pro' Ranaldo per cimiero, Ma il re Sobrino il tolse via di netto, Che/ tutto il fraccasso\ quel colpo fiero; Onde prese de cio\ molto dispetto, E volta a quel pagano il cavalliero; Ma, mentre che si volta, Martasino Percosse lui ne l' elmo de Mambrino. Come ne l' alpe, alla selva men folta, Da' cacciatori e\ l' orso circondato, Quando l' armata e\ d' intorno aricolta, Chi tra' davanti e chi mena da lato; Lui lascia questo, e a quello altro si volta, Che/ de ciascun vo^le esser vendicato, E mentre che a girarse piu\ se affretta, Piu\ tempo perde e mai non fa vendetta: Cotale era Ranaldo in quel zambello, Sendo condutto a quei pagani in mezo; A lui sempre feriva or questo or quello, Et esso a tutti attende e fa 'l suo pezo. Ciascuno de quei re sembrava ocello, Come scrive Turpino, il quale io lezo; Tanto eran presti e scorti nel ferire, Ch' io nol posso mostrar, ne/ in rima dire. Come io vi dico, senza alcun riguardo Qual dietro mena e qual tocca davante; Ma quel bon cavallier sopra a Baiardo Pur fa gran prove, e non potria dir quante. Mentre ha tal zuffa il principe gagliardo, Del monte era disceso il re Agramante, E di tanta canaglia il piano e\ pieno, Che par che al crido il mondo venga meno. Poco davanti e\ Rugier paladino, Daniforte vien dietro e Barigano, Et Atalante, quel vecchio indivino, Mulabuferso, che e\ re di Fizano, El re Brunello, il falso piccolino, Mordante, Dardinello e Sorridano, E seco Prusi%one e Manilardo E Balifronte, il perfido vecchiardo. Re de Almasilla vien Tanfiri%one: Chi potria racordar tutti costoro? Mancavi il re di Septa, Dorilone, Che dietro ne veni\a con Pinadoro. Provato ha l' uno il figlio di Melone, E l' altro e\ copi%oso di tesoro: Perche/ e ricchi hebban seguir tutti quanti, Mandan gli arditi e' disperati avanti. Per tal cagione indetro era rimaso Il re di Constantina e quel di Cetta, E ben confortan gli altri in questo caso A gire avanti, ove e\ la folta stretta. Ora me aiuta, ninfa di Parnaso, Suona la tromba e meco versi detta; Si\ gran baruffa me apparecchio a dire, Che senza aiuto io non potro\ seguire. Re Carlo tutto il fatto avea veduto, E a' soi rivolto il franco imperatore Dicea: #_ Filioli, il giorno oggi e\ venuto, Che sempre al mondo ce puo\ fare onore. Da Dio dovemo pur sperare aiuto, Ponendo nostra vita per suo amore, Ne/ perder se puo\ quivi, al parer mio: Chi stara\ contra noi, se nosco e\ Iddio? Ne/ vi spaventi quella gran canaglia, Benche/ abbia intorno la pianura piena; Che/ poco foco incende molta paglia, E piccol vento grande acqua rimena. Se fori%osi entramo alla battaglia, Non sosterranno il primo assalto apena. Via! Loro adosso a briglie abandonate! Gia\ sono in rotta; io il vedo in veritate. $_ Nel fin de le parole Carlo Mano La lancia arresta e sprona il corridore. Or chi seri\a quel traditor villano Che, veggendo alla zuffa il suo segnore, Non se movesse seco a mano a mano? Qua se levo\ l' altissimo romore; Chi suona trombe e chi corni, e chi crida: Par che il cel cada e il mondo se divida. Da l' altra parte ancora e Saracini Facean tremar de stridi tutto il loco. Correndo l' un ver l' altro son vicini: Discresce il campo in mezo a poco a poco, Fosso non vi e\ ne/ fiume che confini, Ma urtarno insieme gli animi di foco, Spronando per quel piano a gran tempesta; Ruina non fu mai simile a questa. Le lancie andarno in pezzi al cel volando, Cadendo con romore al campo basso, Scudo per scudo urto\, brando per brando, Piastra per piastra insieme, a gran fraccasso. Questa mistura a Dio la racomando: Re, caval, cavallier sono in un fasso, Cristiani e Saracini, e non discerno Qual sia del celo, qual sia de l' inferno. Chi rimase abattuto a quella volta, Non vi crediati che ritrovi iscampo, Che/ adosso gli passo\ quella gran folta, Ne/ se sviluppa^r mai di quello inciampo; Ma la schiera pagana in fuga e\ volta, E gia\ de' nostri e\ piu\ de mezo il campo; Ferendo e trabuccando a gran ruina, Via se ne va la gente saracina. Essendo da due arcate gia\ fuggiti, Pur li fece Agramante rivoltare; Allora e nostri, in volta e sbigotiti, Incominciarno il campo abandonare, Fuggendo avanti a quei che avean seguiti: Come intraviene al tempestoso mare, Che il maestrale il caccia di riviera, Poi vien sirocco, e torna dove egli era. Cosi\ tra Saracini e Cristi%ani Spesso nel campo se mutava il gioco, Or fuggendo or cacciando per quei piani, Cambiando spesso ciascaduno il loco, Benche/ e signori e' cavallier soprani Se traesseno a dietro a poco a poco. Pur la gente minuta e la gran folta Com' una foglia ad ogni vento volta. Tre fiate fu ciascun del campo mosso, Non potendo l' un l' altro sostenire. La quarta volta se tornarno adosso, E destinati son de non fuggire. Petto con petto insieme fu percosso; L' aspra battaglia e l' orrendo ferire Or se incomincia e la crudel baruffa: Questo con quello e quel con questo ha zuffa. Re Pulicano e Ottone, il bono anglese, Se urtarno insieme con la spada in mano; Rugiero al campo de' Cristian distese, Cio\ fu Grifon, cugin del conte Gano. Ricardo et Agramante alle contese Stettero alquanto sopra di quel piano, Ma al fin lo trasse il saracin de arcione, Poi rafronto\ Gualtier da Monli%one, E Barigano, el duca de Baiona, E Gulielmier di Scoccia, Daniforte. De Carlo Mano la real corona Feritte in testa Balifronte a morte. Re Moridano avea franca persona, Ne/ de lui Sinibaldo era men forte, Sinibaldo de Olanda, il conte ardito: Costor tocca^r l' un l' altro a bon partito. Apresso Daniberto, il re frisone, Col re de la Norizia, Manilardo; Brunello il piccolin, che e\ un gran giottone, Stava da canto con molto riguardo. Ma poco apresso il re Tanfiri%one S' affronto\ con Sansone, il bon picardo; E gli altri tutti, senza piu\ contare, Chi qua chi la\ se avean preso che fare. E\ la battaglia in se/ ramescolata, Come io ve dico, a questo assalto fiero; De crido in crido al fin fu riportata Sin la\ dove era il marchese Oliviero, Che combattuto ha tutta la giornata Contra a Grandonio, il saracino altiero, E fatto ha l' un a l' altro un gran dannaggio, Benche/ vi e\ poco o nulla d' avantaggio. Ma, si\ come Olivier per voce intese L' alta travaglia ove Carlo e\ condotto, Forte ne dolse a quel baron cortese: Lascio\ Grandonio e la\ corse di botto. Cosi\ fu reportato anche al Danese, Qual combatteva, e non era al desotto, Anci ben stava a Serpentino al paro; De la lor zuffa vi e\ poco divaro. Ma, come oditte che 'l re Carlo Mano Entrato era a battaglia si\ diversa, Subitamente abandono\ il pagano, Io dico Serpentin, l' anima persa, E via correndo il cavallier soprano Poggetti e valli e gran macchie atraversa, Sin che fu gionto sotto a l' alto monte Ove azuffato e\ Carlo e Balifronte. Cosi\ a ciascun che al campo combattia, Fu l' aspra zuffa subito palese, Ove il re Carlo e la sua baronia Contra Agramante stava alle contese. L' un piu\ che l' altro a gran fretta veni\a A spron battuti e redine distese, E si\ ve se adunarno a poco a poco, Che ormai non e\ battaglia in altro loco. Pero\ che 'l re Marsilio e Balugante, Grandonio di Volterna e Serpentino E l' altre gente sue, ch' eran cotante, Mirando per quel monte il gran polvino, Ben se stimarno che gli era Agramante, Et ormai gionger dovea per confino, Onde tornarno adietro a dargli aiuto; Ma gia\ con lor non viene Feraguto. Pero\ che era fiaccato in tal maniera Dal pro' Ranaldo, come io vi contai, Che, stando a rinfrescarsi alla riviera, Piu\ per quel giorno non torno\ giamai. Vago fu molto il loco dove egli era, De fiori adorno e de occelletti gai, Che empi\an di zoia il boschetto cantando, E la\ in nascosto stava ancora Orlando; Perche/, poi che esso lascio\ Pinadoro (Non so se ricordate il convenente), Venne in quel bosco e scese Brigliadoro, E la\ pregava Iddio devotamente Che le sante bandiere a zigli d' oro Siano abattute e Carlo e la sua gente; E pregando cosi\ come io ve ho detto, Lo trovo\ Feraguto in quel boschetto. Ne/ l' un de l' altro gia\ prese sospetto, Come se fo^rno insieme ravisati; Ma qual fosse tra lor l' ultimo effetto, Da poi vi narraro\, se me ascoltati. Or l' aspro assalto che di sopra ho detto, Quale ha tanti baron ramescolati, Si rinovo\ si\ crudo e si\ feroce, Che io temo che al contar manchi la voce. Onde io riprendero\ di posa alquanto, Poi tornaro\ con rime piu\ forbite, Seguendo la battaglia de che io canto, Ove l' alte prodezze fiano odite Di quel Rugier che ha di fortezza il vanto. Baron cortesi, ad ascoltar venite, Perche/ al principio mio io me dispose Cantarvi cose nove e dilettose. Il sol girando in su quel celo adorno Passa volando e nostra vita lassa, La qual non sembra pur durar un giorno A cui senza diletto la trapassa; Ond' io pur chieggio a voi che sete intorno, Che ciascun ponga ogni sua noia in cassa, Et ogni affanno et ogni pensier grave Dentro ve chiuda, e poi perda la chiave. Et io, quivi a voi tuttavia cantando, Perso ho ogni noia et ogni mal pensiero, E la istoria passata seguitando, Narrar vi voglio il fatto tutto intiero, Ove io lasciai nel bosco il conte Orlando Con Feraguto, quel saracin fiero, Qual, come gionse in su l' acqua corrente, Orlando il ricognobbe amantinente. Era in quel bosco una acqua di fontana; Sopra alla ripa il conte era smontato, Et avea cinta al fianco Durindana, E de ogni arnese tutto quanto armato. Or cosi\ stando in su quella fiumana, Gionse anche Feragu\ molto affannato, Di sete ardendo e d' uno estremo caldo Per la battaglia che avea con Ranaldo. Come fu gionto, senza altro pensare Discese de lo arcione incontinente; Trasse a se/ l' elmo e, volendo pigliare De l' onda fresca al bel fiume lucente, O per la fretta o per poco pensare L' elmo gli cadde in quella acqua corrente, Et ando\ al fondo sin sotto l' arena: Di questo Feraguto ebbe gran pena. L' elmo nel fondo basso era caduto, Ne/ sa quel saracin cio\ che si fare, Se non in vano adimandare aiuto E al suo Macone starsi a lamentare. In questo Orlando l' ebbe cognosciuto Al scudo e a l' arme che suolea portare; Et appressato a lui in su la riviera, Lo saluto\ parlando in tal maniera: #_ Chi te puote aiutare, ora te aiute, Et usi verso te tanta pietate, Che non te mandi a l' anime perdute, Essendo cavallier di tal bontate. Cosi\ te dricci alla eterna salute Cognoscimento de la veritate; Nel ciel gioia te doni e in terra onore, Come tu sei de' cavallieri il fiore. $_ Alciando Feraguto il guardo altiero A quel parlar cortese che ho contato, Incontinente scorto ebbe il quartiero, E ben se tenne alora aventurato, Poi che la cima de ogni cavalliero Aveva in quel boschetto ritrovato, Parendo a lui de averlo a sua bali\a O de pigliarlo o farli cortesia. E fatto lieto, dove era dolente Per quel bello elmo che e\ caduto al fondo, #_ Non vo' $_ disse #_ dolermi per ni%ente Piu\ mai di caso che mi venga al mondo; Perche/, dove io stimai de esser perdente, Piu\ contento mi trovo e piu\ iocondo Che esser potesse mai de alcuno acquisto, Dapoi che 'l fior d' ogni barone ho visto. Ma dimmi, se gli e\ licito a sapere: Perche/ nel campo, ove e\ battaglia tanta, Non te ritrovi a mostrar tuo potere, Dove Ranaldo sol de onor si vanta? Sopra di me ben l' ha fatto vedere, Che son fatato dal capo alla pianta Per tutti e membri, fora che un sol loco; Ma cio\ giovato me e\ ni%ente, o poco. Ne/ credo che abbia il mondo altro barone Qual superchi Ranaldo di valore, Benche/ per tutto sia la opini%one La qual ti tien di lui superi%ore; Ma se veder potessi il parangone E provar qual di voi fosse il minore Di fortezza, destrezza e de ardimento, E poi morissi, io moriria contento. E certo che io te volsi disfidare Come io te viddi et ebboti compreso, Che/ ogn' altra cosa fabula mi pare, Poiche/ dal fio de Amon me son diffeso. $_ Odendo Orlando questo ragionare, De ira e de sdegno fu nel core acceso, Onde rispose: #_ E' si puo\ dir con vero Ch' el fio de Amone e\ prodo cavalliero. Ma quel parlare e lunga cortesia Qual tanto loda alcun fuor di misura, Ne offende l' onor de altri in villania. Se tu tenessi in capo l' armatura, In poco d' ora si dimostraria Quel parangon de che hai cotanta cura; Se il valor di Ranaldo ti e\ palese, Me provaresti, e forse alle tue spese. Poscia che stracco sei di gran travaglia, Non ti farebbe adesso adispiacere, Che/ tornar voglio in campo alla battaglia, E, mal per qual che sia, faro\ vedere Se la mia spada al par d' una altra taglia. $_ Cosi\ parlando il conte, al mio parere, Con molta fretta et animo adirato Sopra al destrier sali\ de un salto armato. Rimase Feraguto alla foresta, Che era affannato, come io ve contai, Et era disarmato de la testa, E peno\ poi ad aver l' elmo assai. Ma il conte Orlando menando tempesta Via va correndo, e non se posa mai Sin che fu gionto a ponto in quelle bande Ove e\ la zuffa e la battaglia grande. Come io ve dissi nel passato giorno, Re Carlo et Agramante alla frontiera Avea ciascuno e suoi baroni intorno: Battaglia non fu mai piu\ orrenda e fiera. Non vi e\ chi voglia di vergogna scorno, Ma ciascun vo^l morir piu\ volentiera E che sia il spirto e l' animo finito, Che abandonar del campo preso un dito. Le lancie rotte e' scudi fraccassati, Le insegne polverose e le bandiere, E' destrier morti e' corpi riversati Facean quel campo orribile a vedere; E' combattenti insieme amescolati, Senza governo, on ordine de schiere, Facean romore e crido si\ profondo, Come cadesse con ruina il mondo. Lo imperator per tutto con gran cura Governa, combattendo arditamente, Ma non vi giova regula o misura: Suo comandar stimato e\ per ni%ente; E benche/ egli abbia un cor senza paura, Pur mirando Agramante e sua gran gente, De retirarse stava in gran pensiero, Quando cognobbe Orlando al bel quartiero. Correndo veni\a il conte di traverso, Superbo in vista, in atto minacciante. Levosse il crido orribile e diverso, Come fu visto quel segnor de Anglante; E se alcun forse avea l' animo perso, Mirando il paladin se trasse avante; E 'l re Carlon, che 'l vidde di lontano, Lodava Idio levando al cel le mano. Or chi contara\ ben l' assalto fiero? Chi potra\ mai quei colpi dessignare? Da Dio l' aiuto mi fara\ mestiero, Volendo il fatto aponto racontare; Perche/ ne l' aria mai fu trono altiero, Ne/ groppo di tempesta in mezo al mare, Ne/ impeto d' acque, ne/ furia di foco, Qual l' assalir de Orlando in questo loco. Grandonio di Volterna, il fier gigante, Gionto era alora alla battaglia scura; Con un baston di ferro aspro e pesante Copria de morti tutta la pianura. Questo trovosse al conte Orlando avante, E ben gli bisognava altra ventura, Che/ tal scontro di lancia ebbe il fellone, Che mezo morto usci\ fuor de l' arcione. Quel cadde tramortito alla foresta; Il conte sopra lui non stette a bada, Ma trasse il brando e mena tal tempesta Come a ruina lo universo cada, Fiaccando a cui le braccia, a cui la testa. Non si trova riparo a quella spada, Ne/ vi ha diffesa usbergo, piastra, o maglia, Che/ omini e l' arme a gran fraccasso taglia. Cavalli e cavallieri a terra vano Ovunque ariva il conte furi%oso. Ecco tra gli altri ha visto Cardorano, Quel re di Mulga, che e\ tutto peloso. Il paladin il gionse ad ambe mano, E parte il mento e 'l collo e 'l petto gioso; Lui cade de l' arcion morto di botto, Il conte il lascia e segue il re Gualciotto: Il re Gualciotto di Bellamarina, Qual ben fuggia da lui piu\ che di passo; E 'l conte fra la gente saracina Segue lui solo e mena gran fraccasso, Che/ porlo in terra al tutto se destina; Ma avanti se gli oppose Dudrinasso, A benche/ dir non sappia in veritate Se sua sciagura fosse o voluntate. Costui ch' io dico, e\ re de Libicana. Un volto non fu mai cotanto fiero, Larga la bocca avea piu\ de una spana; Grosso e membruto e come un corbo nero. Orlando lo assali\ con Durindana Et ispiccolli il capo tutto intiero; Via volo\ l' elmo, e dentro avia la testa: Gia\ per quel colpo il conte non s' arresta, Perche/ adocchiato avea Tanfiri%one, Re de Almasilla, orrenda creatura, Che esce otto palmi e piu\ sopra a l' arcione, Et ha la barba insino alla cintura. A questo gionse il figlio de Melone, E ben gli fece peggio che paura, Perche/ ambedue le guanze a mezo 'l naso Parti\ a traverso il viso a quel malvaso. Ne/ a si\ gran colpi in questo assalto fiero Giamai se allenta il valoroso conte. Piu\ non se trova re ne/ cavalliero Qual pur ardisca di guardarlo in fronte, Quando vi gionse il giovane Rugiero, E vidde fatto di sua gente un monte: Un monte rasembrava piu\ ne/ meno, Tutto di sangue e corpi morti pieno. Cognobbe Orlando a l' insegna del dosso, A benche/ a poco se ne discernia, Che/ il quarto bianco quasi e\ tutto rosso, Pel sangue de' Pagan che morti avia. Verso del conte il giovane fu mosso: Ben vi so dir che ormai de vigoria, De ardire e forza e di valore acceso, Una sol dramma non vi manca a peso. E se incontrarno insieme a gran ruina: Tempesta non fu mai cotanto istrana Quando duo venti in mezo la marina Se incontran da libezio a tramontana. De le due spade ogniuna era piu\ fina: Sapeti ben qual era Durindana, E qual tagliare avesse Balisarda, Che fatasone e l' arme non riguarda. Per far perire il conte questo brando Fu nel giardin de Orgagna fabricato: Come Brunello il ladro il tolse a Orlando, E come Rugier l' ebbe, e\ gia\ contato, Piu\ non bisogna andarlo ramentando; Ma seguendo l' assalto incominciato, Dico che un si\ crudele e si\ perverso Non fu veduto mai ne l' universo. Come loro arme sian tela di ragna, Tagliano squarci e fanno andare al prato. Di piastre era coperta la campagna, Ciascadun de essi e\ quasi disarmato, E l' un da l' altro poco vi guadagna: Sol di colpi crudeli han bon mercato; E tanto nel ferir ciascun s' affretta, Che l' una botta l' altra non aspetta. Sopra de Orlando il giovane reale Ad ambe mano un gran colpo distese, E spezzo\ l' elmo dal cerchio al guanzale, Che/ fatason ne/ piastra lo diffese. Vero che al conte non tocca altro male, Come a Dio piacque; che/ il colpo discese Tra la farsata aponto e le mascelle, Si\ che lo rase e non tocco\ la pelle. Orlando feri\ lui con tanta possa, Che spezzo\ il scudo a gran destruzi%one, Ne/ lo ritenne nerbo o piastra grossa, Ma tutto lo parti\ sino a lo arcione; E fuor discese il colpo ne la cossa, Tagliando arnese et ogni guarnisone: La carne non taglio\, ma poco manca, Che/ il celo aiuta ogni persona franca. Fermate eran le gente tutte quante A veder questi duo si\ ben ferire; Et in quel tempo vi gionse Atalante, Qual cercava Rugiero, il suo disire; E come visto l' ebbe a se/ davante Per quel gran colpo a risco de morire; Subito prese tanto disconforto, Che quasi dal destrier cadde giu\ morto. Incontinente il falso incantatore Formo\ per sua mala arte un grande inganno E molta gente finse, con romore, Che fanno a Cristi%an soperchio danno. Nel mezo sembra Carlo imperatore Chiamando: #_ Aiuto! aiuto! $_ con affanno: Et Olivier legato alla catena, Un gran gigante trasinando il mena. Ranaldo a morte la\ parea ferito, Passato de un troncone a mezo il petto, E cridava: #_ Cugino, a tal partito Me lasci trasinar con tal dispetto? $_ Rimase Orlando tutto sbigotito, Mirando tanto oltraggio al suo cospetto, Poi tutto il viso tinse come un foco Per la grande ira, e non trovava loco. A gran roina volta Brigliadoro, E Rugiero abandona e la battaglia, Ne/ prende al speronare alcun ristoro. Avanti ad esso fugge la canaglia, Menando li pregioni in mezo a loro, Che gli ha de intorno fatto una serraglia; E proprio sembra che li porti il vento, Tanta e\ la forza de lo incantamento! Rugier, poiche/ partito e\ il paladino, Rimase assai turbato ne la mente; Prese una lancia e, rivolto Frontino, Con molta furia da\ tra nostra gente, E sopra al campo ritrovo\ Turpino. Ne/ vespro o messa a lui valse ni%ente, Ne/ paternostri on altre orazi%one, Che/ a gambe aperte usci\ fuor de l' arcione. Rugier lo lascia e a gli altri se abandona, Come dal monte corre il fiume al basso; Colse nel petto al duca di Baiona, E tutto lo passo\ con gran fraccasso. Re Salamon, che in capo ha la corona, Ando\ col suo destrier tutto in un fasso; Da\ a Belenzero, Avorio, Ottone e Avino: Tra lor non fu vantaggio de un lupino; Che/ tutti quattro insieme nel sabbione Se ritrovarno a dar de' calci al vento. Rugier tutti gli abatte, el fier garzone, E sempre cresce in forza et ardimento; Poi riscontro\ Gualtier da Monli%one, E fuor di sella il caccia con tormento. Non fu veduto mai cotanta lena: Quanti ne trova, al par tutti li mena. Gia\ gli altri saracin, che prima ascosi Per la tema de Orlando eran fuggiti, Or piu\ che mai ritornano animosi, E sopra al campo se mostrano arditi. Rugier fa colpi si\ meravigliosi, Che quasi sono e nostri sbigotiti, Ne/ posson contrastare a tanta possa; La gente a le sue spalle ognior se ingrossa. Pero\ che 'l re Agramante e Martasino Dopo Rugiero entrarno al gran zambello, Mordante e Barigano e 'l re Sobrino, Atalante il mal vecchio e Dardinello, Mulabuferso, il franco saracino; E dietro a tutti stava il re Brunello, Benche/ conforta ogniom che avanti vada, Per governar qualcosa che gli cada. Rugier davanti fa si\ larga straza Che non bisogna a lor troppa possancia, Ne/ fuor del fodro ancor la spada caza, Pero\ che resta integra la sua lancia. Ben vi so dir che Carlo oggi tramaza, E fia sconfitta la corte di Francia. Ma non posso al presente tanto peso: Nel terzo libro lo porro\ disteso. Prima vi vo' contar quel che avenisse Del conte Orlando, il quale avea seguito Quel falso incanto, si\ come io vi disse, Ove sembrava Carlo a mal partito. Parea che avanti a lui ciascun fuggisse Tremando di paura e sbigotito, Sin che fo^r gionti al mare in su l' arena, Poco lontani alla selva de Ardena. Di verde lauro quivi era un boschetto Cinto d' intorno de acqua di fontana, Ove disparve il popol maledetto: Tutto ando\ in fumo, come cosa vana. Ben se stupitte il conte, vi prometto, Per quella meraviglia tanto istrana, E sete avendo per la gran calura, Entro\ nel bosco in sua mala ventura. Come fu dentro, scese Brigliadoro Per bere al fonte che davanti appare; Poi che legato l' ebbe ad uno alloro, Chinosse in su la ripa a l' onde chiare. Dentro a quell' acqua vidde un bel lavoro, Che tutto intento lo trasse a mirare: La\ dentro de cristallo era una stanza Piena di dame: e chi suona, e chi danza. Le vaghe dame danzavano intorno, Cantando insieme con voce amorose, Nel bel palagio de cristallo adorno, Scolpito ad oro e pietre prezi%ose. Gia\ se chinava a l' occidente il giorno, Alor che Orlando al tutto se dispose Vedere il fin di tanta meraviglia, Ne/ piu\ vi pensa e piu\ non se consiglia; Ma dentro a l' acqua si\ come era armato Gettossi e presto gionse insino al fondo, E la\ trovosse in piede, ad un bel prato: Il piu\ fiorito mai non vidde il mondo. Verso il palagio il conte fu invi%ato, Et era gia\ nel cor tanto giocondo, Che per letizia s' amentava poco Perche/ fosse qua gionto e di qual loco. A lui davante e\ una porta patente, Qual d' oro e\ fabricata e di zafiro, Ove entro\ il conte con faccia ridente, Danzando a lui le dame atorno in giro. Mentre che io canto, non posa la mente, Che/ gionto sono al fine, e non vi miro; A questo libro e\ gia\ la lena tolta: Il terzo ascoltareti un' altra volta. {add} Pero\ lassiati Orlando in questa parte, Chi vi sta senza pena e senza lagno. A dir come lo trasse Brandimarte Di questo incanto, il suo fido compagno, Bisognarebe agionger molte carte; Farebe il stampitor poco guadagno. Ma a cui piacesse pur saper il resto, Venga a vederlo, e fia stampito presto.{/add 1487; omitted Z} Alor con rime elette e miglior versi Faro\ battaglie e amor tutto di foco; Non seran sempre e tempi si\ diversi Che mi tragan la mente di suo loco; Ma nel presente e canti miei son persi, E porvi ogni pensier mi giova poco: Sentendo Italia de lamenti piena, Non che or canti, ma sospiro apena. A voi, legiadri amanti e damigelle, Che dentro ai cor gentili aveti amore, Son scritte queste istorie tanto belle Di cortesia fiorite e di valore; Cio\ non ascoltan queste anime felle, Che fan guerra per sdegno e per furore. Adio, amanti e dame pellegrine: A vostro onor di questo libro e\ il fine. {tit} Libro terzo de Orlando Inamorato, nel quale se contiene le prodeze de Mandricardo et altri cavallieri con la liberazione de Orlando et altri palaini, genealogie de Rugiero, assedio de Parigi et d' amore vano de Fiordespina con Bradamante {/tit} Come piu\ dolce a' naviganti pare, Poi che fortuna li ha battuti intorno, Veder l' onda tranquilla e queto il {add} mare, {/add; mare Z} L' aria serena e il cel di stelle adorno; E come il peregrin nel caminare Se allegra al vago piano al novo giorno, Essendo fuori uscito alla sicura De l' aspro monte per la notte oscura; Cosi\, dapoi che la infernal tempesta De la guerra spietata e\ dipartita, Poi che tornato e\ il mondo in zoia e in festa E questa corte piu\ che mai fiorita, Faro\ con piu\ diletto manifesta La bella istoria che ho gran tempo ordita: Venite ad ascoltare in cortesia, Segnori e dame e bella baronia. Le gran battaglie e il tri%omfale onore Vi contaro\ di Carlo, re di Franza, E le prodezze fatte per amore Dal conte Orlando, e sua strema possanza; Come Rugier, che fu nel mondo un fiore, Fosse tradito; e Gano di Maganza, Pien de ogni fellonia, pien de ogni fele, Lo uccise a torto, il perfido crudele. E seguirovi, si\ come io suoliva, Strane aventure e battaglie amorose, Quando virtute al bon tempo fioriva Tra cavallieri e dame grazi%ose, Facendo prove in boschi et ogni riva, Come Turpino al suo libro ce espose. Cio\ vo' seguire, e sol chiedo di graccia Che con diletto lo ascoltar vi piaccia. Nel tempo che il re Carlo de Pipino Mantenne in Franza stato alto e giocondo, Usci\ di Tramontana un Saracino, Che pose quasi lo universo al fondo; Ne/ dove il sol se leva a matutino, Ne/ dove calla, ne/ per tutto il mondo, Fo mai trovato in terra un cavalliero Di lui piu\ franco e piu\ gagliardo e fiero. Mandricardo appellato era il Pagano, Qual tanta forza e tale ardire avia, Che mai non vesti\ l' arme il piu\ soprano, Et era imperator di Tartaria; Ma fo tanto superbo et inumano Che sopra alcun non volse segnoria, Che non fosse in battaglia esperto e forte: A tutti gli altri facea dar la morte. Onde fo il regno tutto disertato, Abandono\ ciascuno il suo paese. Ora trovosse un vecchio disperato, Qual, non sapendo fare altre diffese, Passando avanti al re preso e legato Con alti cridi a terra se distese, Facendo si\ diverso lamentare Che ogni om trasse intorno ad ascoltare. #_ Mentre ch' io parlo, $_ disse il vecchio #_ aspetta, E poi farai di me quel che ti pare. L' anima del tuo patre maledetta Non puo\ il mal fiume allo inferno passare, Perche/ scordata se e\ la sua vendetta. Sopra alla ripa stassi a lamentare: Stassi piangendo e tien la testa bassa, Che/ ogni altro morto sopra li trapassa. Il tuo patre Agrican, non so se 'l sai, O nol saper te infingi per paura, Dal conte Orlando occiso fo con guai: A te del vendicar tocca la cura. Tu fai morir chi non te offese mai, E meni per orgoglio tanta altura; Non e\ stimato, datelo ad intendere, Chi offende quel che non si puo\ deffendere. Va, trova lui, che ti potra\ respondere, E mostra contra a Orlando il tuo furore. La tua vergogna non si puo\ nascondere: Troppo e\ palese ogni atto de segnore. Codardo e vile, or non ti de\i confondere Pensando alla onta grande e il disonore Qual ti fu fatto? E sei tanto da poco Che hai faccia de apparire in alcun loco? $_ Cosi\ cridava il vecchio ad alta voce, Come io vi conto, e piu\ volea seguire; Se non che Mandricardo, il re feroce, A lo ascoltar non puote sofferire. Una ira si\ rovente il cor li coce, Che se convenne subito partire, E ne la zambra se serro\ soletto, Di sdegno ardendo tutto e de dispetto. Dopo molto pensar prese partito Suo stato e tutto il regno abandonare. Per non esser da altrui mostrato a dito Giuro\ nella sua corte mai tornare, Ma reputar se stesso per bandito Sin che il suo patre possa vendicare; Ne/ a se/ ritenne tal pensiero in petto, Ma palesollo e poselo ad effetto. Avendo a tutto il regno proveduto Di bon governo de optima persona, Nel tempio de' suoi dei ne fo venuto, E sopra al foco offerse la corona; Poi se parti\ la notte scognosciuto, Et a fortuna tutto se abandona: Senza arme, a piede, come peregrino Verso ponente prese il suo camino. Arme non tolse e non mena destriero, Per non voler che al mondo fosse detto Che alcuno aiuto a lui facea mestiero Per vendicar sua onta e suo dispetto. E lui prosume molto de legiero De acquistarse arme e un bon destrier eletto, Si\ che ponga ad effetto el suo disegno Sol sua prodezza, e non forza di regno. Cosi\, soletto sempre caminando, Passo\ gli Armeni et altra regi%one, E da un colletto un giorno remirando Presso a una fonte vidde un paviglione. La\ giu\ se calla, nel suo cor pensando, Se vi trova arme dentro ne/ ronzone, Per forza o bona voglia a ogni partito Non se levar de la\ se non fornito. Poiche/ fu gionto in su la terra piana, Ne la cortina entro\ senza paura. Non vi e\ persona prossima o lontana, Che abbia del pavaglion guarda ne/ cura; Solo una voce usci\ de la fontana, Qual gorgogliava per quella acqua pura, Dicendo: #_ Cavallier, per troppo ardire Fatto e\i pregione, e non te poi partire. $_ O che lui non odette, o non intese, Alle parole non pose pensiero, Ma per il pavaglione a cercar prese, Se ivi trovasse ne/ arme ne/ destriero. L' arme a un tapete tutte eran distese, Cio\ che bisogna aponto a un cavalliero; E li\ fuori ad un pino in su quel sito Legato era un ronzon tutto guarnito. Quello ardito baron senza pensare L' arme se pose adosso tutte quante. Preso e\ il destriero e, via volendo andare, Subito un foco a lui sorse davante. Nel pino prima si ebbe a divampare, E, quello acceso sin sotto le piante, Per ogni lato il foco se trabocca, Ma sol la fonte e il pavaglion non tocca. Gli arbori e l' erbe e pietre di quel loco Tutte avamparno a gran confusi%one; La fiamma cresce intorno a poco a poco, Tanto che dentro chiuse quel barone. A lui se aventa lo incantato foco Ne l' elmo, el scudo, et ogni guarnisone, E lo usbergo de acciaro e piastre e maglia Gli ardeano a cerco, come arida paglia. El cavallier per cosa tanto strana Lo usato orgoglio ponto non abassa; Smonta de arcion quella anima soprana, Per mezo il foco via correndo passa. Come fu gionto sopra alla fontana, Dentro vi salta e al fondo andar si lassa; Ne/ piu\ potea campare ad altra guisa: Arso era tutto insino alla camisa. Che/, come io dissi, e piastre e maglia e scudo Gli ardeano atorno come foco di esca; Arse la giuppa, e lui rimase ignudo Si\ come nacque, in mezo a l' onda fresca; E mentre che a diletto il baron drudo Per la bella acqua se solaccia e pesca, Parendo ad esso uscito esser de impaccio, Ad una dama se ritrova in braccio. Era la fonte tutta lavorata Di marmo verde, rosso, azurro e giallo E, l' acqua tanto chiara e riposata, Che traspareva a guisa de cristallo; Onde la dama che entro era spogliata, Cosi\ mostrava aperto senza fallo Le poppe e il petto e ogni minimo pelo, Come de intorno avesse un sotil velo. Questa ricolse in braccio quel barone, Basandoli la bocca alcuna fiata, E disse ad esso: #_ Voi seti pregione, Come molti altri, al Fonte de la Fata; Ma, se sereti prodo campi%one, Cotanta gente fia per voi campata, Tanti altri cavallieri e damigelle, Che vostra fama passara\ le stelle. Perche/ intendiati il fatto a passo a passo, Fece una fata ad arte la fontana, Che tanti cavallieri ha posti al basso, Che nol potria contar la gente umana. Quivi pregione e\ il forte re Gradasso, Quale e\ segnor di tutta Sericana; Di la\ da la India grande e\ il suo paese: Tanto e\ potente, e pur non se diffese! Seco pregione e\ il nobile Aquilante E lo ardito Grifon, che e\ suo germano, Et altri cavallieri e dame tante, Che a numerarli me affatico invano. Oltre a quel poggio che vedeti avante, Edificato e\ un bel castello al piano, Ove rinchiuse dentro ha quella fata L' arme di Ettorre, e mancavi la spata. {add} Etto\r {/add; Ettor Z} di Troia, il tanto nominato, Fu la eccellenzia di cavalleria, Ne/ mai si trovara\ ne/ fu trovato Chi il pareggiasse in arme o in cortesia. Ne la sua terra essendo assedi%ato Da re settanta et altra baronia, Dece anni a gran battaglie e piu\ contese: Per sua prodezza sol se la difese. Mentre ch' egli ebbe il grande assedio intorno, Se puo\ donar tra gli altri unico vanto Che trenta ne sconfisse in un sol giorno, Che de battaglia avea mandato il guanto; Poi d' ogni altra virtu\ fu tanto adorno, Che il par non ebbe il mondo tutto quanto, Ne/ il piu\ bel cavallier, ne/ il piu\ gentile; A tradimento poi lo occise Achile. Come fu morto, ando\ tutta a roina Troia la grande e consumosse in foco. Or dir vi vo' di sua armatura fina Come se trovi adesso in questo loco. Prima la spata prese una regina Pantasilea nomata; e in tempo poco, Essendo occisa in guerra, perse il brando; Poi l' ebbe Almonte; adesso il tiene Orlando. Tal spata Durindana e\ nominata (Non so se mai la odesti racordare), Che sopra a tutti e brandi vien lodata. Or de l' altre arme vi voglio contare. Poi che fu Troia tutta dissipata, Gente da quella se parti\ per mare Sotto un lor duca nominato Enea; Lui tutte l' arme eccetto il brando avea. De Ettorre era parente prossimano El duca Enea, che avea quella armatura; E questa fata, per un caso istrano, Trasse tal duca de disaventura, Che era condotto a un re malvaggio in mano, Che 'l tenea chiuso in una sepoltura: Stimando trar da lui tesoro assai, Lo tenea chiuso e preso in tanti guai. La fata con incanto lo disciolse, Per arte il trasse fuor del monumento, E per suo premio le belle arme volse, E il duca de donarle fu contento. Lei poscia a questo loco se racolse E fece l' opra de lo incantamento Onde io vi menaro\, quando vi piacia, E provaro\ se in core aveti audacia. Ma quando non ve piaccia de venire E vinto vi trovati da viltate, Contro a mia voglia me vi convien dire Quel che sera\ di voi la veritate: In questa fonte vi convien perire, Come perita vi e\ gran quantitate; De quai memoria non sera\ in eterno, Che/ il corpo e\ al fondo e l' anima a lo inferno. $_ A Mandricardo tal ventura pare Vera e non vera, si\ come si sogna; Pur rispose alla dama: #_ Io voglio andare Ove ti piace e dove mi bisogna; Ma cosi\ ignudo non so che mi fare, Che/ me ritiene alquanto la vergogna. $_ Disse la dama: #_ Non aver pavento, Che/ a questo e\ fatto bon provedimento. $_ E soi capegli a se/ sciolse di testa, Che/ ne avea molti la dama ioconda, Et abracciato il cavallier con festa Tutto il coperse de la treccia bionda; Cosi\, nascosi entrambi di tal vesta, Usci^r di quella fonte la bella onda, Ne/ ferno al dipartir lunga tenzone, Ma insieme a braccio entrarno al pavaglione. Non lo avea tocco, come io disse, il foco, Pieno e\ di fiori e rose damaschine. Loro a diletto se posarno un poco Entro un bel letto adorno de cortine. Gia\ non so dir se fecero altro gioco, Che/ testimonio non ne vide el fine; Ma pur scrive Turpin verace e giusto Che il pavaglion crollava intorno al fusto. Poi che fo^r stati un pezo a cotal guisa Tra fresche rose e fior che mena aprile, La damigella prese una camisa Ben perfumata, candida e sotile; Poi de una giuppa a piu\ color divisa Di sua man vesti\ il cavallier gentile; Calcie gli die\ vermiglie e speron d' oro, Poi lo armo\ a maglia de sotil lavoro. Dopo lo arnese lo usbergo brunito Gli pose in dosso, e cinse il brando al fianco, E uno elmo a ricche zoie ben guarnito Li porse e cotta d' arme e scudo bianco; Indi condusse un gran destriero ardito, E Mandricardo non parve gia\ stanco, Ne/ che lo impacci l' arme o guarnisone: D' un salto armato entro\ sopra allo arcione. La damigella prese un palafreno Che ad un verde genevre era legato, E caminando un miglio o poco meno Passarno il colle e gionsero al bel prato, Dicendo a lui la dama: #_ Intendi appieno, Che/ tutto il fatto ancor non te ho contato: Accio\ che intenda ben quel che hai a fare, Col re Gradasso converrai giostrare. Adesso del castello e\ campi%one E diffensore il re tanto membruto; Cotale impresa prima ebbe Grifone, Qual da lui poco avanti fu abattuto. Se quel te vince, restarai pregione Sin che altro cavallier ti doni aiuto; Ma se lui getti sopra alla pianura, Te provarai a l' ultima ventura. Provar convienti al glori%oso acquisto Di prender l' arme che fo^rno di Etto\re; Piu\ forte incanto il mondo non ha visto, E sino a qui ciascun combattitore Ce e\ reuscito a tale impresa tristo, Ne/ par che gionga alcuno a tanto onore; E tu la proverai, poiche/ e\i venuto: Fortuna o tua virtu\ ti dara\ aiuto. $_ Cosi\ parlando gionsero al castello. Mai non se vidde il piu\ ricco lavoro: Le mura ha de alabastro, e il capitello De ogni torre e\ coperto a piastre d' oro. Verdeggiava davanti un praticello Chiuso de mirto e de rami de aloro Piegati insieme a guisa di steccato, E stavi dentro un cavalliero armato. #_ El re Gradasso e\ quel che avanti appare $_ Disse la dama #_ dentro a quel ridotto. Ora con me non averai a fare, Che sempre teco mi trovai di sotto. $_ E Mandricardo, odendo tal parlare, La vista a l' elmo se chiuse di botto; Spronando a tutta briglia e gran tempesta, A mezo il corso l' asta pose a resta. Da l' altra parte il forte re Gradasso Contra di lui se mosse con gran fretta. Alcun de' duo corsier non mostra lasso, Anci sembravan folgore e saetta, E se incontrarno insieme a tal fraccasso, Che par che nello inferno il cel si metta E la terra profondi e la marina: Odita non fu mai tanta ruina. Ni quel ni questo se mosse de arcione, E si\ fiaccarno l' una e l' altra lanza, Che sino a l' aria andava ogni troncone: Un palmo integro d' esse non avanza. Or veder se conviene il parangone De' cavallieri e l' ultima possanza, Perche/, voltati con le spade in mano, Se razuffarno insieme in su quel piano. Comincia^r la battaglia orrenda e scura: Gia\ non mostrava un scherzo il crudo gioco, Che/ pure a riguardarlo era paura, Perche/ a ogni colpo se avampava el foco. A pezzi si ne andava ogni armatura, Gia\ ne era pieno il prato in ogni loco; E lor pur drieto, e non guardano a quella: Ciascuno a piu\ furor tocca e martella. Duo guerrier son costor di bona raccia, E ben lo dimostravan ne lo {t} aspetto: {/t S; aspetto; Z} Cinque ore e piu\ duro\ tra lor la {t} traccia; {/t S; traccia, Z} Pervennero alla fine in questo effetto, Che Mandricardo il re Gradasso abraccia Per trarlo de lo arcione al suo dispetto, E il re Gradasso a lui se era afferrato, Si\ che ne andarno insieme in su quel prato. Non so se fu fortuna o fusse caso, Quando caderno entrambi de lo arcione Di sopra Mandricardo era rimaso, E convenne a Gradasso esser pregione. Gia\ se ne andava il sol verso l' occaso Allor che se fini\ la questi%one, E la donzella di cui vi ho parlato, Con piacevol sembiante entro\ nel prato; Et a Gradasso disse: #_ O cavalliero, Vetar non po^sse quel che vo^l fortuna; Lasciar questa battaglia e\ di mestiero, Perche/ la notte vene e il cel se imbruna. Ma a te che hai vinto, tocca altro pensiero, E dir ti so che mai sotto la luna Fo si\ strana ventura in terra o in mare, Come al presente converrai provare. Come di novo il giorno sia apparito, Vedrai l' arme di Ettorre e chi le guarda; Ora che il sole all' occidente e\ gito, Entrar non po^i, che/ l' ora e\ troppo tarda. In questo tempo pigliaren partito Che tua persona nobile e gagliarda Qua sopra a l' erba prenda alcun riposo, Sin che il sol se alci al giorno luminoso. Dentro alla rocca non potresti entrare (Di notte mai non se apre quella porta); Tra fiori e rose qua po^i riposare, Et io vegliando a te faro\ la scorta. Ben, se ti piace, te posso menare Ove una dama grazi%osa e accorta Onora ciascaduno a un suo palagio, Ma temo che ivi avresti onta e dannagio. Perche/ un ladron, che Dio lo maledica! Quale e\ gigante e nome ha Malapresa, Alla donzella, come sua nemica, Fa gran danno et oltraggio et ogni offesa; Onde non pigliarai questa fatica, Che/ converresti seco aver contesa, Ne/ a te bisogna piu\ briga cercare, Perche/ domane avrai troppo che fare. $_ Rispose Mandricardo: #_ In fede mia, Tutto e\ perduto il tempo che ne avanza, Se in amor non si spende o in cortesia, O nel mostrare in arme sua possanza; Onde io ti prego per cavalleria Che me conduci dentro a quella stanza Qual m' hai contata; e farem male o bene, Se Malapresa ad oltraggiar ce viene. $_ Per compiacere adunque al cavalliero La damigella se pose a camino. Lei era a palafreno, esso a destriero, Si\ che in poca ora gionsero al giardino Ove e\ posto il palagio del verziero, Qual lustreggiava tutto quel confino; Cotanti lumi accesi avea de intorno, Che si cerniva come fusse il giorno. Sopra alla porta del palagio altano Era un verone adorno a meraviglia, Ove si stava giorno e notte un nano, Che di far guarda molto se assotiglia. Come suonato ha il corno, a mano a mano Corre de intorno tutta la famiglia; E se egli e\ Malapresa, il rio ladrone, Saette e sassi tran da ogni balcone. Se egli e\ barone, o cavalliero errante, Dece donzelle, ad onorare avezze, Apron la porta e con lieto sembiante Al cavallier fan festa e gran carezze; E notte e giorno il servon tutte quante, Con si\ bon viso e tal piacevolezze E con tanto piacere e tanta zoglia, Che indi a partirse mai non li vien voglia. Dunque a tal modo tra le dame accolto Fu Mandricardo con faccia serena. La dama del verzier con lieto volto A braccio seco festeggiando il mena; Ne/ passeggiarno per la loggia molto, Che con diletto se assettarno a cena, Serviti alla real di banda in banda De ogni maniera de optima vivanda. A lor davanti cantava una dama, E con la lira a se/ facea tenore, Narrando e gesti antichi e di gran fama, Strane aventure e bei moti d' amore; E mentre che de odire avean piu\ brama, Odirno per la corte un gran romore. #_ Ahime\! ahime\! $_ dicean #_ che cosa e\ questa, Che 'l nano suona il corno a tal tempesta? $_ Cosi\ dicean le dame tutte quante, E ciascuna nel viso parea morta. Gia\ Mandricardo non muto\ sembiante, Che/ era venuto a posta per tal scorta. Perche/ intendiati il tutto, quel gigante De cui vi dissi, avea rotta la porta, E del romore e gran confusi%one Che ora vi conto, lui ne era cagione. Entro\ cridando quel dismisurato: Parean tremar le mura alla sua voce; De una spoglia di serpe ha il busto armato, Che spata o lancia ponto non vi no^ce. Portava in mano un gran baston ferrato Con la catena il malandrin feroce; In capo avea di ferro un bacinetto, Nera la barba e grande a mezo il petto. Quando egli entrava ne la loggia aponto, Tratto avea Mandricardo il brando apena; Ne/ stette a calcular la posta o il conto, Ma nel primo arivare assalta e mena, Et ebbe nella cima il baston gionto, E via taglio\ di netto la catena. Ricopra il colpo e tira un manroverso, E taglio\ tutto il scudo per traverso. Per questo colpo il gigante adirato Meno\ del suo baston, che a due man prese; E il cavallier de un salto ando\ da lato, E ben de gioco a quella posta rese; A ponto gionse dove avea segnato, Sotto al ginocchio, al fondo de lo arnese, E spezzo\ quello e le calcie di maglia, Si\ che le gambe ad un colpo gli taglia. Quel cade a terra. A voi lascio pensare Se le donzelle ne menavon festa. Piu\ Mandricardo nol volse toccare, Onde un sergente li parti\ la testa. Fuor del palagio il fecer trasinare, E longi il sepellirno alla foresta; Le gambe getta^r seco in quella fossa: Di lui piu\ mai non si parlo\ da possa. Come se stato mai non fosse al mondo, Di lui piu\ non si fa ragionamento. Le dame cominciarno un ballo in tondo, Suonando a fiato, a corde ogni instromento, Con voci vive e canto si\ iocondo, Che ciascun qual ne avesse intendimento, Essendo poco a quel giardin diviso, Giurato avria la\ dentro il paradiso. Cosi\ durando il festeggiar tra loro, Bona parte di notte era passata, E stando incerco come a consistoro, Venne di dame una nova brigata: Chi ha frutti, chi confetti e coppe d' oro, E ciascuna fu presto ingenocchiata, E la dama cortese e il cavalliero Se renfrescarno senza altro pensiero. De bianche torze vi e\ molto splendore, E girno a riposar senza sospetti. Parate eran le zambre a grande onore De fina seta e bianchissimi letti; Rame de aranci intorno a molto odore, E per quei rami stavano ocelletti, Che a' lumi accesi se levarno a volo. Ma qua non stette il cavallier lui solo, Perche/ una dama il rimase a servire De cio\ che chieder seppe, piu\ ni meno. La notte ivi ebbe assai che fare e dire, Ma piu\ ne avra\ nel bel giorno sereno, Come tornando potereti odire Lo orrendo canto e di spavento pieno, Che il maggior fatto mai non fo sentito. Addio, segnori: il canto e\ qui finito. Il sol, de raggi d' oro incoronato, Trasse il bel viso fuor de la marina, E il cel depinto di color rosato Gia\ nascondea la stella matutina; Sentiasi entro il palagio in ogni lato Cantar la rondinella peregrina, E li augelletti nel giardino intorno Facean bei versi a lo apparir del giorno; Quando dal sonno Mandricardo sciolto Usci\ di zambra e nel prato discese; Ad una fonte renfrescosse il volto, E prestamente se vesti\ lo arnese. Combiato avendo da le dame tolto, La\ dove era venuto, il camin prese, E quella dama che l' avea guidato, Non l' abandona e sempre gli e\ da lato. Ragionando con seco tuttavia De arme e de amore e cose dilettose, Lo ricondusse in quella prataria Ove eran l' opre si\ maravigliose. Lo alto edificio avanti se vedia, Candido tutto a pietre luminose, Con torre e merli, a guisa di castello: Mai {t} vide {/t S; viti Z} al mondo un altro tanto bello. Un quarto avea de miglio ad ogni fronte, Et era quadro aponto di misura; Dritto a levante avea la porta e il ponte, Ove se puote entrar senza paura: Ma come ariva cavalliero o conte Sopra alla soglia dell' entrata, giura Con perfetta leanza e dritta fede Toccar quel scudo che davante vede. Posto e\ il bel scudo in mezo a la gran piaza, A ricontarvi el come non dimoro; Avea la corte intorno ad ogni faza Logie dipinte con sotil lavoro; Gran gente era ritratta ad una caza, E un gentil damigello era tra loro: Piu\ bel di lui tra tutti non si vede, Et avea scritto al capo: #+ Ganimede. $+ Tutta la istoria sua vi era ritratta Di ponto in ponto, che nulla vi manca: Come, cacciando alla selva disfatta, Lo porto\ sino al cel l' acquila bianca, Qual poi sempre fo insegna di sua schiatta, Sino al giorno che Etto\r, l' anima franca, Occiso fu nel campo a tradimento; Cangio\ Priamo e l' arme e il vestimento. L' acquila prima avea bianche le piume, Che/ candida dal celo era mandata; Ma poi che Troia fie' de pianti un fiume, Ne la crudele e misera giornata Quando fu morto Ettorre, il suo gran lume, La lieta insegna allor fu tramutata: Per somigliarse a sua scura fortuna, L' acquila bianca travestirno a bruna. Benche/ el scudo d' Etto\r, che io vi ho contato, Quale era posto in mezo alla gran corte, Non era in parte alcuna tramutato; Ma tal quale il portava il baron forte, Ad un pilastro d' oro era chiavato, Et avea scritto sopra in lettre scorte: #+ Se un altro Etto\r non sei, non mi toccare: Chi me porto\, non ebbe al mondo pare. $+ Di quel color che mostra il cel sereno Avea il scudo, ch' io dico, appariscenzia. La dama dismonto\ del palafreno E fece in su la terra riverenzia, E Mandricardo fece piu\ ne/ meno; Poi passo\ dentro senza resistenzia. Essendo gionto in mezo a quel bel loco, Trasse la spada e tocco\ el scudo un poco. Come fu tocco il scudo con la spada, Tremo\ de intorno tutto il territoro, Con tal romor che par che il mondo cada; Indi se aperse il campo del tesoro. Questo era un campo folto de una biada Che avea tutte le paglie e spiche de oro: Quel campo se mostro\ senza dimora Per una porta che se aperse alora. Ma l' altra da levante, ove era entrato Il cavallier, se chiuse tutta quanta. La dama disse a lui: #_ Baron pregiato, Uscir de quindi alcun mai non se vanta, Se la biada che vedi in ogni lato, Prima non tagli, e se la verde pianta Qual vedi in mezo a quel campo felice, Prima non schianti in fin dalla radice. $_ E Mandricardo senza altro pensare Entro\ nel campo con la spada in mano, E, cominciando la biada a tagliare, Lo incanto apparve ben palese e piano; Che/ ogni granetto se ebbe a tramutare In diverso animale orrendo e strano, Or leonza, or pantera, ora alicorno: Al baron tutti se aventarno intorno. Come cadeva il grano in su la terra, In diverso animal se tramutava; Per tutto intorno Mandricardo serra, E sua prodezza poco gli giovava, Che/ non se vidde mai si\ strana guerra. La folta sempre piu\ multiplicava De lupi, de {add} leon, de porci {/add 1513; leoni e porci Z} e de orsi: Qual con graffi lo assalta, e qual con morsi. Durando aspra e crudel quella contesa Quasi era posto il cavalliero al basso, E restava perdente de la impresa, Tanto era de le fiere il gran fraccasso; Ne/ potendo piu\ quasi aver diffesa, Chinosse a terra e prese in mano un sasso. Quel sasso era fatato; e non sapea Gia\ Mandricardo la virtu\ che avea. Questa pietra ch' io dico, avea segnali Verdi, vermigli, bianchi, azuri e de oro, E, come tratta fu tra gli animali, Tra quelli apporto\ zuffa e gran martoro; Perche/ e tauri selvatici e' cingiali E l' altre bestie comincia^r tra loro Si\ gran battaglia e morsi aspri e diversi, Che in poco d' ora fo^r tutti dispersi. Le bestie fo^r disperse in poco de ora, Che/ l' una occise l' altra incontinente; E Mandricardo non fece dimora, Che/ a cio\ che far conviene, avia la mente. L' altra aventura vi restava ancora, Dico la pianta lunga et eminente, Che ha mille rami, e ogni ramo e\ fiorito; A quella presto il cavalliero e\ gito. Di tutta forza al tronco s' abbracciava, E pone a radicarla ogni vigore, Ma dibattendo forte la crollava, Onde a ogni foglia si spiccava il fiore, E giu\ cadendo per l' aria volava. Odeti se mai fu cosa maggiore: Cadendo foglie e fiori a gran fusone, Qual corbo diveniva, e qual falcone. Astori, aquile e guffi e barbagianni Con seco cominciarno a far battaglia; A benche/ non potean stracciarli e panni, Che/ armato e\ il cavalliero a piastre e maglia, Pur eran tanti, che davano affanni D' intorno a gli occhi e si\ fatta travaglia, Che non potea fornire il suo lavoro De trare il tronco alle radice d' oro. Ma come quel che avea molto ardimento, Non teme impaccio e la forza radoppia, Si\ che in fin la divelse a grave istento, E nel stirparla parbe tuon che scoppia. Con orribil romore uscitte un vento, E tutti quelli ocelli a l' aria soffia: Il vento uscitte, come Turpin dice, Dal buco proprio ove era la radice. For di quel buco il gran vento rimbomba Gettando con romor le pietre in sue Come fossero uscite de una fromba; E riguardando il cavallier la\ giue, Vide una serpe uscir di quella tomba; Indi li parbe non una, ma due, Poi piu\ de sei e piu\ de otto le crede, Cotante code invilupate vede. Or, perche/ sia la cosa manifesta, Era la serpe di quel buco uscita, Quale avea solo un busto et una testa, Ma dietro in dece code era partita; E Mandricardo ponto non se arresta, Che/ volea sua ventura aver finita; Col brando in mano alla serpe se accosta, E il primo colpo a mezo il collo aposta. Ben gionse il tratto dove era apostato, Dietro alla testa, a ponto nella coppa; Ma quel serpente aveva il coio fatato. Si\ come un scoglio al legno che se intoppa, Adosso al cavallier se fu lanciato; E con due code alle gambe lo agroppa, Con altre il busto e con altre le braccia, Si\ che legato a forza in terra il caccia. Lungo ha il drago il mostaccio e il dente bianco, E l' occhio par un foco che riluca; Con quello azaffa il cavalliero al fianco, La piastra come pasta se manduca. Lui se rivolge assai, ben che sia stanco, E rivolgendo cade in quella buca Ove uscia quel gran vento oltre misura: Non e\ da dimandar s' egli ha paura. Ma sua ventura nel cader fu questa, Che/ in altro modo da la morte e\ preso: Cadendo nel profondo con tempesta, Fiacco\ il capo al serpente col suo peso, Si\ che schiantar gli fie' gli occhi di testa, Onde se sciolse e tutto s' e\ disteso; Dibattendo le code tutte quante, Rimase a terra morto in uno istante. Morto il serpente, or guarda il cavalliero La scura grotta de sopra e de intorno (Lucea un carbonchio a guisa de doppiero, Qual rendea lume come il sole al giorno): La tomba era de un sasso tutto intiero, Ma quello era coperto e tanto adorno De ambra e corallo e de argento brunito, Che non si vede di quel sasso un dito. Avea nel mezo un palco edificato, De uno avorio bianchissimo e perfetto, E sopra un {add} drapo azuro {/add 1495; drappo azurro Z} ad o^r stellato, Posto come dossiero o capoletto. Parea la\ sopra un cavalliero armato, Che se posasse senza altro sospetto: Parea, dico, e non vi era; ogniom ben note: Sol vi eran l' arme, e dentro eran poi vote. Queste arme fo^r de la franca persona Che viene al mondo tanto racordata, De {add} Etto\r, {/add; Ettor, Z} dico io, che ben fu la corona De ogni virtute al mondo apregi%ata. Sua guarnison, di cui mo se ragiona, Priva e\ del scuto e priva de la spata. Ove stia il scuto, poco su se spiana; La spata ha Orlando, e quella e\ Durindana. Forbite eran le piastre e luminose, Che apena soffre l' occhio di vederle, Frissate ad oro e pietre prezi%ose, Con rubini e smiraldi e grosse perle. Mandricardo ha le voglie disi%ose, Mille anni a lui pare de indosso averle; Guarda ogni arnese e lo usbergo d' intorno, Ma sopra a tutto l' elmo tanto adorno. Questo avea de oro alla cima un leone, Con un breve d' argento entro una zampa; Di sotto a quel pur d' oro era il torchione, Con vinti sei fermagli de una stampa; Ma dritto nella fronte avea il carbone, Qual reluceva a guisa de una lampa. E facea lume, com' e\ sua natura, Per ogni canto de la grotta oscura. Mentre che il cavallier stava a mirare L' arme, che eran mirande senza fallo, Senti\ dietro alle spalle risuonare Ne lo aprir de una porta di metallo. Voltosse, e vidde a se/ piu\ dame intrare, Che a copia ne venian menando un ballo, Vestite a nova gala e strane zacare, Suonando dietro a lor zuffoli e gnacare. Lor, scambiettando ad ogni lato, sguinceno, Con salti dritti se innalciano a l' aria; Cosi\ danzando, una canzon comincieno Di nota arguta, consonante e varia; E con le voci, ch' e stormenti vinceno, Fan rintonar la tomba solitaria; Poi ne la fin, tacendo tutte quante, Se ingienocchiarno al cavalliero avante. Quindi se fu levata una di quelle, E Mandricardo comincia a lodare, Ponendo sua virtu\ sopra alle stelle Per questa impresa tanto singulare. Come ella tacque, e due altre donzelle Apresero il barone a disarmare, E disarmato sotto alla sua scorta Fuor de la tomba il misero alla porta. Adosso poi gli posero un bel manto De fina seta, ricamato a ziffere, E perfuma^rlo apresso tutto quanto De odor suavi e con acque odorifere; E con festa ioconda e dolce canto, Suonando tamburini e trombe e piffere, Per una scala di marmoro ad aggio Con lui se ritornarno entro al palaggio: Nel bel palaggio, quale io ve contai, Che avea il scudo di Ettorre alla gran piaza. Quivi eran cavallieri e dame assai, Chi canta e danza, e chi ride e sollaza: Piu\ regal corte non se vidde mai; Ma, come apparve Mandricardo in faza, Gli andarno contra, e a sumissimo onore Lo riceverno a guisa de segnore. Nel mezo a ricco seggio era la fata, Che a se/ davante Mandricardo chiede, E disse: #_ Cavallier, questa giornata Tal tesoro hai, che il simil non si vede. Or se conviene agiongervi la spata, E cio\ mi giurarai su la tua fede: Che Durindana, lo incantato brando, Torai per forza de arme al conte Orlando. E sin che tale impresa non sia vinta, Giamai non posara\ la tua persona, Nulla altra spada portarai piu\ cinta, Ne/ adornarai tua testa di corona; L' aquila bianca a quel scudo dipinta, Nulla alta enchiesta mai non la abandona, Che/ quella arma gentile e quella insegna Sopra ad ogni altra de tri%omfi e\ degna. $_ Re Mandricardo allor con riverenzia, Si\ come piace a quella fata, giura; E l' altre dame ne la sua presenzia Tutte il guarnirno a ponto de armatura. Come fu armato, allor prese licenzia, Avendo tratta a fin l' alta aventura, Per la qual piu\ baron de summo ardire Eron la\ presi, e non potean partire. Ora uscirno le gente tutte quante, Che gran cavalleria vi era pregione: Isolieri il spagnolo e Sacripante, Il re Gradasso e il giovane Grifone, E sieco uscitte il fratello Acquilante. Gente di pregio e di condizi%one Vi erano assai, e nomi de alta gloria, Che non accade a dire in questa istoria. Pero\ che il re Gradasso e Mandricardo Insieme se partirno in compagnia, Ne/ a ricontarvi molto sero\ tardo Cio\ che intravenne a loro in questa via. Ben vi so dir che un par tanto gagliardo Non fu in quel tempo in tutta Pagania; Pero\ faran gran cose e peregrine, Prima che in Francia sian condotti a fine. Ma Grifone e Aquilante altro camino Presero insieme, perche/ eran germani, E sapendo il lenguaggio saracino Securi andarno un tempo tra' Pagani. Or, cavalcando un giorno a matutino, Due dame ritrovarno con duo nani; L' una di quelle a bruno era vestita, L' altra di bianco, candida e polita. E similmente e nani e' palafreni Di neve e di carbone avean colore; Ma le donzelle avean gli occhi sereni, Da trar col guardo altrui di petto il core, Accoglimenti di carezze pieni, Parlar suave e bei gesti d' amore; Et e\ tra queste tanta somiglianza, Che l' una l' altra de ni%ente avanza. E cavallier le dame salutaro Chinando il capo con atto cortese: Ma quelle l' una a l' altra se guardaro, E la vestita a nero a parlar prese, Dicendo alla compagna: #_ Altro riparo Far non si puo\, ni fare altre diffese Contra di quel che il cel destina e il mondo, Come infinito e\ il suo girare a tondo. Ma pur se puote il tempo prolungare E far col senno forza a la fortuna: Chi fece il mondo, lo potra\ mutare, E porre il sole in loco de la luna. $_ #_ Prendiam dunque partito, se ti pare, $_ Disse la bianca alla donzella bruna #_ De ritener costor, poi che la sorte Or gli conduce in Francia a prender morte. $_ Queste parole insieme ragionando Avean le dame, e non erono intese Da quei duo cavallieri, insino a quando La bianca verso de essi a parlar prese, Dicendo loro: #_ Io me vi racomando: Se la ragion per voi mai se diffese, Se amate onore e la cavalleria, Esser vi piaccia alla diffesa mia. $_ Ciascun de' duo baron quasi ad un tratto Proferse a quelle aiuto a suo potere. Disse la bruna: #_ Ora intenditi il fatto, Poi che inteso abbiam noi vostro volere. Fermar vogliamo a fede questo patto, Che una battaglia avrete a mantenere, Insin che un cavallier sia al tutto morto Il qual ce offende e villaneggia a torto. Quel disleale e\ nominato Orilo, E non e\ in tutto il mondo il piu\ fellone; Tiene una torre in su il fiume del Nilo, Ove una bestia a guisa de dragone, Che la\ viene appellata il cocodrilo, Pasce di sangue umano e di persone. Per strano incanto e\ fatto il maledetto, Che de una fata nacque e de un folletto. Com' io vi dico, nacque per incanto Quella persona di {add} merce/ {/add; merce\ Z} ribella, Che questo regno ha strutto tutto quanto, Perche/ ogni cavalliero o damigella, Qual quivi gionga o passi in ogni canto, Fa divorare a quella bestia fella. Cercato abbiamo de un barone assai, Che tragga il regno e noi de tanti guai. Ma sino a qui rimedio non si trova Ne/ alcun riparo a tal destruzi%one, Che/ quel da morte a vita se rinova Per alta forza d' incantazi%one. Ora de voi se vedera\ la prova, Che/ ciascun mostra d' essere {t} campione {/t Z; campi%one S} Per trare a fine ogn' impresa eminente, Se a vostra vista lo animo non mente. $_ A quei duo cavallier gran voglia preme De provar questa cosa tanto istrana; E, caminando con le dame insieme, Girno alla torre, e poco era lontana. Gia\ se ode il maledetto che la\ freme Come fa il mar quando esce tramontana; Fremendo batte Orilo in forma e denti, Che sembra un mar turbato a suon de venti. Avea ne l' elmo per cimero un guffo Cornuto, a penne e con gli occhi di foco, E lui soffiava con orribil buffo; Ma quei duo cavallieri il stimon poco, Perche/ altre volte han visto il lupo in zuffo, E stati sono a danza in altro loco, Ne/ stimono il periglio una vil paglia; Onde il sfidarno presto alla battaglia. Ma quel superbo non fece risposta, Mosse con furia e la sua mazza afferra; Ne/ piu\ fece Aquilante indugia o sosta, Ma la sua lancia lascia andare a terra, E poi col brando in mano a lui se accosta; E tra lor cominciarno una aspra guerra, Dando e togliendo e di sotto e di sopra, {t} E quel la maccia {/t S; Quel la malicia Z} e questo il brando adopra. Di quel ferir Grifone ha poca cura, Che/ era guarnito a piastre fatte ad arte, Ma lui taglia al pagano ogni armatura, Come squarciasse tegole di carte. Gionselo un tratto a mezo la cintura, E in duo cavezzi aponto lo diparte; Cosi\ ando\ mezo a terra quel fellone, Dal busto in giu\ rimase ne lo arcione. Quel che e\ caduto, gia\ non vi e\ chi lo alci, Ma brancolando stava ne l' arena; E il suo destrier traea terribil calci, Facea gran salti e giocava di schiena, Onde convien che il resto al prato balci. Ma non fu gionto in su la terra apena, Che un pezo e l' altro insieme se sugella, E tutto integro salta ne la sella. Se a quei baron parea la cosa nova, Quale e\ incontrata, a dir non e\ bisogno, Che/, avengache/ Turpino a cio\ me mova, Io stesso a racontarla mi vergogno. Disse Aquilante: #_ Io vo' veder la prova, Se io faccio dadovero o pur insogno. $_ Cosi\ dicendo adosso a quel si caccia, E Orilo adosso a lui con la sua maccia. E l' uno e l' altro a bon gioco lavora, Benche/ disavantagio ha quel pagano, Che/ il gagliardo Aquilante in poco de ora L' arme gli ha rotte e poste tutte al piano; Essendo destinato pur che ei mora, Abandona un gran colpo ad ambe mano Sopra le spalle, alla cima del petto, E il collo e il capo via taglio\ di netto. Ora ascoltati che stupendo caso: La persona incantata e maledetta, Colui, dico, che in sella era rimaso, Par che la mazza a lato se rimetta, E prende la sua testa per il naso, E nel suo loco quella se rassetta; Indi sua mazza ha presto in man ritolta, E torna alla battaglia un' altra volta. La bianca dama cominciava a ridere, E disse ad Aquilante: #_ Bello amico, Lascia costui, che/ non lo puoi conquidere, E credi a me che vero e\ quel ch' io dico: Se in mille parte l' avesti a dividere, E piu\ minuto il tagli che il pani\co, Non lo potrai veder del spirto privo: Spezato tutto, sempre sara\ vivo. $_ Disse Aquilante: #_ E' non fia mai sentito Questo nel mondo o tal vergogna intesa, Che ogni mio assalto non abbi finito, Se ben me consumassi in fiama accesa; E benche/ a questo non veda partito, Sino alla morte seguiro\ la impresa. Fia de mia vita poi quel che a Dio piace, Ma con costui non vo' tregua ni pace. $_ Cosi\ dicendo e turbato nel volto Volto\ ad Orril, et hallo in terra a porre; Ma quel ribaldo e\ gia\ del campo tolto, E rifuggito dentro da la torre. Lo orrendo cocodrilo avea disciolto: Fuor della porta quella bestia corre, E dietro Orilo in sul cavallo armato: Ben par che il campo tremi in ogni lato. Come vide Grifon quello animale, Qual vien correndo a quel fellone avante, Mossesi ratto, come avesse l' ale, Per dare aiuto al germano Aquilante. Altra battaglia non fu mai cotale Di tanto affanno e di fatiche tante Quanto se puote in zuffa sostenire; Ma cio\ riserbo in l' altro canto a dire. Tra bianche rose e tra vermiglie, e fiori Diversamente in terra coloriti, Tra fresche erbette e tra soavi odori De gli arboscelli a verde rivestiti, Cantando componea gli antichi onori De' cavallier si\ prodi e tanto arditi, Che ogni tremenda cosa in tutto il mondo Fu da lor vinta a forza e posta al fondo; Quando mi venne a mente che il diletto Che l' om se prende solo, e\ mal compiuto. Pero\, baroni e dame, a tal cospetto Per dilettarvi alquanto io son venuto; E con gran zoia ad ascoltar vi aspetto L' aspra battaglia de Grifone arguto E de Aquilante, il tanto apregi%ato, La qual lasciai nel canto che e\ passato. Contai del cocodrilo in che maniera Da la torre de Orrilo a furia n' esce. A meraviglia grande e\ questa fiera, Che molto vive e sempre in vita cresce; Ora sta in terra et or nella riviera, Le bestie al campo, a l' acqua prende il pesce; Fatto e\ come lacerta, over ramaro, Ma di grandezza gia\ non sono al paro; Che/ questo e\ lungo trenta braccia, o piue, Il dosso ha giallo e maculoso e vario; La mascella di sopra egli apre in sue, Et ogni altro animal fa pel contrario. Tutta una vacca se ingiottisce, o due, Che/ ha il ventre assai maggior de un grande armario, E denti ha spessi e lunghi de una spana: Mai fu nel mondo bestia tanto istrana. Ora Grifon, che lo vidde venire, Come detto e\ di sopra, a tal tempesta, Mosse con gran possanza e molto ardire Verso di quello e la sua lancia arresta. Piu\ bello incontro non se potria dire: Tra gli occhi il colse, a mezo de la testa. Grossa era l' asta, e il ferro era pongente, Ma l' uno e l' altro vi giovo\ ni%ente. Fiaccosse l' asta come una cannuza E poco fece il ferro alla percossa, Che/ a quella bestia non passo\ la buza, Tanto era aspra e callosa e dura e grossa. Ora apizata e\ ben la scaramuza, E la fiera orgogliosa, ad ira mossa, Aperse la gran bocca; e senza fallo Integro se il sorbiva esso e 'l cavallo. Se non che a tempo vi gionse Aquilante, Che avea gia\ Orilo in due parte tagliato, E veggendo il germano a se/ davante A tal periglio e quasi devorato, Mena un gran colpo del brando trinciante Sopra al mostaccio, che era rilevato. Fatato e\ il brando, et esso avea gran forza, Ma a quella bestia non tacco\ la scorza. Il cocodrilo ad Aquilante volta, Ma tanto spaventato e\ il suo destriero Che gia\ non lo aspetto\ per quella volta, Ne/ di aspettarlo gli facea mestiero, Che/ in bocca non gli avria dato una volta, Ma travalciato in un boccone intiero: L' omo, il cavallo, l' arme e' paramenti Giu\ serian giti e non toccati e denti. Ma, come io dico, il destriero e\ smarito, Fugge correndo e ponto non galoppa; Quello orrendo animal l' avea seguito, E quasi il tocca spesso ne la groppa. Essendogli vicino a men de un dito, Altro che fare ad Aquilante intoppa, Che/ Orrilo e\ suscitato e non soggiorna, Ma con la mazza alla battaglia torna. Ora Grifone a terra era smontato, E salta al cocodrilo in su le rene, E si\ pel dosso e\ via correndo andato, Che per la coppa al capo se ne viene. Saltava il cocodrilo infuri%ato, Ma Grifone attaccato a lui se tiene, Che/ ad ambe man l' ha preso per il naso: Mai non fu visto il piu\ stupendo caso. Da l' altra parte Orrilo et Aquilante Ripresa insieme avean cruda battaglia, Quale era pur come l' altre davante. Non giovano al pagan piastre ne/ maglia, Che/ in pezzi vanno a terra tutte quante. Ecco il gionge alla spalla e quella taglia, Credendo darli a quella volta il spaccio; La spalla via taglio\ con tutto il braccio. Va il braccio dritto a terra col bastone: Non sta queto Aquilante, il sire arguto, Che/ ben sapea di sua condizi%one; Veggendol morto, non l' avria creduto. Da l' altro lato mena un roversone, E monca il manco braccio e tutto 'l scuto; Poi salta dell' arcione in molta fretta, Prende le braccia e quelle al fiume getta. Nel fiume le scaglio\ da mezo miglio: Grande in quel loco e\ il Nilo, e sembra un mare. Disse Aquilante: #_ Or va, ch' io non te piglio, E fami el peggio ormai che mi po^i fare. La mosca mal te cacciarai dal ciglio, E potrai peggio e gambari mondare, Malvaggio truffator, che con tuo incanto M' hai retenuto in tal travaglia tanto. $_ Voltosse Orilo e parve una saetta, Tanto correndo va veloce e chiuso, E da la ripa nel fiume se getta: Col capo innanti se ne ando\ la\ giuso. Corse Aquilante a Grifon che lo aspetta, Che il cocodrilo avea preso nel muso; Non bisognava che indugiasse un anno, Che/ la\ stava il germano in grande affanno. Come io vi dissi su poco davante, Grifon quello animale al naso ha preso, E sopra al capo vi tenea le piante, Facendo a forza il muso star disteso; E cosi\ stando, vi gionse Aquilante, Qual prestamente fu de arcion disceso, E prese la sua lancia, che era in terra, Che/ non l' aveva oprata in questa guerra. Con quella in mano allo animal s' accosta, Ponendo a tal ferire ogni possanza, E tra la aperta bocca il colpo aposta, E dentro tutta vi caccio\ la lanza. Via per il petto e per la prima costa Fece apparir la ponta per la panza, Pero\ che sotto al corpo e ne le aselle Il cocodrilo ha tenera la pelle. Ben vi so dir che il tratto a Grifon piacque, Perche/ gia\ piu\ non lo potea tenire; Mai lieto fu cotanto poi che nacque. Ora comincia Orilo ad apparire, Che su veni\a natando per quelle acque. Quando Aquilante lo vidde venire, #_ Puo\ far $_ diceva #_ il celo e tutto il mondo Che abbi pescati e monchi in su quel fondo? $_ Lui l' uno e l' altro de' bracci menava E l' onda con le mano avanti apriva; Come una rana quel fiume notava, Tanto che gionse armato in su la riva. Grifon verso Aquilante ragionava: #_ Se questa bestia fosse ancora viva, Quale abbiam morta con affanno tanto, Di tale impresa non avremo il vanto. $_ Disse Aquilante: #_ Io non so certo ancora Che onor ce seguira\ questa aventura; Far non so io tal prova che mai mora Quella incantata e falsa creatura. Del giorno avanza poco piu\ de un' ora: Che faren ne la notte a l' aria scura? A me par di vedere, e gia\ il discerno: Quel ce trara\ con seco nello inferno. $_ Grifon diceva: #_ Adunque ora si vo^le, Mentre che e\ il giorno, la spada menare, Prima che al monte sia nascoso il sole: Per me la notte non sapria che fare. $_ E quasi al mezo di queste parole Volta ad Orilo e vallo ad afrontare; Ciascun da dover tocca e non minaccia, L' un con la spada e l' altro con la maccia. Molto vi era da far da ciascun lato, Che/ quello a questo e questo a quel menava, Avenga che Grifone e\ bene armato, E di mazzate poco se curava. Durando la contesa in su quel prato, Un cavalliero armato vi arivava, Che avea preso in catena un gran gigante. Ma di tal cosa piu\ non dico avante. Ben poi ritornaro\, come far soglio, E questa impresa chiara contero\, Che/, quando de una cosa e\ pieno il foglio, Convien dar loco a l' altra; et impero\ De Mandricardo racontar vi voglio, Qual con Gradasso in Franza menero\. Ma, prima che sian gionti, assai che fare Avranno entrambi e per terra e per mare. Partiti da la fata del castello, Ove l' arme di Etto\r gia\ star suoleano, {add} Soria {/add; Sori\a, Z} Damasco e quel paese bello Senza travaglia gia\ passato aveano. Sendo gionti sul mare ad uno ostello, Perche/ era tardi aloggiar vi voleano, Ma quello e\ aperto et e\ disabitato, Ne/ appar persona intorno in verun lato. Guardando giuso al lito il re Gradasso, Verso una ripa a pietre dirocata, Ove la batte l' onde e il mare al basso Stava una dama ignuda e scapigliata, Che era legata con catene al sasso, Chiedendo morte la disconsolata. #_ Morte, $_ diceva #_ o tu, morte, me aiuta, Che/ ogn' altra spene e\ ben per me perduta! $_ E cavallier callarno incontinente Giuso nel fondo di quel gran petrone Per saper meglio l' aspro conveniente Di quella dama, e chi fosse cagione; Ma lei piangeva si\ dirottamente, Ch' e sassi mossi avria a compassi%one, Dicendo a quei baron: #_ Deh! per pietate Tagliatime qua tutta con le spate. E se il celo o fortuna vo^l che io pe\ra, Per le man de omo almen possa perire, Ne/ divorata sia da quella fiera, Che/ peggio assai e\ il strazio che il morire. $_ Volean saper la cosa tutta intiera E duo baron, ma lei non potea dire, Si\ forte in voce singiociva, e tanto Tra le parole gli abondava il pianto. E pur dicea piangendo: #_ Se io mi doglio Piu\ che io non mostro, n' ho cagione assai. Se il tempo bastara\, dir la vi voglio: Odeti se una al mondo e\ in tanti guai. Dimora uno orco la\ sotto a quel scoglio: Non so se altro orco voi vedesti mai, Ma questo e\ si\ terribile alla faccia, Che al ricordarlo il sangue mi se agiaccia. Apena apena che parlar vi posso, Che/ il cor mi trema in petto di paura. Grande non e\, ma per sei altri e\ grosso, Riccia ha la barba e gran capigliatura; In loco de occhi ha due cocole de osso, E bene a cio\ providde la natura, Che/, se lume vedesse, a tondo a tondo Avria disfatto in poco tempo il mondo. Ne/ vi e\ diffesa, a benche/ non gli veda, Che/, come io dissi, il perfido e\ senza occhi. Io gia\ lo vidi (or chi fia che lo creda?) Stirpar le quercie a guisa de finocchi; E tre giganti che avea presi in preda, Percosse a terra qua come ranocchi; Le cosse dispicco\ dal busto tosto, E pose il casso a lesso e il resto a rosto. Pero\ che sol se pasce a carne umana, E tien de sangue de omo a bere un vaso. Ma gite voi in parte piu\ lontana, Che quel malvagio non vi senta a naso; A benche/ giace adesso nella tana, Che per dormir la\ dentro si e\ rimaso; Ma come se resvegli, incontinente Al naso sentira\ che quivi e\ gente. E come un bracco seguira\ la traccia; Non valera\ diffesa, ne/ fuggire, Che/ cento miglia vi dara\ la caccia, E converravi in tutto al fin perire. Onde vi prego che partir vi piaccia, E me lasciati misera morire, Ma sol chiedo di grazia e sol vi prego Che a una dimanda non facciati nego; E questa fia: se forse tra camino Avesti un giovinetto a riscontrare, Re di Damasco (e nome ha Norandino; Non so se mai lo odesti racordare), A lui contati il mio caso tapino (So ben che lo fareti lacrimare), Dicendo: ## La tua dama te conforta, Che te amo\ viva et ama ancora morta. $# Ma ben guarda\ti, e non prendesti errore, De dir ch' io viva piu\ tra tante pene, Pero\ che lui mi porta tale amore, Che nol potrian tener mille catene; E la mia doglia poi saria maggiore, Veggendo perir meco ogni mio bene; E piu\ mi doleria che la mia morte, Che se a lui fosser sol due dita torte. Direti adunque come sotterrata M' avete istessi a canto alla marina; Ma lui dimandara\ de la contrata Per trovar morta almen la sua Lucina. Direti che l' aveti smenticata Come se chiami, e il loco che confina; Poi confortati lui con tal parole Che stia contento a quel che 'l mondo vo^le. $_ Cosi\ ragiona, e la faccia serena Piangendo bagna quella sventurata. Tenea Gradasso le lacrime apena, E gia\ dal fianco avea tratta la spata Per rompere e tagliar quella catena, Con la qual quivi al sasso era legata; Ma la dama crido\: #_ Per Dio, non fare! Morto serai, ne/ me potrai campare. Questa catena, misera! dolente! Per entro al sasso passa nella tana; Come toccata fosse, incontinente Scocca uno ordegno e suona una campana; E se quel maledetto se risente, Ogni speranza del fuggire e\ vana. Per piani e monti e ripe e lochi forti Mai non vi lasciara\, sin che vi ha morti. $_ A Mandricardo molta voglia tocca De odir se la campana avea bon suono. La dama non avea chiusa la bocca, Che e\ scosso la catena in abandono. Ben vi so dir che dentro la\ si chiocca: Sembra nel sasso risuonare un tuono; E la donzella pallida e smarita #_ Ahime\! $_ cridava #_ ahime\! mia vita e\ gita! Sol de la tema tutta me distorco: Adesso qua sera\ quel maledetto. $_ Eccoti uscir de la spelonca lo orco, Che ha la gozaglia grande a mezo il petto; E denti ha for di bocca, come il porco, Ne/ vi crediati che abbi il muso netto, Ma brutto e lordo e di sangue vermiglio; Longhi una spanna ha e peli in ogni ciglio. Quanto una gamba ha grosso ciascun dito E negre l' ungie e piene di sozzura. Ora Gradasso gia\ non e\ smarito Per tanto istrana et orrida figura. Col brando in mano adosso a quello e\ gito, Ma l' orco del suo brando ha poca cura, Nel scudo il prende e via strappo\ del braccio, E quel stringendo franse come un giaccio. Se cosi\ preso avesse nella testa, L' elmo avria rotto e trito come cenere, Seri\a compita ad un tratto la festa. Come se schiazzan le nociole tenere, Come se fiacca un ziglio alla tempesta, O vero un fongo che al fango se genere, Si\ sciolto il capo avria, senza dissolvere Le fibbie a l' elmo, e fatto tutto in polvere. Ma lui non vede ove ponga la mano, Per questo a caso l' ha nel scudo preso; E dette un scosso si\ crudo e villano, Che a terra il re Gradasso ando\ disteso. L' orco il prese a traverso a mano a mano, Alla spelonca lo porto\ di peso; Ben se dibatte invano e se dimena, Pur l' orco il lega e pone alla catena. Come legato l' ebbe, incontinente Fuor de la tana di novo e\ venuto; E Mandricardo si stava dolente, Che/ il suo caro compagno avia perduto. Non avea brando il cavallier valente, Pero\ che aveva in sacramento avuto Mai non portare alla sua vita brando, Se non acquista quel del conte Orlando. Chinosse e prese una gran pietra e grossa: Bene e\ cinquanta libre, vi prometto; E trasse quella di tutta sua possa, E gionse lo orco proprio a mezo il petto. Ma quel non teme ponto la percossa, Anci l' ira gli crebbe e il gran dispetto; Ove ebbe il colpo, con la man se tocca, E, come un verro, ha la schiuma alla bocca. E dietro al cavallier par che se metta, Come un seguso a l' orme de una fiera. Gia\ Mandricardo ponto non lo aspetta, Che/ avea persona destra, atta e legiera. Su corre al poggio, e sembra una saetta; Quindi, fermato a megio la costiera, Tra' un gran sasso tratto fuor del monte, E quel percosse dritto nella fronte. Quel sasso in mille parte se spezzo\, Ma fece poco male a quel perverso, E gia\ per questo non lo abandono\, Che/ non l' aveva mai di naso perso. Mandricardo ne va quanto piu\ puo\, Cercando il monte a dritto et a traverso, Tanto che gionse a quello in su la cima, E lo orco apresso; e quasi ancora in prima. Non sa piu\ che si fare il cavalliero, Ne/ a questa cosa sa prender partito; Per ogni balza e per ogni sentiero Questa malvagita\ l' avea seguito, Ne/ far bisogna ponto di pensiero Aver con esso de diffesa un dito; Ben gli tra' sassi e tronchi aspri e robesti, Ma non ritrova cosa che lo aresti. Torna correndo in giu\, verso il vallone, A benche/ indietro se voltava spesso, Et ecco avanti trova un gran burone: Da cima al fondo tutto il monte e\ fesso. Alor se tenne morto quel barone, E per spazzato al tutto se e\ gia\ messo; Sopra alla balza a corso pieno e\ mosso, Di la\ de un salto ando\ con l' arme in dosso. Et era larga piu\ de vinti braccia, Si\ come altri estimar puote alla grossa; Ma quel brutto orco che seguia la traccia, Perch' era cieco non vidde la fossa, Onde per quella a piombo giu\ tramaccia. De intorno ben se odette la percossa, Che/, quando gionse in su le lastre al fondo, Parve che il cel cadesse e tutto il mondo. Non dette la percossa sopra al letto, Perche/ quella aspra ripa era molto alta, E ben tre coste se fiacco\ nel petto, E quelle pietre del suo sangue smalta. Diceva Mandricardo con diletto: #_ Chi ponto stecca al segno mal si salta. Or la\ giu\ ti riman in tua malora! $_ Cosi\ dicendo piu\ non se dimora. E giu\ callando lieto e con gran festa, Al mar discese e venne alla spelonca. Qua vede un braccio, e la\ meza una testa, Cola\ vede una man co' denti monca. Per tutto intorno e\ piena la foresta Di qualche gamba o qualche spalla tronca E membri lacerati e pezzi strani, Come di bocca tolti a lupi e a cani. Cio\ riguardando varca di bon passo; E gionse a quella tana in su la intrata, Qual molto e\ grande dentro da quel sasso, E riccamente d' oro e\ lavorata. Poi che ebbe sciolto quindi il re Gradasso, E la dama che al scoglio era legata, Tutti se revestirno a nove spoglie, Che/ veste ivi trovarno e ricche zoglie. Montarno, e ciascadun forte camina; Seco e\ la dama dal viso soprano: E via passando a canto alla marina Iscorsero una nave di lontano. Viddero in quella, quando se avicina, L' alta bandiera del re Tibi%ano: Qual era parte di questa donzella, Tolta da loro alla fortuna fella. Re de Cipri in quel tempo e de Rodi era Quel Tibi%ano et altre terre assai, E va cercando per ogni rivera De la filiola, e non la trova mai; Onde di doglia in pianto se dispera, E mena la sua vita in tristi guai. Come la dama la bandiera vide, Per allegrezza a un tratto piange e ride. Gia\ meglio se comincia a discernire La nave e la sua gente tutta quanta; E la donzella non puo\ sofferire, Ma con la veste a quella nave amanta; E, senza piu\ tenirvi in lungo dire, Salirno al legno; e la zoia fo tanta Quanto a si\ fatto caso esser credia, Trovando lei che morta esser {add} tenia. {/add; teni\a. Z} E gia\ le poppe voglion rivoltare, Tirando con le corde alte le antene. Eccoti lo orco che nel poggio appare, E verso il mare a corso se ne viene; Ben vi so dir che ogniom si da\ che fare, Che/ la piu\ parte alor morta se tiene; Ciascun de' marinari era parone A tirar presto e volgere il temone. Pur giu\ vien lo orco e verso il mar se calla. La barba a sangue se gli vedea piovere, Un gran pezzo de monte ha in su la spalla, Che dentro vi eran pruni e sterpi e rovere; Legier lo porta lui come una galla, Ne/ cento boi l' avrian potuto movere. Correndo vien la orrenda creatura: Gia\ dentro al mare e\ sino alla cintura. E tanto passa, che va come il buffolo, Che il muso ha fuori e i piedi in su la {t} sabbia; {/t S; sabbia, Z} Movere odendo e remi al suon del zuffolo, Trasse la\ verso il monte con gran rabbia. Gionsine presso; e l' onda die\ dal tuffolo, Che saltar fece l' acqua in su la gabbia; Ma se piu\ avanti un poco avesse agionto, Sfondava il legno e li omini ad un ponto. Se e marinari alora ebber spavento, Non credo che bisogni racontare, Che/ qual di loro avea piu\ de ardimento Nascoso e\ alla carena e non appare. Ora levosse da levante il vento, L' onda risuona e grosso viene il mare; Gia\ rotto il celo e l' acqua insieme han guerra: Piu\ non se vede lo orco ne/ la terra. De l' orco, dico, ormai non han paura, Ma morte han piu\ che prima in su la testa, Pero\ che orribilmente il celo oscura, Il vento cresce ogniora e gran tempesta. Pioggia meschiata de grandine dura Giu\ versa con furore, e mai non resta: Ora fu\lgore, or trono et or saetta, Che l' una l' altra apena non aspetta. Per tutto intorno bursano e delfini, Donando di fortuna il tristo annoncio; Non sta contento il mare a' suoi confini, Che in nave ne entra assai piu\ d' un bigoncio: Da far vi fia per grandi e piccolini. Ma non vi vo' tenir tanto a disconcio, E nel presente canto io ve abandono, Che/ ogni diletto a tramutare e\ bono. Segnor, se voi potesti ritrovare Un che non sappia quel che sia paura, O se volesti alcun modo pensare Per sbigottire una anima sicura, Quando e\ fortuna quel poneti in mare, E si non se spaventa o non se cura, Toglietelo per paccio, e non ardito, Perche/ ha con morte il termine de un dito. Orribil cosa e\ certo il mar turbato, E meglio e\ odirlo dir che farne prova, Pero\ creda ciascuno a chi gli e\ stato, E per provar di terra non si mova, Come io contava al canto che e\ passato, Di quella nave che entro al mar se trova, Si\ combattuta da prora e da poppa, Che l' acqua ve entra et escine la stoppa. Mandricardo era in quella e il re Gradasso, Re Tibi%ano e sua figlia Lucina. Ora se rompe l' onda a gran fraccasso, E mostra un gregge tutta la marina: Un gregge bianco, che si pasca al basso, Ma sempre mugge e sembra una ruina; Stridon le corde e il legno se {t} lamenta: {/t S; lamenta Z} Gemendo al fondo, par che 'l suo mal senta. Or questo vento et or quell' altro salta, Non san che farsi e marinari apena; Tra' nivoli talor e\ la nave alta, E talor frega a terra la carrena. Sopra a ogni male e sopra a ogni difalta Fu quando gionse un colpo ne la antena; Piegosse il legno e giu\ dette alla banda: Ciascun cridando a Dio si racomanda. Piu\ de due miglia ando\ la nave inversa, Che a ponto in ponto sta per affondare, La gente che vi e\ dentro e\ tutta persa: Se fa de' voti, non lo adimandare. Ecco da canto gionse una traversa, Che a l' altra banda fece traboccare; Ciascadun crida e non se ode persona, Si\ muggia il mare e il vento si\ risona. Questo se cangia e muta in uno istante, Ora batte davanti, or ne le sponde; Spiccosse al fine un groppo da levante Con furia tal, che il mar tutto confonde. Gionse alla poppa e pinse il legno avante, E fece entrar la prora sotto l' onde; Sotto acqua via ne ando\ piu\ d' una arcata, Come va il mergo e l' oca alcuna fiata. Pur fuore uscitte, e va con tal ruina Qual fuor de la balestra esce la vera. Da quella sera insino alla matina E da quella matina a l' altra sera, Via giorno e notte mai non se raffina, Sin che condotta e\ sopra alla riviera, Ove quel monte in Acquamorta bagna Il qual divide Francia dalla Spagna. Quivi ad un capo che ha nome la Oruna, Smontarno con gran voglia in su la arena, E si\ sbattuti son dalla fortuna, Che sendo in terra nol credono apena. Passo\ il mal tempo e quella notte bruna, Con l' alba insieme il cel se raserena, E gia\ per tutto essendo chiaro il giorno, Deliberarno andar cercando intorno. Cercar deliberarno in che paese Sian capitati e chi ne sia segnore, E tratto fuor di nave ogni suo arnese, Ciascadun se arma e monta il corridore. Ma lor vi%aggio poco se distese, Che/ oltra ad un colle odirno un gran rumore, Corni, tamburi et altre voce e trombe, Che par che 'l suono insino al cel rimbombe. Il franco re Gradasso e Mandricardo Fecer restar la dama e Tibi%ano. Possa alcun de essi a mover non fu tardo, Sin che fo^r sopra al colle a mano a mano; E giu\ facendo a quel campo riguardo Vider coperto a genta armata il piano, Che era afrontata insieme a belle schiere Sotto a stendardi e segni di bandiere. Perche/ sappiati il tutto, il re Agramante Contro al re Carlo avea questa battaglia, Come io contai nel libro che e\ davante: Un' altra non fu mai di tal travaglia. Quivi era il re Marsilio e Balugante, Tanti altri duci e tanta altra canaglia, Che in alcun tempo mai ne/ alcuna guerra Maggior battaglia non se vidde in terra. Orlando qua non e\, ni Feraguto: Stava il pagano ad un fiume a cercare De l' elmo, qual la\ giu\ gli era caduto, Si\ come io vi ebbi avanti a ricontare. Al conte era altro caso intravenuto Troppo stupendo e da meravigliare: Che/ lui, qual vincer suole ogni altra prova, Tra dame vinto e preso se ritrova. Di lui poi diro\ il fatto tutto intiero, Ma non se trova adesso in queste imprese; Ben vi e\ Ranaldo e il marchese Oliviero, E\vi Ricardo e Guido e 'l bon Danese, Come io contava alor, quando Rugiero Tanti baroni alla terra distese Di nostra gente, e tal tempesta mena Come fa il vento al campo de l' arena. Come si frange il tenero lupino O il fusto de' papaveri ne l' orto, Cotal fraccasso mena il paladino; Condotta e\ nostra gente a tristo porto. Roverso a terra se trova Turpino, Uberto, el duca di Baiona, e\ morto; Avino e Belengiero e Avorio e Ottone Sono abattuti, e seco Salamone. Gualtieri ebbe uno incontro ne la testa, Che il sangue gli schiatto\ per naso e bocca, E cade trangosciato alla foresta. Il giovane Rugiero a gli altri tocca, Ne/ se potria contar tanta tempesta: Qual tramortito e qual morto trabocca. Via va correndo e scontrasi a Ricardo Quel duca altiero, nobile e gagliardo. Ispezza il scudo e per la spalla passa, Di dietro fore ando\ il pennon di netto; La lancia a mezo l' asta se fraccassa, Urtarno e duo corsier petto per petto. Rugier quivi Ricardo a terra lassa E tra' la spada, il franco giovanetto, La spada qual gia\ fece Falerina, Che altra nel mondo mai fu tanto fina. Comincia la battaglia orrenda e fiera, Che quasi e\ stata insino adesso un gioco; Sembra Rugier tra gli altri una lumiera, Trono e baleno e folgore di foco. Or questa abatte et or quell' altra schiera, Par che si trovi a un tratto in ogni loco; Volta e rivolta e, come avesse l' ale, Per tutto agiongie il giovane reale. La nostra gente fugge in ogni banda: Non e\ da dimandar se avean paura, Che/ a ciascun colpo un morto a terra manda: Sembraglia non fu mai cotanto oscura. Gia\ Sinibaldo, il bon conte de Olanda, Partito avea dal petto alla cintura, E Daniberto, il franco re frisone, Avea tagliato insino in su l' arcione. E il duca Aigualdo, il grande e si\ diverso, Qual fu Ibernese e nacque de gigante, Fo da Rugiero agionto in su il traverso, E tutto lo taglio\ dietro e davante. Non e\ il marchese de Vi%ena perso, Se l' altre gente fuggon tutte quante; Se ben gli altri ne vanno, et Oliviero Sol lui se affronta e voltase a Rugiero. Alor se incomincio\ l' alta travaglia, Ne/ questa zuffa come l' altre passa; La spada de ciascun cosi\ ben taglia, Che io so che dove giongie, il segno lassa. Ecco il Danese ariva alla battaglia, Ecco Ranaldo ariva, che fraccassa Tutta la gente e mena tal polvino Come il mondo arda e fumi in quel confino. Quando Rugier, che stava alla vedetta, Se accorse che sua gente in volta andava, Come dal cel scendesse una saetta, Con tal furore ad Olivier menava. Menava ad ambe mano, e per la fretta, Come a Dio piacque, il brando se voltava; Colse di piatto, e fo la botta tanta, Che l' elmo come un vetro a pezzi schianta. Et Olivier rimase tramortito Per il gran colpo avuto a tal tempesta; Senza elmo apparve il suo viso fiorito, E cadde de lo arcione alla foresta. Quando il vidde Rugiero a tal partito, Che tutta a sangue gli piovea la testa, Molto ne dolse al giovane cortese, Onde nel prato subito discese. Essendo sopra al campo dismontato Raccolse nelle braccia quel barone Per ordinar che fusse medicato, Sempre piangendo a gran compassi%one. In questo fatto standosi occupato, Ecco alle spalle a lui gionse Grifone: Grifone, il falso conte di Maganza, Vien speronando e aresta la sua lanza. Di tutta possa il conte maledetto Entro alle spalle un gran colpo gli diede, Si\ che tomar lo fece a suo dispetto: Tomo\ Rugiero e pur rimase in piede; Mai non fu visto un salto cosi\ netto. Ora presto si volta e Grifon vede, Che per farlo morir non stava a bada: Rotta la lancia, avea tratta la spada. Ma Rugier se volto\ con molta fretta, Cridando: #_ Tu sei morto, traditore! $_ Grifone il falso ponto non lo aspetta, Come colui che vile era di core. Ove e\ piu\ folta la battaglia e stretta, In quella parte volta il corridore; Tra gente e gente e tra l' arme se caccia, Ne/ puo\ soffrir veder Rugiero in faccia. Questo altro il segue a piede, minacciando Che lo fara\ morir come ribaldo; E quel fuggendo, e questo seguitando, Gionsero al loco dove era Ranaldo, Quale avea fatto tal menar del brando, Che 'l campo correa tutto a sangue caldo. Parea di sangue il campo una marina: Veduta non fu mai tanta ruina. Grifon cridava: #_ Aiutame per Dio! Aiutame per Dio! che/ piu\ non posso; Che/ questo saracin malvaggio e rio Per tradimento a morte me ha percosso. $_ Quando Ranaldo quella voce odi\o, Volto\ Baiardo e subito fu mosso Per urtarsi a Rugiero a corso pieno; Ma, veggendolo a pie\, ritenne il freno. Sappiati che il destrier del paladino Era rimaso la\ dove discese. La\ presso sopra il campo era Turpino Che da' Pagani un pezzo se diffese; Essendo a quel destrier dunque vicino, A lui se accosta e per la briglia il prese; E destramente ne lo arcion salito Ritorna alla battaglia il prete ardito. Rugiero adunque, come ebbi a contare, Se ritrovava a piedi in su quel piano. Fuggito e\ via Grifone e non appare, E lui affronta il sir di Montealbano; Il qual nol volse con Baiardo urtare, Pero\ che ad esso parve atto villano, Ma de arcion salta alla campagna aperta Col scudo in braccio e con la sua Fusberta. Tra lor se comincio\ zuffa si\ brava, Che ogni om per meraviglia stava muto; Ne/ gia\ Ranaldo stracco si mostrava, Benche/ abbia combattuto il giorno tuto; E l' uno e l' altro a tal furia menava, Che meraviglia e\ che non sia destruto. Non che il scudo a ciascuno e l' elmo grosso, Ma un monte a quei gran colpi seri\a mosso. Durando aspra e crudel quella contesa, Ecco Agramante ariva a la battaglia, Che caccia e Cristi%ani alla distesa, Come fa il foco posto ne la paglia. Re Carlo e' nostri non po^n far diffesa, Tanta e\ la folta di quella canaglia, Che sembra un fiume grosso che trabocca: Per un de' nostri, cento e piu\ ne tocca. Avanti a gli altri el re di Garamanta, Io dico il dispietato Martasino, Qual vien cridando, a gran voce se vanta Di prender vivo il figlio de Pipino. Tanto e\ il romore e la gente cotanta, Che il campo trema per ogni confino, E tale e\ il saettar fuor di misura, Che al nivolo de' dardi il cel se oscura. La gente nostra fugge in ogni lato, E quella che se arresta riman morta. Quivi e\ Sobrino, il vecchio disperato, Che per insegna il foco a l' elmo porta; E Balifronte, in su un gambelo armato, Taglia a due mano et ha la spada torta; E Barigano e Alzirdo e Dardinello Ciascun de' Cristi%an fa piu\ macello. Oh! chi vedesse in faccia il re Carlone Guardare il cielo e non parlar ni%ente: E sassi mossi avria a compassi%one, Veggendol lacrimar si\ rottamente. #_ Campati voi, $_ diceva al duca Amone #_ Campati, Naimo e Gano, il mio parente, Campati tutti quanti, e me lassati, Che/ qua voglio io purgare e mei peccati. Se a Dio, che e\ mio segnor, piace ch' io mora, Fia il suo volere, io sono apparecchiato; Ma questa e\ sol la doglia che mi accora, Che perir veggio il popul battezato Per man di gente che Macone adora. O re del celo, mio segnor beato, Se il fallir nostro a vendicar ti mena, Fa che io sol pe\ra e sol porti la pena. $_ Ciascun di quei baron che Carlo ascolta, Piangono anco essi e risponder non sano. Gia\ la schiera reale in fuga e\ volta, E boni e' tristi in frotta se ne vano. La folta grande e\ gia\ tutta ricolta Ove Rugiero e 'l sir de Montealbano Facean battaglia si\ feroce e dura, Che de questi altri alcun de lor non cura. Ma tanto e\ la ruina e il gran disvario Di quella gente, e chi fugge e chi caccia, Chi cade avanti, e chi per il contrario, E chi da un lato e chi d' altro tramaccia; Onde a que' dui baron fu necessario Spartir la zuffa, e si\ grande la traccia Gli urtava adosso e tanta la zinia, Che alcun di lor non sa dove si sia. Partito l' un da l' altro e a forza ispento, Che/ una gran frotta a lor percosse in mezo, Rimase ciascun de essi mal contento, Che non si discernia chi avesse el pezo; Ma pur Ranaldo e\ quel dal gran lamento, Dicendo: #_ O Dio del cel, ch' e\ quel ch' io vezo? La nostra gente fugge in abandono, Et io che posso far che a piedi sono? $_ Cosi\ dicendo se pone a cercare, E vede il suo Baiardo avanti poco. A lui se accosta, e, volendo montare, Il destrier volta e fugge di quel loco. Ranaldo si voleva disperare Dicendo: #_ Adesso e\ ben tempo da gioco! Deh sta, ti dico, bestia maledetta! $_ Baiardo pur va inanti e non lo aspetta. E lui, pur seguitando il suo destriero, Se fu condutto entro una selva scura, Onde lasciarlo un pezo e\ di mestiero, Ch' egli incontro\ in quel loco alta ventura. Ora torno a contarvi di Rugiero, Qual pure e\ a piedi in su quella pianura, E ben se augura indarno il suo Frontino: Eccoti avanti a lui passa Turpino. Turpino era montato a quel ronzone, Che/ il suo tra' Saracini avea smarito, Come io contai alor quando Grifone Ne le spalle a Rugiero avea ferito; Or correndo veni\a per un vallone. Quando lo vidde il giovanetto ardito, Dico Rugiero avanti a se/ lo vide, Non dimandar se de allegrezza ride. E cosi\ a piede se il pone a seguire Cridando: #_ Aspetta, che/ il cavallo e\ mio! $_ E il bon Turpin, che vede ogni om fuggire, Non avea de aspettarlo alcun desio; Ma per la pressa avanti non puo\ gire, Tanta e\ la folta di quel popul rio; Si\ sono e nostri stretti e inviluppati, Che forza fo a fuggir da l' un de' lati. Fugge Turpino, e Rugiero a le spalle, Sin che condotti fo^rno a un stretto passo, Ove tra duo colletti era una valle; La giu\ cade Turpino a gran fraccasso. Rugiero a meza costa per un calle Vide il prete caduto al fondo basso, Ove l' acqua e il pantano a ponto chiude; Embragato era quello alla palude. Rugier ridendo del poggio discese E il vescovo aiuto\, che se anegava. Poi che for l' ebbe tratto, il caval prese; A lui davante quello appresentava, E proferiva con parlar cortese, Che lo prendesse, se gli bisognava. #_ Se Dio me aiuti, $_ disse a lui Turpino #_ Tu non nascesti mai di Saracino. Ne/ credo mai che tanta cortesia Potesse dar natura ad un Pagano: Prendi il destriero e vanne alla tua via: Se lo togliessi, ben seri\a villano! $_ Cosi\ gli disse, e poi si dispartia Correndo a piedi, e ritorno\ nel piano, E trovo\ un Saracin fuor di sentiero: Tagliolli il capo e prese il suo destriero. E tanto corse, che gionse la traccia De' Cristiani che ogniom fuggia piu\ forte; Non ve si vede chi diffesa faccia: Chi non {add} puote/ {/add; puote\ Z} fuggire, ebbe la morte. Sei giorni e notti sempre ebber la caccia Sino a Parigi, e sino in su le porte Occisa fo la gente sbigotita: Maggior sconfitta mai non fu sentita. Tra' Cristi%ani sol Danese Ogiero Fe' gran prodezze, la persona degna, Che/ di quel stormo periglioso e fiero Riporto\ salva la reale insegna. Preso rimase il marchese Oliviero, Ottone ancor, che tra gli Anglesi regna, Re Desiderio e lo re Salamone, Duca Ricardo fo seco pregione. De gli altri che fo^r presi e che fo^r morti Non se potria contar la quantitate, Cotanti campi%on valenti e forti Fo^r presi, o posti al taglio de le spate. Chi contarebbe e pianti e' disconforti, Che a Parigi eran dentro alla cittate? Ciascadun crede e dice lacrimando Che gli e\ morto Ranaldo e il conte Orlando. Fanciulli e vecchi e dame tutte quante La notte fier' la guardia a' muri intorno; Ma de Parigi piu\ non dico avante. Torno a Rugiero, il giovanetto adorno, Qual gionse al loco dove Bradamante La gran battaglia avea fatta quel giorno Con Rodamonte, come io vi contai; Non so se vi ricorda ove io lasciai. Nel libro che piu\ giorni e\ gia\ compito, Narrai questa gran zuffa, e come il conte Rimaso era de un colpo tramortito, Quando percosso fo da Rodamonte; E come stando ad estremo partito, Quella donzella, fior di Chiaramonte, Io dico Bradamante la signora, Fece la zuffa che io contava alora. Da poi se dipartitte il paladino, Et incontrolli cio\ che io vi ebbi a dire; Tra Bradamante adunque e il Saracino Rimase la battaglia a diffinire. Non stava alcuno a quel loco vicino, Ne/ vi era chi potesse dipartire L' aspra contesa e il grande assalto e fiero, Sin che vi gionse il giovane Rugiero. Gionto sopra a quel colle il giovanetto Vista ebbe la battaglia giu\ nel fondo, E fermosse a mirarla per diletto, Che/ assalto non fu mai si\ furibondo; Perocche/ chi in quel tempo avesse eletto Un par de bon guerreri in tutto il mondo, Non l' avria avuto piu\ compiuto a pieno Che Bradamante e il figliol de Uli%eno. E ben ne dimostrarno esperi%enza A quel che han fatto e quel che fanno ancora; Par che la zuffa pur mo si comenza, Si\ frescamente ciascadun lavora, E se quel coglie, questo non va senza. Da un colpo a l' altro mai non e\ dimora, E nel colpir fan foco e tal fiammelle, Che par che il lampo gionga nelle stelle. Rugiero alcun de' duo non cognoscia, Che/ mai non gli avea visti in altro loco, Ma entrambi li lodava, e discernia Che tra lor di vantaggio era assai poco. Mirando l' aspre offese ben vedia Cotal battaglia non esser da gioco, Ma che e\ tra Saracino e Cristi%ano, Onde discese subito nel piano. #_ Se alcun de voi $_ disse egli #_ adora Cristo, Fermesi un poco e intenda quel ch' io parlo, Che/ annunzio gli daro\ dolente e tristo: Sconfitto al tutto e\ il campo del re Carlo, Cio\ ch' io vi dico, con questi occhi ho visto. Onde, se alcun volesse seguitarlo, A far lunga dimora non bisogna, Che/ alle confine e\ forse di Guascogna. $_ Quando la dama intese cosi\ dire, Dal fren per doglia abandono\ la mano, E tutta in faccia se ebbe a scolorire, Dicendo a Rodamonte: #_ Bel germano, Questo che io chiedo, non me lo disdire: Lascia che io segua il mio segnor soprano, Tanto che a quello io me ritrovi apresso, Che/ il mio volere e\ di morir con esso. $_ Diceva Rodamonte borbottando: #_ A risponderti presto, io nol vo' fare. Io stava alla battaglia con Orlando: Tu te togliesti tal rogna a grattare. Di qua non andarai mai, se non quando Io stia cosi\ che io nol possa vetare: Onde, se vo^i che 'l tuo partir sia corto, Fa che me getti in questo prato morto. $_ Quando Rugier cotal parlare intese, Di prender questa zuffa ebbe gran voglia, E Rodamonte in tal modo riprese Dicendo: #_ Esser non puo\ ch' io non me doglia, Se io trovo gentil omo discortese, Pero\ che bene e\ un ramo senza foglia, Fiume senza onda e casa senza via La gentilezza senza cortesia. $_ A Bradamante poi disse: #_ Barone, Ove ti piace ormai rivolgi il freno, E se costui vora\ pur questi%one, De la battaglia non gli verro\ meno. $_ La dama se parti\ senza tenzone, E Rodamonte disse: #_ Io vedo a pieno Che medico debbi esser naturale, Da poi che a posta vai cercando il male. Or te diffendi, paccio da catena, Da poi che per altrui morir te piace. $_ Non minaccia Rugier, ma crida e mena, E l' altro a lui ritocca e gia\ non tace. Ciascun di questi e\ fiero e di gran lena, Onde battaglia orrenda e pertinace Et altre belle cose dir vi voglio, Se piace a Dio ch' io segua come io soglio. Co\lti ho diversi fiori alla verdura, {t} Azuri, {/t S; Azuri Z} gialli, candidi e vermigli; Fatto ho di vaghe erbette una mistura, Garofili e vi%ole e rose e zigli: Traggasi avanti chi de odore ha cura, E cio\ che piu\ gli piace, quel se pigli; A cui diletta il ziglio, a cui la rosa, Et a cui questa, a cui quella altra cosa. Pero\ diversamente il mio verziero De amore e de battaglia ho gia\ piantato: Piace la guerra a l' animo piu\ fiero, Lo amore al cor gentile e delicato. Or vo' seguir dove io lasciai Rugiero Con Rodamonte alla zuffa nel prato, Con si\ crudeli assalti e tal tempesta, Che impresa non fu mai simile a questa. E' se tornarno con le spade adosso Gli animosi baroni a darsi morte. Rugier primeramente fu percosso Sopra del scudo a meraviglia forte, Che tre lame ha di ferro e quattro d' osso; Ma non e\ resistenzia che comporte: Di Rodamonte la stupenda forza Taglio\ quel scudo a guisa de una scorza. Su da la testa alla ponta discende, Piu\ de un terzo ne cade alla campagna; Rugier per prugna acerba agresto rende, Ne la piastra ferrata lo sparagna. Il scudo da la cima al fondo fende, Come squarciasse tela d' una aragna; Ne/ a quel ni a questo l' armatura vale: Un' altra zuffa mai non fu cotale. E veramente morte se avrian data E l' uno e l' altro a si\ crudo ferire, Ma non essendo l' ora terminata Ne/ 'l tempo gionto ancora al suo morire, Tra lor fu la battaglia disturbata, Che/ Bradamante gli venne a partire, Bradamante, la dama di valore, Qual dissi che seguia l' imperatore. E gia\ bon pezzo essendo caminata, Ne/ potendo sua gente ritrovare, La qual fuggiva a briglia abandonata, Ne la sua mente se pose a pensare, Tra se/ dicendo: ## O Bradamante ingrata, Ben discortese te puote appellare Quel cavallier che non sai chi se sia, Et ha' gli usata tanta villania. La zuffa prese lui per mia cagione, E le mie spalle il suo petto diffese. Ma, se io vedesse quivi il re Carlone E le sue gente morte tutte e prese, Tornar mi converrebbe a quel vallone, Sol per vedere il cavallier cortese. Sono obligata a l' alto imperatore, Ma piu\ sono a me stessa et al mio onore. $# Cosi\ dicendo rivoltava il freno, E passo\ prestamente il monticello, Ove Rugiero e il figlio de Uli%eno Faceano alla battaglia il gran flagello. Come ella ariva a ponto, piu\ ne/ meno, Gionse Rugiero, il franco damigello, Un colpo a Rodamonte a tal tempesta, Che tutta quanta gli stordi\ la testa. Fuor di se stesso in su lo arcion si stava E caddeli di mano il brando al prato; Rugier alora adietro se tirava, Che/ a cotale atto non l' avria toccato; E Bradamante, che questo mirava, Dicea: #_ Ben drittamente aggio io lodato Di cortesia costui nel mio pensiero; Ma che io il cognosca, al tutto e\ di mestiero. $_ E come gionta fo gioso nel piano, Alta da l' elmo si levo\ la vista, E voltata a Rugier con atto umano Disse: #_ Accetta una escusa, a benche/ trista, De lo atto ch' io te usai tanto villano; Ma spesso per error biasmo se acquista: E certo che io commessi questo errore Per voglia di seguire il mio segnore. Non me ne avidi alora se non quando Fu la doglia e il furor de me partito; Ora in gran dono e grazia te adimando Che questo assalto sia per me finito. $_ Mentre che cosi\ stava ragionando, E Rodamonte si fo risentito, Qual, veggendosi gionto a cotale atto, Quasi per gran dolor divenne matto. Non se trovando ne la mano il brando, Che, com' io dissi, al prato era caduto, Il celo e la fortuna biastemando La\ dove era Rugier ne fu venuto. Con gli occhi bassi a la terra mirando, Disse: #_ Ben chiaramente aggio veduto Che cavallier non e\ di te migliore, Ne/ teco aver potrebbi alcun onore. Se tal ventura ben fosse la mia, Ch' io te vincessi il campo alla battaglia, Non sono io vinto gia\ di cortesia? Ne/ mia prodezza piu\ vale una paglia. Rimanti adunque, ch' io me ne vo via, E sempre, quanto io possa e quanto io vaglia, Di me fa il tuo parere in ogni banda, Come il maggiore al suo minor comanda. $_ Senza aspettar risposta via fu tolto, In men che non se coce a magro il cavolo; Il brando su dal prato avea racolto, Il brando qual gia\ fo de suo bisavolo. In poco de ora longi era gia\ molto, Che/ si\ camina che sembra un di%avolo; Ne/ mai se riposo\ quel disperato Sin che la notte al campo fu arivato. Rimase Bradamante con Rugiero, Dapoi che il re di Sarza fie' partenza, E la donzella avea tutto il pensiero A prender di costui la cognoscenza. Ma non trovando ben dritto sentiero Ne/ via di ragionar di tale essenza, Temendo che non fosse a lui disgrato, Senza piu\ dimandar prese combiato. Disse Rugiero, il giovane cortese: #_ Che vadi solo, io nol comportaria. Di Barbari e\ gia\ pien tutto il paese, Che assaliranno in piu\ lochi la via. Da tanti non potresti aver diffese: Ma sempre sero\ teco in compagnia; Via passaren, quand' io sia cognosciuto, Se non, coi brandi ce daremo aiuto. $_ Piacque alla dama il proferire umano, E cosi\ insieme presero il camino, Et essa comincio\ ben da lontano Piu\ cose a ragionar col paladino; E tanto lo meno\ di colle in piano, Che gionse ultimamente al suo destino, Chiedendo dolcemente e in cortesia Che dir gli piaccia de che gente sia. Rugiero incomincio\, dal primo sdegno Che ebbero e Greci, la prima cagione Che adusse in guerra l' uno e l' altro regno, Quel de Priamo e quel di Agameno\ne; E 'l tradimento del caval di legno, Come il condusse il perfido Sinone, E dopo molte angoscie e molti affanni Fo Troia presa et arsa con inganni. E come e Greci poi sol per sua boria Fierno un pensier spietato et inumano, Tra lor deliberando che memoria Non se trovasse del sangue troiano. Usando crudelmente la vittoria, Tutti e pregion scanarno a mano a mano, Et avanti a la matre per piu\ pena Ferno svenar la bella Polissena. E cercando Astianatte in ogni parte, Che era di Ettorre un figlio piccolino, La matre lo scampo\ con cotale arte: Che in braccio prese un altro fanciullino, E fuggette con esso a la disparte. Cercando i Greci per ogni confino, La ritrovarno col fanciullo in braccio, E a l' uno e a l' altro dier di morte spaccio. Ma il vero figlio, Asti%anatte dico, Era nascoso in una sepoltura, Sotto ad un sasso grande e molto antico, Posto nel mezo de una selva oscura. Seco era un cavallier del patre amico, Che se pose con esso in aventura, Passando il mare; e de uno in altro loco Pervenne in fine alla Isola del Foco. Cosi\ Sicilia se appellava avante, Per la fiamma che getta Mongibello. Or crebbe il giovanetto, et aiutante Fu di persona a meraviglia e bello; E in poco tempo fie' prodezze tante, Che Argo e Corinto pose in gran flagello; Ma fu nel fine occiso a modo tristo Da un falso Greco, nominato Egisto. Ma prima che morisse, ebbe a Misina (De la qual terra lui n' era segnore) Una dama gentile e pellegrina, Che la vinse in battaglia per amore. Costei de Saragosa era regina, Et un gigante chiamato Agranore, Re de Agrigento, la oltraggiava a torto; Ma da Astianatte fu nel campo morto. Prese per moglie poscia la donzella, E fece contra e Greci il suo passaggio, Insin che Egisto, la persona fella, Lo occise a tradimento in quel rivaggio. Non era gionta ancora la novella De la sconfitta e di tanto dannaggio, Che e Greci con potente e grande armata Ebber Misina intorno assedi%ata. Gravida era la dama de sei mesi, Quando alla terra fu posto lo assedio, Ma a patti se renderno e Misinesi, Per non soffrir di guerra tanto tedio. Poco o ni%ente valse essersi resi, Che/ tutti morti fo^r senza rimedio, Poi che promesso a' Greci avean per patto Dar lor la dama, e non l' aveano fatto. Ma essa, quella notte, sola sola Sopra ad una barchetta piccolina Passo\ nel stretto, ove e\ l' onda che vola E fa tremare e monti alla ruina; Ne/ si potrebbe odire una parola, Tant' alto e\ quel furor de la marina; Ma la dama, vargando come un vento, A Regio se ricolse a salvamento. E Greci la seguirno, e a lor non valse Pigliar la volta che e\ senza periglio, Perche/ un' aspra fortuna a l' onde salse Sumerse et ispezzo\ tutto il naviglio, E fo^r punite le sue voglie false. Ora la dama a tempo ebbe un bel figlio, Che rilucente e bionde avia le chiome, Chiamato Polidoro a dritto nome. Di questo Polidoro un Polidante Nacque da poi, e Flovi%an di quello. Questo di Roma si fece abitante Et ebbe duo filioli, ogniun piu\ bello, L' un Clodovaco, l' altro fu Constante, E fu diviso quel sangue gemello; Due {t} geste {/t S; teste Z} illustre da questo discesero, Che poi con tempo molta fama apresero. Da Constante discese Costantino, Poi Fiovo e 'l re Fiorello, il campi%one, E Fioravante e giu\ sino a Pipino, Regal stirpe di Francia, e il re Carlone. E fu l' altro lignaggio anco piu\ fino: Di Clodovaco scese Gianbarone, E di questo Rugier, paladin novo, E sua gentil ischiatta insino a Bovo. Poi se partitte di questa colona La nobil gesta, in due parte divisa; Et una di esse rimase in Antona, E l' altra a Regio, che se noma Risa. Questa citade, come se ragiona, Se resse a bon governo e bona guisa, Sin che il duca Rampaldo e' soi figlioli A tradimento fo^r morti con do^li. La voglia di Beltramo traditore Contra del patre se fece rubella; E questo fu per scelerato amore Che egli avea posto alla Galaci%ella; Quando Agolante con tanto furore, Con tanti armati in nave e ne la sella, Coperse si\ di gente insino in Puglia, Che al vo\to non capea ponto de aguglia. Cosi\ parlava verso Bradamante Rugier, narrando ben tutta la istoria, Et oltra a questo ancor seguiva avante, Dicendo: #_ Cio\ non toglio a vanagloria, Ma de altra stirpe di prodezze tante, Che sia nel mondo, non se ne ha memoria; E, come se ragiona per il vero, Sono io di questi e nacqui di Rugiero. Lui de Rampaldo nacque, e in quel lignaggio Che avesse cotal nome fu secondo; Ma fu tra gli altri di virtute un raggio, De ogni prodezza piu\ compiuto a tondo. Morto fu poscia con estremo oltraggio, Ne/ maggior tradimento vidde il mondo, Perche/ Beltramo, il perfido inumano, Traditte il patre e il suo franco germano. Risa la terra ando\ tutta a ruina, Arse le case, e fu morta la gente; La moglie di Rugier, trista, tapina, Galaci%ella, dico, la valente, Se pose disperata alla marina, E gionta sendo al termine dolente Che piu\ il fanciullo in corpo non si porta, Me parturitte, e lei rimase morta. Quindi mi prese un negromante antico, Qual di medolle de leoni e nerbi Sol me nutritte, e vero e\ quel ch' io dico. Lui con incanti orribili et acerbi Andava intorno a quel diserto osti\co, Pigliando serpe e draghi piu\ superbi, E tutti gli inchiudeva a una serraglia; Poi me ponea con quelli alla battaglia. Vero e\ che prima ei gli cacciava il foco E tutti e denti fuor de la mascella: Questo fo il mio diletto e il primo gioco Che io presi in quell' etate tenerella; Ma quando io parvi a lui cresciuto un poco, Non me volse tenir piu\ chiuso in cella, E per l' aspre foreste e solitarie Me conducea, tra bestie orrende e varie. La\ me facea seguir sempre la traccia Di fiere istrane e diversi animali; E mi ricorda gia\ che io presi in caccia Grifoni e pegasei, benche/ abbiano ali. Ma temo ormai che a te forse non spiaccia Si\ lunga diceria de tanti mali: E, per satisfar tosto a tua richiesta, Rugier sono io; da Troia e\ la mia gesta. $_ Non avea tratto Bradamante un fiato, Mentre che ragionava a lei Rugiero, E mille volte lo avea riguardato Giu\ dalle staffe fin suso al cimero; E tanto gli parea bene intagliato, Che ad altra cosa non avea il pensiero: Ma {add} disi%ava {/add; disiava Z} piu\ vederli il viso Che di vedere aperto il paradiso. E stando cosi\ tacita e sospesa, Rugier sogionse a lei: #_ Franco barone, Volentier saprebbi io, se non ti pesa, Il nome tuo e la tua nazi%one. $_ E la donzella, che e\ d' amore accesa, Rispose ad esso con questo sermone: #_ Cosi\ vedestu\ il cor, che tu non vedi, Come io ti mostraro\ quel che mi chiedi. Di Chiaramonte nacqui e di Mongrana. Non so se sai di tal gesta ni%ente, Ma di Ranaldo la fama soprana Potrebbe essere agionta a vostra gente. A quel Ranaldo son so^ra germana; E perche/ tu mi creda veramente, Mostrarotti la faccia manifesta $_; E cosi\ lo elmo a se/ trasse di testa. Nel trar de l' elmo si sciolse la treccia, Che era de color d' oro allo splendore. Avea il suo viso una delicateccia Mescolata di ardire e de vigore; E' labri, il naso, e' cigli e ogni fateccia Parean depenti per la man de Amore, Ma gli occhi aveano un dolce tanto vivo, Che dir non po^ssi, et io non lo descrivo. Ne lo apparir dello angelico aspetto Rugier rimase vinto e sbigotito, E sentissi tremare il core in petto, Parendo a lui di foco esser ferito. Non sa pur che si fare il giovanetto: Non era apena di parlare ardito. Con l' elmo in testa non l' avea temuta, Smarito e\ mo che in faccia l' ha veduta. Essa poi comincio\: #_ Deh bel segnore! Piacciavi compiacermi solo in questo, Se a dama alcuna mai portasti amore, Ch' io veda il vostro viso manifesto. $_ Cosi\ parlando odirno un gran rumore; Disse Rugiero: #_ Ah Dio! Che sera\ questo? $_ Presto se volta e vede gente armata, Che vien correndo a lor per quella strata. Questi era Pinadoro e {add} Martasino, {/add; Martasino Z} Daniforte e Mordante e Barigano, Che avean posto uno aguato in quel confino Per pigliar quei che in rotta se ne vano. Come gli vidde il franco paladino, Verso di lor parlando alcio\ la mano, E disse: #_ Stati saldi in su il sentiero! Non passati piu\ avanti! Io son Rugiero. $_ In ver da la piu\ parte e' non fu inteso, Perche/ cridando uscia de la foresta. E Martasin, che sempre e\ de ira acceso, Subito gionse e parve una tempesta. A Bradamante se ne va disteso, E ferilla aspramente nella testa; Non avea elmo la meschina dama, Ma sol guardando al celo aiuto chiama. Alciando il scudo il capo se coperse, Che/ non volse fuggir la dama vaga. Re Martasino a quel colpo lo aperse, E fece in cima al capo una gran piaga. Gia\ Bradamante lo animo non perse, E riscaldata a guisa d' una draga Ferisce a Martasin di tutta possa; Ma Rugier gionse anch' esso alla riscossa. E Daniforte cridava: #_ Non fare! Non far, Rugier, che/ quello e\ Martasino! $_ Gia\ Barigano non stette a cridare, Che/ odio portava occulto al paladino, Et avea voglia di se vendicare, Pero\ che un Bardulasto, suo cugino, Fo per man di Rugier di vita spento; Ma lui lo avea ferito a tradimento. Se vi racorda, e' fu quando il torniero Se fece sotto al monte di Carena. Scordato a voi debbe esser de legiero, Che/ io che lo scrissi, lo ramento apena. Ora, tornando Barigano il fiero, Sopra a Rugiero un colpo a due man mena; Sopra la testa a lui mena a due mano, E ben credette di mandarlo al piano. Ma il giovanetto, che ha soperchia possa, Non se mosse per questo dello arcione; Anci, adirato per quella percossa, Torno\ piu\ fiero, a guisa di leone. Gia\ Bradamante alquanto era rimossa Larga da loro; e, stracciato un pennone Di certa lancia rotta alla foresta, Con fretta avea legata a se/ la testa. L' elmo alacciato e posta la barbuta, Torno\ alla zuffa con la spada in mano. La ardita dama aponto era venuta Quando a Rugier percosse Barigano. Lei speronando de arivar se aiuta, E gionse un colpo a quel falso pagano; Non par che piastra, o scudo, o maglia vaglia: A un tratto tutte le sbaraglia e taglia. Rugiero aponto si era rivoltato Per vendicar lo oltraggio ricevuto, E vidde il colpo tanto smisurato, Che de una dama non l' avria creduto. Barigano in duo pezzi era nel prato, Ne/ a tempo furno gli altri a darli aiuto, A benche/ incontinente e destrier ponsero; Ma, come io dico, a tempo non vi gionsero. Onde adirati, per farne vendetta Contra alla dama tutti se adricciarno. Rugier de un salto in mezo a lor se getta Per dipartir la zuffa, a benche/ indarno; Non val che parli, o che in mezo se metta, E Martasino e Pinador cridarno: #_ Tu te farai, Rugier, qua poco onore: Contra Agramante e\i fatto traditore. $_ Come quella parola e oltraggio intese Il giovanetto, non trovava loco, E si\ nel core e nel viso se accese, Che sfavillava gli occhi come un foco; E messe un crido: #_ Gente discortese, Lo esser cotanti vi giovara\ poco. Traditor sete voi; io non sono esso, E mostraro\ la prova adesso adesso. $_ Tra le parole il giovane adirato Urta il destriero adosso a Pinadoro. Or vedereti il campo insanguinato, E de duo cori arditi il bel lavoro. Chi gli assalta davanti e chi da lato, Che/ molta gente avean seco coloro; Dico gli cinque re, de che io contai, Avean con seco gente armata assai. De' suoi scuderi in tutto da cinquanta Avean seco costoro in compagnia. El resto di sua gente, ch' e\ cotanta, Era rimaso adietro per la via; Ma se qui ancora fosse tutta quanta, Gia\ Bradamante non ne temeria; Mostrar vo^le a Rugier che cotanto ama, Che sua prodezza e\ assai piu\ che la fama. Ne/ gia\ Rugiero avia voglia minore Di far vedere a quella damigella Se ponto avea di possa o di valore, E Lampeggiava al cor come una stella. Ragione, animo ardito e insieme amore L' un piu\ che l' altro dentro lo martella; E la dama, ferita a tanto torto, L' avrebbe ad ira mosso essendo morto. Dunque adirato, come io dissi avante, Se adriccia a Pinadoro il paladino; Ne/ piu\ lenta se mosse Bradamante, Che fuor de gli altri ha scorto Martasino. Ma questo canto non seri\a bastante Per dir cio\ che fu fatto in quel confino, Onde io riservo al resto il fatto tutto, Se Dio ce dona, come suole, aiutto. Segnor, se alcun di voi sente de amore, Pensati che battaglia avranno a fare Que' duo, che insieme agionto aveano il core, Ne/ volevan l' un l' altro abandonare. La fulmina del cel con suo furore Non gli potrebbe a forza separare; Ne/ spietata fortuna e non la morte Puo\ disgiongere amor cotanto forte. Come io contava, il nobile Rugiero Sopra de Pinador forte martella; L' elmo gli ruppe e spennacchio\ il cimiero: Quasi a quel colpo lo trasse di sella. Da l' altra parte Martasino il fiero Non avantaggia ponto la donzella, La qual sempre cridava: #_ Ascolta! ascolta! Non me trovi senza elmo a questa volta. $_ Cosi\ dicendo a duo man l' ha ferito De un colpo tanto orrendo e smisurato, Che sopra de lo arcion e\ tramortito: E veramente lo mandava al prato, Ma in quel Mordante, il saracino ardito, Correndo alla donzella urto\ da lato, Ferendola a duo man de un roversone Che fu per trarla fuora de lo arcione. Ma Rugier presto venne ad aiutare, Lasciando Pinador che aveva avante; Pero\ che, benche/ assai abbia da fare, Sempre voltava gli occhi a Bradamante. Or sembra il giovanetto un vento in mare: Spezza in due parte il scudo di Mordante, Taglia le piastre e usbergo tutto netto, Et anco alquanto lo feri\ nel petto. Ma Pinadoro, che lo avea seguito, Percosse a mezo il collo il paladino, E taglio\ la gorziera piu\ de un dito: Tenne il camaglio el brando, che/ era fino. Non si spaventa il giovanetto ardito: Tondo de un salto rivolto\ Frontino, E mena a Pinadoro in su la testa; E Martasino a lui, che gia\ non resta. Mentre che questa zuffa se scompiglia, Daniforte se afronta e viene in tresca Con circa a trenta della sua famiglia, Con targhe e lancie armati alla moresca. Bradamante ver loro alcio\ le ciglia: Come stara\ cotal canaglia fresca, Che armati son di sa\mito e di tela! Oh che squarcioni andran per l' aria a vela! Urta tra lor la dama e il brando mena, E gionse un moro in su un gianetto bianco, Che coda e chioma avia tinto de alchena; Lei taglio\ il nero dalla spalla al fianco. Non era a terra quel caduto apena, Che afronta uno Arbo, e fece piu\ ni manco; La spada adosso in quel modo gli calla, Si\ che il parti\ dal fianco in su la spalla. Quasi che insieme tutti ebber la morte; Chi qua chi la\ per el campo cascava, E quando il primo bussava alle porte Giu\ dello inferno, lo ultimo arivava. Piu\ fiate la assalitte Daniforte; Ma, come Bradamante a lui voltava, Quel fugge e sguincia, e ponto non aspetta, E torna e volta, e sembra una saetta. Egli avea sotto una iumenta mora, Di pel di ratta, con la testa nera, Che in su la terra mai non se dimora Con tutti e piedi, tanto era legiera. Vero e\ che in dosso avia poche arme ancora, Che/ non portava usbergo ne/ lamiera: La to\cca ha in testa, e la lancia e la targa, E cinta al petto una spadazza larga. Armato come io dico, il saracino Tenea sovente la dama aticciata; Or corre, e volta poi che gli e\ vicino, Or da traverso mena una lanciata. Ecco la dama ha visto Martasino, Che al suo Rugier ferisce della spata: Di dietro il tocca, sopra delle spalle, E ben si crede di mandarlo a valle. Ma Bradamante vi gionse a quel ponto Che Rugiero ebbe il colpo smisurato; Balordito era e si\ come defonto Al col del suo destrier stava abracciato. Or bene a tempo e\ quel soccorso agionto, Perche/ certo altrimente era spacciato; Ma come gionse, la dama felice Parve un falcone entrato a le pernice. Insieme Martasino e Pinadoro A lei voltarno, e gionsevi Mordante E Daniforte, e molti altri con loro: Chi la tocca di dietro, e chi davante. Ma lei, che di prodezza era un tesoro, Dispreza l' altre gente tutte quante; Tocca sol Martasino e quel travaglia, Ne/ cura il resto che de intorno abaglia. Tanto adirata e\ la dama valente, Che Martasin conduce a rio partito; La sua prodezza a lui giova ni%ente, Spezzato ha l' elmo e nel petto e\ ferito. Ne/ vi giova il soccorso de altra gente; La dama nel suo core ha statuito Che ad ogni modo in questa zuffa e' mora, E ben col brando a cerco gli lavora. Al fin turbata e con molta tempesta De coprirse col scudo non ha cura, E ferillo a due man sopra alla testa: Divide il capo e parte ogni armatura. Quella tagliente spada non se arresta, Che/ tutto il fende insino alla centura; Nel tempo che a quel modo lo divide, Rugier rivenne e quel bel colpo vide. Torna alla zuffa il giovanetto forte, Si\ rosso in vista che sembrava un foco: Guardative, Pagan, che/ el vien la morte! A zaro il resto, ormai non vi e\ piu\ gioco. E ben se avide il falso Daniforte Che il contrastar piu\ qua non avea loco: Gia\ morto e\ Martasino e Barigano, Quaranta e piu\ de gli altri sono al piano. Esso e\ rimaso e seco Pinadoro, Circa ad otto altri ancora, con Mordante. Tagliava allora il capo a un barbasoro La dama, e gli altri avea morti davante. Intanto insieme consiglia^r costoro Che Daniforte attenda a Bradamante E conducala via, mostrando fuggere, Gli altri Rugiero attendano a destruggere. Era gia\ gionto il giovanetto al ballo, E stranamente incomincio\ la danza, Che/ incontro\ un rebatin sopra al cavallo, E tutto lo parti\ sino alla panza. Non avea intorno pezzo di metallo, Perche/ era armato pure a quella usanza, Moresca, dico, essendo Genoese: Ma con la fede avea cambiato arnese. Rugier lo occise, e un altro a canto ad esso. Ne/ Bradamante ancora se posava; Ma Daniforte occultamente apresso Di lei se fece e sua lancia menava. La\ dove il sbergo alla giontura e\ fesso, Colse, ma poco dentro ve ne entrava, Che/ forte mai non mena quel che dubita: La dama se volto\ turbata e subita. Gia\ Daniforte ponto non la aspetta, Ne/ star con seco a fronte gli bisogna; Lei con li sproni il suo destriero afretta, Che/ voglia ha di grattare a quel la rogna. Seri\a scappato come una saetta, Ma non volea, quel pezzo di carogna, Che va trottone e lamentase et urla, Mostrando stracco sol per via condurla. Gli altri a Rugiero intorno combattevano, Io dico Pinadoro e il re Mordante, Che circa a sei de' suoi ancor vi avevano, E di dietro il toccavano e davante, Usando ogni vantaggio che sapevano. Ma lascio loro e torno a Bradamante, Che dietro a Daniforte invelenita Lo vo^l seguire a sua vita finita. E quel malvaggio spesso se rivolta, Aspettala vicino, e poi calcagna, E per un pezzo fugge alla disciolta, Poi va galoppo e il corso risparagna, Tanto che di quel loco l' ebbe tolta, E furno usciti fuor de la campagna, Che tutta e\ chiusa de monti de intorno, Ove era stata la battaglia il giorno. Il falso saracin monta a la costa E scende ad un bel pian da l' altro lato. Bradamante lo segue, che/ e\ disposta Non lo lasciar se non morto o pigliato; E non prendendo al lungo corso sosta, Il suo destriero afflitto et affannato, Sendo gia\ in piano, al transito d' un fosso, Non potendo piu\ andar gli cade adosso. E Daniforte, che senti\ il stramaccio, Presto se volta, e stracco non par piu\, Dicendo: #_ Cristi%an, di questo laccio Ove e\i caduto, non uscirai tu. $_ Or Bradamante col sinistro braccio Pinse il ronzon da lato, e levo\ su, E forte crida: #_ Falso saracino, Ancor non m' hai legata al tuo domi\no. $_ Pur Daniforte de intorno la agira, E de improviso spesso la assalisse; Or mostra de assalirla, e se ritira, Et a tal modo il falso la ferisse. La dama gionta a l' ultimo se mira, E tacita parlando fra se/ disse: ## Io spargo il sangue e l' anima se parte, Se io non colgo costui con la sua arte. $# Cosi\ con seco tacita parlava, Mostrandosi ne gli atti sbigotita, Ne/ molta finzi%on gli bisognava, Pero\ che in molte parte era ferita, E il sangue sopra l' arme rosseggiava. Or, mostrando cadere alla finita, Andar se lascia e in tal modo se porta, Che giuraria ciascun che fusse morta. E quel malici%oso ben se mosse, Ma de smontare a terra non se attenta, E prima con la lancia la percosse Per veder se de vita fusse ispenta; La dama lo sofferse e non se mosse, E quello smonta e lega la iumenta; Ma come Bradamante in terra il vede, Non par piu\ morta e fu subito in piede. Ora non puote il pagan maledetto, Come suoleva, correre e fuggire; La dama il capo gli taglio\ di netto E lascio\l possa a suo diletto gire. La ombra era grande gia\ per quel distretto, E cominciava il celo ad oscurire: Non sa quella donzella ove se sia, Che/ condotta era qua per strana via. Per boschi e valle, e per sassi e per spine Avea correndo il pagan seguitato, E non vedeva per quelle confine Abitacolo o villa in verun lato. Salitte sopra la iumenta in fine, E caminando uscitte di quel prato; Ferita e sola, a lume de la luna Abandono\ la briglia alla fortuna. Lasciamo andare alquanto Bradamante, Poi di lei seguiremo e soa ventura, E ritorniamo ove io lasciai davante Rugier lo ardito alla battaglia dura. Il re di Constantina con Mordante, Che non han di vergogna alcuna cura, Gli sono intorno per farlo cadere, E ciascun de essi tocca a piu\ potere. Oh chi vedesse il giovanetto ardito, Come a ponto divide il tempo a sesto, Che non ne perde nel ferire un dito! Or quinci or quindi tocca, or quello or questo; Apena par che l' uno abbia ferito, Che volta a l' altro, e mena cosi\ presto Che con minor distanzia e tempo meno Fulmina a un tratto e seguita il baleno. E per non vi seguir si\ lunga traccia, La cosa presto presto vi disgroppo. Mordante, che assalirlo se procaccia, Ebbe tra questo assalto un strano intoppo: Fu ferito a traverso nella faccia, E via volo\ de l' elmo tutto il coppo; Meza la testa e\ ne lo elmo che vola, Rimase il resto al busto con la gola. Non avea fatto questo colpo apena, Che a Pinador volto\, che era da lato, E nel voltarse lo assalisce e mena; Ma quello era gia\ tanto spaventato, Che parea un veltro uscito di catena, Fuggendo a tutta briglia per il prato. Fuggito essendo per sassi e per valle, Rugier gli tolse il capo dalle spalle. Era gia\ il sole allo occidente ascoso, Quando finita e\ la battaglia dura; Allor guardando il giovane amoroso Di Bradamante cerca e di lei cura, Ne/ trova nel pensiero alcun riposo. Per tutto a cerco e\ gia\ la notte oscura: Veder non puo\ colei che cotanto ama, Ma guarda intorno e ad alta voce chiama. Passando per costiere e per valloni, Trovo\ duo cavallieri ad un poggetto, E sentendo il scalpizzo de' ronzoni Prese alcuna speranza il giovanetto; Ma come a lui parlarno que' baroni, Che il salutarno de animo perfetto, Tanto cordoglio l' animo gli assale, Che non rispose a lor ni ben ni male. #_ Costui certo debbe esser un villano, Che avra\ spogliato l' arme a qualche morto! $_ Disser que' duo; ma il giovanetto umano Rispose: #_ Veramente io ebbi il torto. Amor, che ha del mio cor la briglia in mano, Me ha da lo intendimento si\ distorto, Che quel che esser soleva, or piu\ non sono, E del mio fallo a voi chiedo perdono. $_ Disse un de' duo baroni: #_ O cavalliero, Se inamorato sei, non far piu\ scusa: Tua gentilezza provi de legiero, Perche/ in petto villano amor non usa; E se di nostro aiuto hai de mestiero, Alcun di noi servirti non recusa. $_ Rispose a lui Rugiero: #_ Ora mi lagno, Perche/ ho perduto un mio caro compagno. Se lo avesti sentito indi passare, Mostratimi il camin per cortesia; Per tutto il mondo lo voglio cercare: Senza esso certo mai non viveria. $_ Cosi\ dicea Rugiero, e palesare Altro non volse, sol per zelosia; Pero\ che il dolce amore in gentil petto Amareggiato e\ sempre di sospetto. Negarno e duo baroni aver sentito Passare alcuno intorno a quel distretto, E ciascadun di lor si e\ proferito De accompagnar cercando il giovanetto; Et esso volentier prese lo invito, Che/ se trovava in quel loco soletto, Dico in quel monte diserto e salvatico, Et esso del paese era mal pratico. Tutti e tre insieme adunque cavalcando, Avosavano intorno spessamente, Per ogni loco del monte cercando Tutta la notte, e trovarno ni%ente. E gia\ veniva l' alba reschiarando, La luce rosseggiava in ori%ente, Quando un de quei baron tutto se affisse Mirando il scudo de Rugiero, e disse: #_ Chi vi ha concessa, cavallier, licenzia Portar depenta al scudo quella insegna? Il suo principio e\ di tanta eccellenzia, Che ogni persona de essa non e\ degna. Cio\ vi comportaro\ con paci%enzia, Se tal virtu\ nel corpo vostro regna, Che alla battaglia riportati lodo Contro di me, che l' ho acquistata e godo. $_ Disse Rugiero: #_ Ancor non mi ero accorto Che quella insegna e\ fatta come questa; E veramente la portati a torto, Se non siamo discesi de una gesta; Onde vi prego molto e vi conforto Che tal cosa facciati manifesta: Ove acquistasti tale insegna e come, E quale e\ vostra stirpe e vostro nome. $_ Disse colui: #_ Da parte assai lontane A vostra stirpe credo esser venuto; Tartaro sono e nacqui de Agricane, Mio nome ancora e\ poco cognosciuto. Per forza de arme et aventure istrane In Asia conquistai questo bel scuto; Ma a che bisogna dare incenso a' morti? Chi ha piu\ prodezza, quello scudo porti. $_ Rugier, poi che lo invito ebbe accettato, Giva il nimico a cerco rimirando: Vide che spata non avea a lato, E disse a lui: #_ Voi sete senza brando: Come faremo, che/ io non sono usato Giocare a pugni? E pero\ vi adimando Quale esser debba la contesa nostra: Brando non vi e\ ne/ lancia per far giostra. $_ Rispose il cavallier: #_ Mai non vien manco Fortuna de arme a franco campi%one; Le vostre acquistaro\, se io non mi stanco: Acquistar le voglio io con un bastone. Portar non posso brando alcuno al fianco, Se io non abatto il figlio di Melone, Pero\ che Orlando, la anima soprana, Tien la mia spata, detta Durindana. $_ L' altro compagno di quel cavalliero (Che era Gradasso, et esso e\ Mandricardo) Presto rispose: #_ E' vi falla il pensiero, Perche/ quel brando del conte gagliardo Si\ non acquistareti de legiero, Che/ gionto seti a tale impresa tardo, E seri\a vostra causa disonesta: Prima di voi io venni a questa inchiesta. Cento cinquanta millia combattanti Condussi in Francia fin de Sericana; Tante pene soffersi, affanni tanti, Per acquistare il brando Durindana! Par che il mercato sii fatto a contanti, Cosi\ faceti voi la cosa piana; Ma prima che il pensier vostro se adempia, Faro\ scadervi l' una e l' altra tempia. Ne/ vi crediati senza mia contesa Aver per zanze quel brando onorato. $_ E Mandricardo di collera accesa Disse: #_ Io so che di zanze e\ bon mercato: Or vi aconciati e prendeti diffesa. $_ Cosi\ dicendo ad uno olmo in quel prato Un grosso tronco tra le rame scaglia, E quel sfrondando viene alla battaglia. Gradasso il brando pose anco esso in terra, E spicco\ presto un bel fusto di pino; L' un piu\ che l' altro gran colpi disserra E fuor de l' arme scuoteno il polvino. Stava Rugiero a remirar tal guerra E scoppiava de riso il paladino, Dicendo: #_ A benche/ io non veda chi ma\sini, Quel gioco e\ pur de molinari e de asini. $_ Piu\ fiate volse la zuffa partire: Come piu\ dice, ogniom piu\ se martella. Eccoti un cavalliero ivi apparire Accompagnato da una damigella. Rugier da longi lo vidde venire; Fassegli incontro e con dolce favella Espose a lui ridendo la cagione Perche/ faceano e duo quella tenzone. Dicea Rugiero: #_ Io gli ho pregati in vano, Ma di partirli ancor non ho potere. Per la spata de Orlando, che non hano, E forse non sono anco per avere, Tal bastonate da ciechi se {add} da\no, {/add; dano, Z} Che pieta\ me ne vien pur a vedere: E certo di prodezza e di possanza Son due lumiere agli atti e alla sembianza. Ma voi diceti: onde seti venuto? Perche/, se io non me inganno nel sembiante, Mi pare altrove avervi cognosciuto: Se bene amento, in corte de Agramante. $_ Rispose il cavalliero: #_ Io ve ho veduto Di certo quando io venni di Levante. Io ve vidi a Biserta, questo e\ il vero; Son Brandimarte, e voi seti Rugiero. $_ Incontinente insieme se abbracciarno, Come se ricognobbero e baroni, E parlando tra lor deliberarno De ispartir quella zuffa de bastoni. Ebbero un pezzo tal fatica indarno, Che/ si\ turbati sono e campi%oni, Che per ragione o preghi non se voltano: L' un l' altro tocca, e ponto non ascoltano. Pur Brandimarte, a cenni supplicando, Fece che sue parole furno odite, Dicendo a lor: #_ Se desi%ati il brando Per il quale e\ tra voi cotanta lite, Condur vi posso ov' e\ al presente Orlando: La\ fi\en vostre contese diffinite. Or si\ ve ha tolto l' ira il fren di mano, Che per ni%ente combattete in vano. Ma se traeti il campi%on sereno Di certa incantason dolente e trista, Lui di battaglia a voi non verra\ meno; Sia Durindana poi di chi l' acquista. Se il mondo e\ ben di meraviglia pieno, Una piu\ strana mai non ne fu vista Di questa ove ora vado, per provare Se indi potessi Orlando liberare. $_ Gradasso e Mandricardo, odendo questo, Lascia^r la pugna piu\ che volentiera, Pregando Brandimarte che pur presto Gli volesse condurre ove il conte era. Esso rispose: #_ Ora io vi manifesto Che vicino a due leghe e\ una riviera, Qual nome ha Riso, e veramente e\ un pianto; Dentro vi e\ chiuso Orlando per incanto. Uno indovino, a cui molto e\ creduto, In Africa m' ha questo apalesato; E percio\ in questo loco era venuto A liberarlo, come disperato. Bastante non ero io; ma il vostro aiuto, Come io comprendo, il cel me ha destinato, E so che ogniom di voi passaria il mare Per tuore impresa tanto singulare. $_ Ciascun de' duo baroni ha piu\ desio Di ritrovarsi presto alla fiumana. Dicea Rugiero: #_ E dove rimango io, Se ben non cheggio Orlando o Durindana? $_ Piu\ non dico ora. Il grave incanto e rio Faro\ palese e la aventura istrana, E come tratto for ne fosse Orlando; Cari segnori, a voi me racomando. Piu\ che il tesoro e piu\ che forza vale, Piu\ che il diletto assai, piu\ che l' onore, Il bono amico e compagnia leale; E a duo, che insieme se portano amore, Maggior li pare il ben, minore il male, Potendo apalesar l' un l' altro il core; E ogni dubbio che accada, o raro, o spesso, Poterlo ad altrui dir come a se stesso. Che giova aver de perle e d' o^r divizia, Avere alta possanza e grande istato, Quando si gode sol, senza amicizia? Colui che altri non ama, e non e\ amato, Non puote aver compita una letizia; E cio\ dico per quel che io vi ho contato Di Brandimarte, che ha passato il mare Sol per venire Orlando ad aiutare. Di Biserta e\ venuto il cavalliero Per trare il conte fuor de la fiumana; Il re Gradasso e Mandricardo altiero Avea richiesti a quella impresa strana. #_ Ma dove rimango io? $_ dicea Rugiero #_ Se ben non chieggio a Orlando Durindana, Se ben seco non voglio aver contesa, Venir non debbo a si\ stupenda impresa? $_ #_ Esser conviene il numero disparo, $_ Rispose Brandimarte #_ a quel che io sento; Condurvi tutti quanti avrebbi a caro, Ma nol concede questo incantamento; Et io non vedo a cio\ meglior riparo Che per la sorte fare esperimento. Ecco una pietra bianca et una oscura: Chi avra\ la nera, cerchi altra ventura. $_ Ciascun de stare a questo fo contento, Cosi\ gettarno la ventura a sorte, E Mandricardo fuor rimase ispento, E quindi se parti\ dolente a morte. Turbato se ne va, che sembra un vento, Per piano e monte caminando forte. Tanto ando\, che a Parigi gionse un giorno, Ove Agramante ha gia\ lo assedio intorno. Di fuor ne l' oste, io dico de Agramante, Fu ricevuto a grandissimo onore. Ma di lui non ragiono ora piu\ avante, Perche/ io ritorno nel primo tenore A ricontarvi del conte de Anglante, Che se ritrova preso in tanto errore Tra le Naia\de al bel fiume del Riso; Or odeti la istoria che io diviso. Queste Naia\de ne l' acqua dimorano Per quella solacciando, come il pesce, E per incanto gran cose lavorano, Che/ ogni disegno a lor voglia ri%esce. De' cavallier sovente se inamorano, Che/ star senza uomo a ogni dama rencresce, E di tal fatte assai ne sono al mondo; Ma non si veggion tutti e fiumi al fondo. Queste ne l' acque che il Riso se appella, Avean composto de oro e di cristallo Una mason, che mai fu la piu\ bella, E la\ si stavon festeggiando al ballo. Gia\ vi contai di sopra la novella, Quando discese Orlando del cavallo Per rinfrescarse a l' onde pellegrine; Cio\ vi contai de l' altro libro al fine. E come tra le dame fu raccolto Con molta zoia e grande adobamento; Quivi poi stette libero e disciolto, Preso de amore al dolce incantamento, A l' onde chiare specchiandosi il volto, Fuor di se stesso e fuor di sentimento; E le Naia\de, allegre oltra misura, Solo a guardarlo aveano ogni lor cura. Pero\ di fuora, in cerco alla rivera, Per arte avean formato un bosco grande, Ove stava di pianta ogni mainera, Ilice e quercie e soveri con giande: L' arice e teda e l' abete legera Di grado in grado al ciel le fronde spande, Che sotto a se/ facean l' aere oscuro; Poi for del bosco se agirava un muro. Questa cinta era fabricata intorno Di marmi bianchi, rossi, azurri e gialli, Et avea in cima un veroncello adorno Con colonnette di ambre e de cristalli. Ora a quei cavallier faccio ritorno, Che vengon senza suoni a questi balli, Ne/ san de le Naia\de la mala arte: Dico Rugier, Gradasso e Brandimarte, E Fiordelisa, che seco favella Di questa impresa e molto li conforta. Gionsero in fine a la muraglia bella, Qual di metallo avea tutta la porta. Sopra alla soglia stava una donzella, Come a guardarla posta per iscorta, E tenea un breve, scritto da due bande, Con tal parole e con lettere grande: #+ Desio di chiara fama, isdegno e amore Trovano aperta a sua voglia la via. $+ Questi duo versi avea scritti di fuore, Poi dentro in cotal modo se leggia: #+ Amore, isdegno e il desi%are onore Quando hanno preso l' animo in bali\a, Lo sospingon avanti a tal fraccasso, Che poi non trova a ritornare il passo. $+ Gionti quivi e baron, come io vi ho detto, La dama con la mano il breve alciava, E fo da tutti lor veduto e letto Da quella banda che se dimostrava. Adunque e cavallier senza sospetto Passa^r, che/ alcun la strata non vetava; Con Fiordelisa entrarno tutti quanti, Ma per la selva andar non ponno avanti. Pero\ che quella molto era confusa De arbori spessi et alti oltra misura; La porta alle sue spalle era gia\ chiusa, Che piu\ facea parer la cosa scura; Ma Fiordelisa, tra gli incanti adusa, #_ Non abbiati $_ dicia #_ de cio\ paura; A ogni periglio e loco ove si vada, Il brando e la virtu\ fa far la strada. Smontati de li arcioni, e con le spate Tagliando e tronchi, fative sentiero; E se ben sorge alcuna novitate, Non vi turbati ponto nel pensiero. Vince ogni cosa la animositate, Ma condurla con senno e\ di mestiero. $_ Cosi\ dicea la dama; onde e baroni Smontano al piano e lasciano e ronzoni. Smontati tutti e tre, come io vi disse, Rugier nel bosco fo il primo ad entrare, Ma un lauro il suo camin sempre impedisse, Ne/ a' folti rami lo lascia passare; Onde la mano al brando il baron misse E quella pianta se pose a tagliare, Dico del lauro, che foglia non perde Per freddo e caldo, e sempre se rinverde. Poi che soccisa fu la pianta bella E cadde a terra il tri%omfale aloro, Fuor del suo tronco sorse una donzella, Che sopra al capo avia le chiome d' oro, E gli occhi vivi a guisa de una stella; Ma piangendo mostrava un gran martoro, Con parole suave e con tal voce, Che avria placato ogni animo feroce. #_ Serai tanto crudel, $_ dicea #_ barone, Che il mio mal te diletti e trista sorte? Se qua me lasci in tal condizi%one, Le gambe mie seran radice intorte, El busto tramutato in un troncone, Le braccie istese in rami seran porte; Questo viso fia scorza, e queste bionde Chiome se tornaranno in foglie e in fronde. Perche/ cotale e\ nostra fatasone, Che trasformate a forza in verde pianta Stiamo rinchiuse, insin che alcun barone Per sua virtute a trarcene se avanta. Tu m' hai or liberata de pregione, Se la pietate tua sera\ cotanta, Che me accompagni quivi alla rivera; Se non, mia forma tornara\ qual era. $_ Il giovanetto pien di cortesia Promesse a quella non la abandonare, Sin che condotta in loco salvo sia. La falsa dama con dolce parlare Alla riviera del Riso se invia; Ne/ vi doveti gia\ meravigliare Se co\lto fu Rugiero a questo ponto, Che/ il saggio e il paccio e\ da le dame gionto. Come condotto fu sopra a la riva, La vaga nimfa per la mano il prese, E de lo animo usato al tutto il priva, Si\ che una voglia nel suo cuor se accese De gettarsi nel fiume a l' acqua viva. Ne/ la donzella questo gli contese; Ma seco, cosi\ a braccio, come istava, Ne la chiara onda al fiume se gettava. La\ giu\ nel bel palazo de cristallo Fo^rno raccolti con molta letizia. Orlando e Sacripante era in quel stallo E molti altri baroni e gran milizia. Le Naia\de con questi erano in ballo; Ciuffali e tamburelli a gran divizia Sonavano ivi, e in danze e giochi e canto Se consumava il giorno tutto quanto. Gradasso era rimaso alla boscaglia, Ne/ trova al suo passar strata o sentiero, E sempre avanti il varco gli travaglia Tra l' altre piante un frassino legiero. Lui questo con la spata intorno taglia, Subito uscitte al tronco un gran destriero; Leardo et arodato era il mantello: Natura mai ne fece un cosi\ bello. La briglia che egli ha in bocca e\ tutta d' oro, E cosi\ adorno e\ 'l ricco guarnimento Di pietre e perle, e vale un gran tesoro. Gradasso non vi pone intendimento Che per inganno e\ fatto quel lavoro; Anci se accosta con molto ardimento E da\ di mano a quella briglia bella Senza contrasto, e salta ne la sella. Subito prese quel destriero un salto, Ne/ poscia in terra piu\ se ebbe a callare; Per l' aria via camina e monta ad alto, Come tal volta un sogna di volare. Battaglia non fu mai ne/ alcuno assalto, Qual potesse Gradasso ispaventare; Ma in questo, vi confesso, ebbe paura, Veggendose levato in tanta altura; Perche/ ne l' aria cento passi o piue L' avia portato quella bestia vana. Il baron spesso riguardava in giue, Ma a scender gli parea la scala strana. Quando cosi\ bon pezzo andato fue E ritrovosse sopra alla fiumana, Cader si lascia la incantata bestia; Nel fiume se atuffo\ senza molestia. Cosi\ Gradasso al fondo se atuffoe, E 'l gran caval natando a sommo venne, Poi per la selva via si deleguoe Si\ ratto come avesse a' pie\ le penne. Ma il cavallier, che a l' acqua si trovoe, Subito un altro nel suo cor divenne; Scordando tutte le passate cose, Con le Naia\de a festeggiar se pose. A suon de trombe quivi se trescava Zoiosa danza, che di qua non se usa: Nel contrapasso l' un l' altro baciava, Ne/ se potea tener la bocca chiusa. A cotale atto se dimenticava Ciascun se stesso; et io faccio la scusa, E credo che un bel baso a bocca aperta Per la dolcezza ogni anima converta. In cotal festa facevan dimora Tutti e baroni in suoni e balli e canti; Sol Brandimarte se affatica ancora, Ne/ per la selva puo\ passare avanti, Benche/ col brando de intorno lavora Tagliando il bosco; e da diversi incanti Era assalito, et esso alcun non piglia, Che/ Fiordelisa sempre lo consiglia. Lui taglio\ de le piante piu\ che vinte, E de ciascuna uscia novo lavoro, Or grandi occelli con penne depinte, Or bei palagi, or monti de tesoro; Ma queste cose rimasero estinte, Che/ Brandimarte ad alcuna di loro Mai non se apiglia e dietro a se/ le lassa, E per la selva sino al fiume passa. Come alla riva fu gionto il barone, Divenne in faccia di color di rosa E tutto se cangio\ de opini%one Per trabuccarse ne l' acqua amorosa; E per gran forza de incantazi%one Non se amentava Orlando ne/ altra cosa, E gioso se gettava ad ogni guisa, Se a cio\ non reparava Fiordelisa. Perche/ essa gia\ composti avea per arte Quattro cerchielli in forma di corona Con fiori et erbe acolte in strane parte, Per liberar de incanti ogni persona; E pose un de essi in capo a Brandimarte, Quindi de ponto in ponto li ragiona Lo ordine e il modo e il fatto tutto quanto Per trare Orlando fuor di quello incanto. Il franco cavalliero incontinente Fa tutto cio\ che la dama comanda; Nel fiume se geto\ tra quella gente, Che danza e suona e canta in ogni banda. Ma lui non era uscito di sua mente, Come eron gli altri, per quella ghirlanda Che Fiordelisa nel capo gli pose, Fatta per arte de incantate rose. Come fo gionto giu\ tra quella festa Nel bel palagio de cristallo e de oro, Un de' cerchielli al conte pose in testa, E li altri a li altri duo senza dimoro. Cosi\ la fatason fu manifesta Subitamente a tutti quattro loro; E le dame lasciarno e ogni diletto, Uscendo fuor del fiume a lor dispetto. Si\ come zucche in su vennero a galla; Prima de l' acqua sorsero e cimieri, Poi l' elmo apparve e l' una e l' altra spalla, Et alla riva gionsero legieri. Quindi, levati a guisa di farfalla Che intorno al foco agira volentieri, Sospesi fuo^r da un vento in poco de ora, Qual li soffio\ di quella selva fuora. Chi avesse chiesto a lor come ando\ il fatto, Non l' avrebbon saputo racontare, Come om che sogna e se sveglia di tratto, Ne/ puo\ quel che sognava ramentare. Eccoti avanti a lor ariva ratto Un nano, e solo attende a speronare; E, come presso e cavallier si vede, #_ Segnor, $_ cridava #_ {t} odeti {/t S; odete Z} per mercede! Segnor, se amati la cavalleria, Se adiffendeti il dritto e la iustizia, Fati vendetta de una fellonia Maggior del mondo e piu\ strana nequizia. $_ Disse Gradasso: #_ Per la fede mia! Se io non temessi di qualche malizia E de esser per incanto ritenuto, Io te darebbi volentieri aiuto. $_ Il nano allora sacramenta e giura Che non e\ a questa impresa incantamento. #_ Oh! $_ disse il conte, #_ e chi me ne assicura? Tanto credetti gia\, che io me ne pento. Lo augel ch' esce dal laccio, ha poi paura De ogni fraschetta che se move al vento; Et io gabbato fui cotanto spesso, Che, non che altrui, ma non credo a me stesso. $_ Disse Rugier: #_ Non e\ solo un parere, E ciascun loda la sua opini%one. Direbbe altrui che fosser da temere L' opre de' spirti e queste fatagione; Ma se il bon cavallier fa el suo dovere Non dee ritrarse per condizi%one Di cosa alcuna; ogni strana ventura Provar se deve, e non aver paura. Menami, o nano, e nel mare e nel foco, E se per l' aria me mostri a volare, Verro\ teco a ogni impresa, in ogni loco: Che io mi spaventi mai, non dubitare. $_ Gradasso e 'l conte se arrossirno un poco Odendo in cotal modo ragionare; E Brandimarte al nano prese a dire: #_ Camina avanti, ogniom ti vo^l seguire. $_ Il nano aveva un palafreno amblante: Via se ne va per la campagna piana. Dicea Gradasso verso il sir de Anglante: #_ Se questa impresa fia sublime e strana, E per sorte mi tocca il gire avante, Io voglio adoperar tua Durindana, Anci pur mia, pero\ che il re Carlone Me la promisse, essendo mio pregione. $_ #_ Se lui te la promisse, e lui te attenda! $_ Rispose il conte, in collera salito #_ Ben parlo chiaro, e vo' che tu me intenda, Che non e\ cavallier cotanto ardito, Dal qual mia spata ben non mi diffenda; E se a te piace mo questo partito Di guadagnarla in battaglia per forza, Eccola qua: ma gua\rdati la scorza. $_ Cosi\ dicendo avea gia\ tratto il brando, A cui piastra ne/ usbergo non ripara; Gradasso d' altra parte fulminando Trasse del fodro la sua simitara. Araldo non vi e\ qua che faccia il bando, Ne/ re che doni il campo chiuso a sbara; Ma senza cerimonie e tante ciacare Ben se azufarno, e senza trombe e gnacare. E cominciano il gioco con tal fretta, Con tanta furia e con tanta ruina, Che l' una botta l' altra non aspetta; De intorno al capo l' elmo gli tintina, E ciascun colpo fuoco e fiama getta. Come sfavilla un ferro alla fucina, Come chiocca le fronde alla tempesta, Cotal l' un l' altro mena e mai non resta. Meno\ a due mano il conte un colpo crudo, Con tal furor che par che il mondo cada; Gradasso il vidde e riparo\ col scudo, Ma non giova riparo a quella spada: La targa e usbergo in fino al petto nudo Convien che 'n pezzi a la campagna vada, E la gorzera e parte del camaglio Ne porto\ seco a terra de un sol taglio. Quando il re franco del colpo se avvide, Mena a due mano e il fren frangendo rode; Sino alla carne ogni arma li divide, E 'l gran rimbombo assai de intorno se ode. Dice Gradasso, e tutta fiata ride: #_ Se ben ti rado, fa\cciati bon prode! In questa volta piu\ non te ne toglio, Perche/ a mio senno il pel non e\ ancor moglio. $_ Diceva il conte: #_ Che bufonchie, che? Prima che quindi te possi dividere, Tante te ne daro\ che guai a te, E insegnarotti in altro modo a ridere. $_ Rispose a lui Gradasso: #_ Per mia {add} fe/! {/add; fe\! Z} Se omo del mondo me avesse a conquidere, Esser potrebbe che fusti colui; Ma in verita\ ne/ te stimo ne/ altrui. Quando un tuo pare avessi alla centura, Non restarei di correre a mia posta. Se pur te piace, prova tua ventura: Vieni oltra, vieni, e a tuo piacer te accosta. $_ Orlando se avampo\ fuor di misura, Dicendo: #_ Poco lo avantar ti costa; Ma tra fatti e parole e\ differenzia, Del che vedremo presto esperi%enzia. $_ Tuttavia parla e mena Durindana, Ad ambe mano un gran colpo gli lassa; Manda il cimiero a pezzi in terra piana, E 'l copo col torchion tutto fraccassa. Risuono\ l' elmo come una campana, E il re chino\ giu\ il viso a terra bassa; Di sangue ha il naso e la bocca vermiglia, Perse una staffa e abandono\ la briglia. Ma non percio\ perdette la baldanza Quel re superbo, e divenne piu\ fiero; Parea di foco in faccia alla sembianza. Mena a duo mani e gionse nel cimiero Con tanto orgoglio e con tanta possanza, Che il coppo e il torchio manda nel sentiero. Risuono\ l' elmo, et accerta Turpino Che un miglio o piu\ se odette in quel confino. E fu per trabuccar de lo arcion fuore Il franco conte a quel colpo diverso; La sembianza proprio ha d' un om che more, E piedi ha fuor di staffe e 'l freno ha perso. Fuggendo via ne 'l porta il corridore Per la campagna, a dritto et a traverso; E 'l re Gradasso il segue con la alfana, Per darli morte e tuorli Durindana. Pur ne la istoria il ver se convien dire: A suo dispetto li dava de piglio; Ma Brandimarte non puote soffrire Vedere Orlando posto in tal periglio, Onde correndo se 'l pose a seguire. Volto\ Gradasso il viso, alciando il ciglio, E disse: #_ Anco tu vai cercando noglia? Io ne ho per tutti; venga chi ne ha voglia. $_ Ma in questo Orlando se fu risentito, E ver Gradasso vien col brando in mano. Rugiero allora, el giovane fiorito, Fra lor se pose con parlare umano, Cercando de accordargli ogni partito; E similmente ancor faceva il nano Pregando per pietate e per mercede Che vadano alla impresa che lui chiede. E tanto seppon confortare e dire, Che tra lor fu la zuffa raquetata; Ma ben la compagnia voglion partire, E ciascadun ha sua strata pigliata. Gradasso con Rugier presero a gire Ove il nano una torre ha dimostrata; E Brandimarte e il conte paladino Verso Parigi presero il camino. Quel che Rugier facesse e il re Gradasso, Vi fia poi racontato in altra parte, Perche/ al presente a dir di lor vi lasso, E seguo come il conte e Brandimarte Vennero in Francia caminando a passo, Con Fiordelisa, maestra in tutte l' arte; E una mattina, al cominciar del giorno, Vidder Parigi, che ha lo assedio intorno. Perche/ Agramante, come io vi contai, Sconfitto avendo in campo Carlo Mano E morta e presa di sua gente assai, Se era atendato a cerco per quel piano. Tanta ciurmaglia non se vidde mai Quanta adunata avea quello africano; Ben sette leghe il campo intorno tiene, Che valle e monti e le campagne ha piene. Quei de la terra stavano in diffese, E notte e giorno attendono alle mura, Che/ sol de' paladin vi era il Danese, Che a far beltresche e riparar procura. Ma quando il conte mirando comprese Cotal sconfita e tal disaventura Si\ gran cordoglio prese e dolor tanto, Che for de gli occhi li scoppiava il pianto. #_ Chi se confida in questa vita frale $_ Diceva lui #_ e in questo mondo vano, Lasci gli alti pensieri e chiuda l' ale, Prendendo essempio dal re Carlo Mano, Che si\ vittori%oso e tri%omfale Facea tremar ciascun presso e lontano; Or l' ha del tutto la fortuna privo In un momento, e forse non e\ vivo. $_ Ma, mentre che dicea queste parole, Nel campo si levo\ si\ gran romore, Che par che il cel risuoni insino al sole, E sempre il crido cresce e vien maggiore. Or, bella gente, certo assai mi dole Non poter mo chiarir tutto il tenore; Ma apresso il contaro\ ne l' altra stanza, Che/ in questo canto abbiam detto a bastanza. Dio doni zoia ad ogni inamorato, Ad ogni cavallier doni vittoria, A' principi e baroni onore e stato, E chiunque ama virtu\, cresca di gloria: Sia pace et abundanzia in ogni lato! Ma a voi, che intorno odeti questa istoria, Conceda il re del cel senza tardare Cio\ che sapriti a bocca dimandare. Donevi la ventura per il freno, E da voi scacci ogni fortuna ria; Ogni vostro desio conceda a pieno, Senno, beltade, robba e gagliardia, Quanto e\ vostro voler, ne/ piu\ ne/ meno, Si\ come per bontate e cortesia Ciascun di voi ad ascoltare e\ pronto La bella istoria che cantando io conto. La qual lasciai, se vi racorda, quando Sorse il gran crido al campo de' Pagani, Talabalachi e timpani suonando, Corni di brongio et instrumenti istrani, Alor che Brandimarte e il conte Orlando, Gionti ne' poggi e riguardando e piani, Vider cotanta gente e tante schiere Che un bosco par di lancie e di bandiere. Perche/ sappiati il fatto tutto quanto, L' ordine e\ dato a ponto per quel giorno Di combatter Parigi in ogni canto, E lo assalto ordinato intorno intorno. De li Africani ogni om se da\ piu\ vanto, L' un piu\ che l' altro se dimostra adorno; Chi promette a Macone, e chi lo giura, Passar de un salto sopra a quella mura. Scale con rote e torce aveano assai, Che se movean tirate per ingegno. Piu\ nove cose non se vidder mai: Gatti tessuti a vimine e di legno, Baltresche di cor' cotto et arcolai, Ch' erano a rimirare un strano ordegno, Qual con romor se chiude e se disserra, E pietre e foco tra' dentro alla terra. Da l' altra parte il nobile Danese, Che fatto e\ capitan per lo imperiere, Fa gran ripari et ordina in diffese Saettamenti e mangani e petriere. Con gli occhi suoi veder vo^l lui palese, Che/ con li altrui non guarda volentiere, E sassi e travi e solfo e piombo e foco Per torre e merli assetta in ciascun loco. Sopra a ogni cosa egli ordina e procura La gente armata a piede et a cavallo; Mo qua mo la\ scorrendo per le mura, Non pone a l' ordinar tempo o intervallo. Gia\ se odeno e Pagani alla pianura Con tamburacci e corni di metallo, Sonando sifonie, gnacare e trombe, Che l' aria trema e par che 'l cel rimbombe. O re del celo! O Vergine serena! Che era a veder la misera citate! Gia\ non mi credo che il demonio apena Se rallegrasse a tanta crudeltate. De strida e pianti e\ quella terra piena: Piccoli infanti e dame scapigliate E vecchi e infermi e gente di tal sorte Battonsi il viso, a Dio chiedendo morte. Di qua di la\ correa ciascuno a guaccio, Pallidi {add} e' {/add; e Z} rossi e {t} timidi e\ {/t S; timidi Z} li arditi; Triste le moglie con figlioli in braccio, Sempre piangendo, pregano e mariti Che le diffendan da cotanto impaccio; E disperate a li ultimi partiti, Caccian da se/ la feminil paura, Et acqua e pietre portano alle mura. Suonano a l' arme tutte le campane; De cridi e trombe e\ si\ grande il rumore, Che nol potrian contar le voce umane. Va per la terra Carlo imperatore: Ogni omo il segue, alcun non vi rimane, Che non voglia morir col suo segnore; E lui qua questo e la\ quell' altro manda, Provede intorno et ordina ogni banda. Lo esercito pagano e\ gia\ vicino, Che intorno se distende a schiera a schiera: Alla porta San Celso e\ il re Sobrino Con Bucifar, il re de la Algazera; E Baliverzo, il falso saracino, La\ dove entra di Senna la riviera Se sforza entrar con sua gente perversa; E seco e\ il re de Arzila e quel de Fersa. A San Dionigi il re di Nasamona Col re de la Zumara era accostato: E il re di Cetta e quel di Tremisona Combatteno alla porta del mercato; L' aria fremisce e la terra risona, Che/ la battaglia e\ intorno ad ogni lato, E foco e ferri e pietre con gran fretta Da l' una parte a l' altra se saetta. Non sorse piu\ giamai furor cotale Tra Cristi%ani e gente saracina: Ciascun tanto piu\ fa quanto piu\ vale. Gia\ vengon travi e solforo e calcina, E se sentiva un fraccassar di scale, Un suon de arme spezzate, una roina, E fumo e polve, e tenebroso velo, Come caduto il sol fosse dal celo. Ma non per tanto par che satisfaccia La gran diffesa contra a quei felloni. Come la mosca torna a chi la scaccia, O la vespe aticciata, o i calavroni: Cotal parea la maledetta raccia, Da' merli trabuccata e da' torroni, Che dirupando al fondo giu\ ne viene; Gia\ son de morti quelle fosse piene. Onde era fatto su per l' acqua un ponte, Orribile a vedere e sanguinoso. Quivi era Mandricardo e Rodamonte, Ciascun piu\ di salir voluntaroso; Ni Feraguto, quella ardita fronte, Ne/ il re Agramante si stava oci%oso: L' un piu\ che l' altro di montar se afreza Tra frizze e dardi, e sua vita non preza. Orlando, che attendeva il caso rio, Quasi era nella mente sbigotito; Forte piangendo se acomanda a Dio, Ne/ sa pigliare apena alcun partito. #_ Che deggio fare, o Brandimarte mio, $_ Diceva lui #_ che il re Carlo e\ perito? Perso e\ Parigi ormai! Che piu\ far deggio, Che rui%nato in foco e fiama il veggio? Ogni soccorso, al mio parer, si e\ tardo: Su per le mura gia\ sono e Pagani. $_ Brandimarte dicea: #_ Se ben vi guardo, La\ se combatte, e sono anco alle mani. Deh lasciami callar, che/ nel core ardo Di fare un tal fraccasso in questi cani, Che, se Parigi aiuto non aspetta, Non fia disfatta almen senza vendetta! $_ Orlando alle parole non rispose, Ma con gran fretta chiuse la visiera, E Brandimarte a seguitar se pose, Che vien correndo giu\ per la costiera. Fiordelisa la dama se nascose In un boschetto a canto alla riviera, E quei duo cavallier menando vampo Passarno il fiume e gionsero nel campo. Ciascun di lor fu presto cognosciuto: Sua insegna avea scoperta e suo penone. #_ Arme! arme! $_ se cridava #_ aiuto! aiuto! $_ Ma gia\ son gionti al mastro pavaglione, Che era di scorta assai ben proveduto. Il re Marsilio vi era e Falsirone, Molta sua gente e re de altri paesi, Per far la guardia a' nostri che son presi. Come sapeti, il nobile Olivieri Quivi e\ legato e il bon re di Bertagna, Ricardo e 'l conte Gano da Pontieri, E 'l re lombardo e molti de Alemagna. Or qua son gionti e franchi cavallieri: Ben dir vi so che alcun non se sparagna. Chi se diffende, e chi fugge, e chi resta: Tutti li mena al paro una tempesta. Al pavaglione, ove era la battaglia, Non puote il re Marsilio aver diffese; Gran parte e\ morta de la sua canaglia, Lui bon partito via fuggendo prese. Orlando il pavaglion tutto sbaraglia, Squarzato in pezi a terra lo distese; Ma quando quei pregion viddero il conte, Per meraviglia se signa^r la fronte. Oh che spezzar de corde e di catene Faceva Brandimarte in questo stallo! De arme e ronzoni ivi eron tende piene, Onde e\no armati e montano a cavallo. L' un piu\ che l' altro a gran voglia ne viene Per seguitare Orlando in questo ballo, Qual ver Parigi a corso se distese, E seco e\ Gano e Oliviero el marchese; Re Desiderio e lo re Salamone E Brandimarte (che era dimorato Alquanto per disciorre ogni pregione), Ricardo e Belengieri apresi%ato. Seguiva apresso Avorio, Avino e Ottone, Il duca Namo e il duca Amone a lato, Et altri, tutti gente da gorzera, Che piu\ di cento sono in una schiera. E' gia\ son gionti presso a quelle mura, Ove la zuffa e\ piu\ cruda che mai, Che era cosa a vedere orrenda e scura, Come di sopra poco io ve contai. Grande era quel rumor fuor di misura De cridi estremi e de instrumenti assai, E facevan tremar de intorno il loco, Ne/ altro se odi\a che morte e sangue e foco. Gia\ Mandricardo avea pigliato un ponte, Rotte le sbarre e spezzata la porta, Et avea gente a seguitar si\ pronte, Che ciascun dentro molto se sconforta. Da un' altra parte il crudo Rodamonte Su per le mura ha tanta gente morta Con dardi e sassi, e tanta n' ha percossa, Che vien da' merli il sangue nella fossa. Guarda le torre e spreza quella altezza, Battendo e denti a schiuma come un verro. Non fu veduta mai tanta fierezza: Il scudo ha in collo e una scala di ferro E pali e graffie e corde fatte in trezza, E il foco acceso al tronco de un gran cerro; Vien biastemando e sotto ben se acosta, La scala apoggia e monta senza sosta. Come egli andasse per la strata a passo, Cotal saliva quel pagano arguto. Quivi era il rui%nare e il gran fraccasso: Adosso a lui ciascun cridava aiuto. Se Lucifero uscito o Satanasso Fosse giu\ da lo abisso e qua venuto Per disertar Parigi e ogni sua altura, Non avria posto a lor tanta paura. E nondimanco in tanti disconforti Se adiffendiano per disperazione, Che/ ad ogni modo se reputan morti, Ne/ stiman piu\ la vita o le persone. Poi che, condotti a dolorosi porti, Veggion palese sua destruzi%one, E pali e dardi tranno a piu\ non posso Con sassi e travi a quel gigante adosso. Lui pur salisce e piu\ de cio\ non cura, Come di penne o paglia mosse al vento; Gia\ sopra a' merli e\ sino alla cintura, Ne/ 'l contrastar val, forza ne/ ardimento. Come egli agionse in cima a quelle mura, E nella terra apparve il gran spavento, Levossi un pianto e un strido si\ feroce, Sino al cel, credo io, gionse quella voce. Ma quel superbo una gran torre afferra, E tanta ne spicco\ quanta ne prese; Quei pezzi lancia dentro dalla terra, Dissipa case e campanili e chiese. Orlando non sapea di tanta guerra, Che/ in altra parte stava alle contese; Ma la gran voce che di la\ si spande Venir lo fece a quel periglio grande. Gionse correndo ove e\ l' aspra battaglia: Non fo giamai da l' ira si\ commosso. La gran scala di ferro a un colpo taglia, E Rodamonte roino\ nel fosso, E dietro a lui gran pezzi de muraglia, Che/ gli e\ caduta meza torre adosso; E un merlo gionse Orlando nella testa, Qual lo distese a terra con tempesta. Fo Rodamonte sviluppato e presto. Tanta fierezza avea il forte pagano, Che non mostrava piu\ curar di questo, Come se stato fosse un sogno vano. Ma il franco conte non era ancor desto, Qual tramortito se trovava al piano; Or Rodamonte gia\ non se ritiene, Esce dal fosso e contro a i nostri viene. De esser gagliardo ben li fa mestiero, Che/ a lui de intorno sta la nostra gente: Su l' orlo aponto e\ Gano da Pontiero. Benche/ sia falso e tristo della mente, Purche/ esser voglia e\ prodo e bon guerrero; Ma la sua forza alor giovo\ ni%ente, Che/ Rodamonte, che de l' acqua usciva, De un colpo a terra il pose in su la riva. Questo abandona e ponto non se arresta. Che/ sopra 'l campo afronta Rodolfone; Parente era di Namo e di sua gesta: Tutto il fende il pagan sino allo arcione. Poi mena al re lombardo ne la testa: Come a Dio piacque, colse di piatone, Ma pur cadde di sella Desiderio A gambe aperte e con gran vituperio. La gente saracina, che e\ fuggita Per la gionta de Orlando, ora tornava, Piu\ assai che prima mostrandosi ardita; Che/ Rodamonte si\ se adoperava, Che ciascuno altro volentier lo aita. Di qua di la\ gran gente se adunava: Balifronte di Mulga e il re Grifaldo E Baliverzo, il perfido ribaldo. Quivi era Farurante di Maurina E il franco Alzirdo, re di Tremisona, Il re Gualciotto di Bellamarina Et altri assai che 'l canto non ragiona; Tutti non giongeranno a domatina, Che/ Brandimarte, la franca persona, Ne mandara\ qualcun pur allo inferno, E qualcuno Olivier, se ben discerno. Stati ad odire il fatto tutto a pieno, Che/ or se incomincia da dover la danza. Salamon vide il figlio de Uli%eno, Qual piu\ de un braccio sopra alli altri avanza: Ove il colpo segno\, ne/ piu\ ne/ meno, A mezo il petto il colse con la lanza; Quella se ruppe, e 'l Pagan non se mosse, Ma con la spada il Cristi%an percosse. Il scuto gli spezzo\ quel maledetto, Le piastre aperse, come fosser carte, E crudelmente lo piago\ nel petto; Gionse allo arcione e tutto lo disparte, Il collo al suo ronzon taglio\ via netto. Ora a quel colpo gionse Brandimarte, E, destinato di farne vendetta, Sprona il destriero e la sua lancia assetta. A tutta briglia il cavallier valente Percosse Rodamonte nel costato, Che era guarnito a scaglie di serpente; Quel lo diffese, e pur giu\ cade al prato. Come il romor d' uno arboro si sente, Quando e\ dal vento rotto e dibarbato, Sotto a se/ frange sterpi e minor {t} piante: {/t S; piante, Z} Tal nel cader suono\ quello africante. Or Brandimarte volta al re Gualciotto, Poi che caduto e\ il franco re di Sarza; Ad ambe man lo percosse di botto, Per mezo il scudo lo divide e squarza. Lo usbergo e panciron che egli avea sotto Partitte a guisa de una tela marza; Per il traverso il petto li disserra, E in duo cavezzi il fece andare a terra. Et Olivieri, il franco combattente, Mostra ben quel che egli era per espresso; Alla sua gesta il cavallier non mente, Che/ il re Grifaldo insino al petto ha fesso. In questo tempo Orlando se risente; Stato gli e\ sempre Brigliadoro apresso, Tanto era savio, quella bestia bona! Sta col suo conte e mai non lo abandona. Onde salito e\ subito a destriero, Esce del fosso la anima sicura. Quando quei dentro videro il quartiero, Levase il crido intorno a quelle mura. Fu reportato insino allo imperiero Come apparito e\ Orlando alla pianura, E che scampati sono e Cristi%ani Da' Saracini, e son seco alle mani. Non domandati se lo imperatore Di tal novella zoia e festa prese; A tutti quanti sfavillava il core, Brama ciascun de uscire alle contese. Aperta fu la porta a gran furore, E salta fuori armato il bon Danese, E Guido de Borgogna e\ seco in sella, Duodo de Antona e Ivone de Bordella. Avanti a tutti e\ il figlio de Pipino, Che/ non vo^l restar dentro il re gagliardo; Solo in Parigi rimase Turpino, Per aver della terra bon riguardo. Or torniamo al Danese paladino, Che sopra al ponte scontra Mandricardo, Qual, come io dissi su, poco davante, La\ combatteva, e seco era Agramante. Correndo viene Oger con l' asta grossa, E gionse Mandricardo, che era a piede; Gettar se 'l crede de urto nella fossa, Ma quello e\ ben altro om che lui non crede. Fermosse il saracin con tanta possa, Che al scontro della lancia gia\ non cede; Via passava Rondello a corso pieno, Ma quel pagan gli da\ di man a freno. Et Agramante, che era li\ da lato, Se sforza scavalcarlo a sua possancia; Ma Carlo Mano, che ivi era arivato, Percosse il re Agramante con la lancia Trabuccandolo a terra riversato, E passolli il destrier sopra la pancia. Or qua la zuffa grossa se rinova, Che/ ogniom se affronta e vo^l vincer la prova. Raportato era gia\ di voce in voce Come abattuto se trova Agramante, Onde ciascun se aduna in quella foce: Lo un piu\ che l' altro vo^l ficcarse avante. Quivi e\ Grandonio, il saracin feroce, E seco e\ Feraguto e Balugante; Ma sopra tutti Mandricardo e\ quello Che fa diffesa e mena gran flagello. Sol fu quel lui che Agramante riscosse Per sua prodezza e 'l trasse di travaglia. Oh quanti morti andarno in quelle fosse, Perche/ era sopra al ponte la battaglia, E l' acque dentro diventorno rosse Per tanto sangue che la vista abaglia; Re Carlo, Ogieri e li altri tutti insieme Adosso a quei pagan con furia preme. E gia\ cacciati for gli avea del ponte: Pur tra le sbarre ancor se contrastava; Ecco alle spalle de' Pagani il conte E Brandimarte, che lo seguitava, Con l' altre gente vigorose e pronte. Or la baruffa terribile e brava Qua se radoppia, e tanto dispietata Che simigliante mai non fu contata. Pero\ che Rodamonte, quello altiero, Sempre ha {add} seguito {/add; segui\to Z} Orlando alla spiegata; Piu\ non si tien ne/ strata ne/ sentiero, Tutta la zuffa e\ in se/ ramescolata; Ne/ adoperarse ormai facea mestiero: Tanto e\ la gente stretta et adunata, Che Rodamonte solo e solo Orlando Fan piazza larga quanto e\ lungo il brando. Ma fusse o per quel populo devoto Che in Parigi pregava con lamento, O per altro destino al mondo ignoto, Ne l' aria se levo\ tempesta e vento, E sopra al campo sorse un terremoto, Dal qual tremava tutto il tenimento; Terribil pioggia e nebbia orrenda e scura Ripieno aveano il mondo di paura. E gia\ chinava il giorno ver la sera, Che piu\ facea la cosa paventosa; Di qua, di la\ se ritrasse ogni schiera, E manco\ la battaglia tenebrosa. Ma Turpin lascia qua la istoria vera, Che in questi versi ho tratto di sua prosa, E torna a ragionar di Bradamante, De la qual vi lasciai poco davante, Quando ella occise al campo Daniforte, Quello avisato e falso saracino Che a tradimento la feritte a morte: Ma lui perse la vita, essa il camino, Che/ era la notte ombrosa e scura forte. Lei sempre via passo\ sera e matino Per quel deserto inospite e selvaggio, Ove atrovo\ nel mezo un romitaggio. E gran bisogno avendo di riposo, Per molto sangue che perduto avia, E per il camin lungo e faticoso, Smontava a terra e alla porta battia; E quel romito, che stava nascoso, Signosse il viso e disse: #_ Ave Maria! Chi condotto ha costui? O che miracolo Fa che omo arivi al povero abitacolo? $_ #_ Io sono un cavallier, $_ disse la dama #_ Ch' ier me smaritti in questa selva oscura, Et ho de riposar bisogno e brama, Che/ son ferito e stracco oltra misura. $_ Rispose quel romito: #_ In questa lama Mai non discese umana creatura; Da sessanta anni in qua che vi son stato, Non vidi una sol volta uno omo nato. Ma spesse fiate il demonio me appare, In tante forme ch' io non saprei dirti, E poco avante io presi a dubitare Che fosti quello, e stei per non aprirti. Questa matina qua viddi passare Una barchetta carica de spirti, Che ne andava per l' aria alla seconda Battendo e remi come fusse in onda. Colui che stava in poppa per nocchiero, Mi disse: #" Fratacchione, al tuo dispetto Partito e\ gia\ di Francia il bon Rugiero, Qual seri\a stato un cristi%an perfetto. Tolto lo abbiamo dal dritto sentiero, Che/ vo\lto avria le spalle a Macometto; Ma di sua legge ormai non credo che esca, Et hollo detto accio\ che ti rincresca. $" Passo\ la barca, poi che ebbe parlato Quel tristo spirto, e piu\ non fu veduta; Et io rimasi assai disconsolato, Pensando che era l' anima perduta Di quel baron, che morira\ dannato, Se Dio per sua pietate non lo aiuta, O se persona non li mette in core Di batezarse e uscir di tanto errore. $_ Quando queste parole udi\ la dama, Tutta se accese in viso come un foco; Pensando al cavallier che cotanto ama, Nella sua mente non ritrova loco; E si\ desia di rivederlo e brama, Che cura di riposo o nulla, o poco, A benche/ quel romito assai la invita A medicarse, perche/ era ferita. E tanto ben la seppe confortare, Che pur al fine ella piglio\ lo invito; Ma, volendoli il capo medicare, Vide la trezza e fo tutto smarito. Battese il petto e non sa che si fare, #_ Tapino me, $_ dicendo #_ io son perito! Questo e\ il demonio, certo (il vedo a l' orma), Che per tentarmi ha preso questa forma. $_ Pur cognoscendo poi per il toccare Ch' ella avea corpo e non era ombra vana, Con erbe assai la prese a medicare, Si\ che la fece in poco de ora sana; Benche/ convenne le chiome tagliare Per la ferita, che era grande e strana: Le chiome li taglio\ come a garzone, Poi li dono\ la sua benedizione, Dicendo: #_ Vanne altrove a ogni maniera, Che/ donna non puo\ star con omo onesta. $_ Lei se partitte e gionse a una riviera, Qual traversava per quella foresta. Il sole a mezo giorno salito era: E fame e sete e 'l caldo la molesta, Onde alla ripa discese per bere; Bevuto avendo, posese a giacere. Lo elmo si trasse e il scudo se dislaccia, Che/ qua persona non vede vicina; Prese a posar col capo in su le braccia. Cosi\ dormendo quella peregrina, Era venuta in questo bosco a caccia Una dama, nomata Fiordespina, Figliola di Marsilio, re di Spagna, Con cani e occelli e con molta compagna. Questa cacciando gionse in su la riva De la fiumana che io dissi primiero, E vide Bradamante che dormiva: Penso\ che fosse un qualche cavalliero. Mirando il viso e sua forma giuliva, De amor se accese forte nel pensiero, ## Macon $# fra se/ dicendo ## ne/ natura Potria formar piu\ bella creatura. Oh che non fosse alcun meco rimaso! Fosse nel bosco tutta la mia gente, O partita da me per qualche caso, O morta ancora, io ne daria ni%ente, Pur che io potessi dare a questo un baso, Mentre che el dorme si\ suavemente Ora aver pazi%enza mi bisogna, Che/ gran piacer se perde per vergogna. $# Parlava Fiordespina in cotal forma, Ne/ se puotea mirando sazi%are. Si\ dolcemente par che colui dorma, Che non se atenta ponto a disvegliare. Ma gia\ vargata abbiam la usata norma Del canto nostro, e convien riposare; Apresso narraro\ la bella istoria: Dio ce conservi con piacere e gloria. Poi che il mio canto tanto a voi diletta, Che/ ben ne vedo nella faccia il signo, Io vo' trar for la citera piu\ eletta E le piu\ argute corde che abbia in scrigno. Or vieni, Amore, e qua meco te assetta, E se io ben son di tal richiesta indigno, Perche/ e mirti al mio capo non se avoltano, Degni ne son costor che intorno ascoltano. Come nanti l' aurora, al primo albore, Splendono stelle chiare e matutine, Tal questa corte luce in tant' onore De cavallieri e dame peregrine, Che tu po^i ben dal cel scendere, Amore, Tra queste genti angelice e divine; Se tu vien' tra costoro, io te so dire Che starai nosco e non vorai partire. Qui trovarai un altro paradiso; Or vieni adunque e spirami, di graccia, Il tuo dolce diletto e 'l dolce riso, Si\ che cantando a questi satisfaccia De Fiordespina, che mirando in viso A Bradamante par che se disfaccia E del disio se strugga a poco a poco, Come rugiada al sole o cera al foco. E non potea da tal vista levarsi: Quanto piu\ mira, de mirar piu\ brama, Si\ come e farfallin, sin che sono arsi, Non se sanno spiccar mai dalla fiama. Erano e cacciatori intorno sparsi, E qual suo cane e qual suo falcon chiama, Con corni e cridi menando tempesta; Onde al romor la fia de Amon se desta. Si\ come gli occhi aperse, incontinente Una luce ne uscitte, uno splendore, Che abbaglio\ Fiordespina primamente, Poi per la vista li passo\ nel core; E ben ne dimostro\ segno evidente, Tingendo la sua faccia in quel colore Che fa la rosa, alorche/ aprir se vo^le Nella bella alba, allo aparir del sole. Gia\ Bradamante se era rilevata, E perche/ a gli atti e allo abito comprese Quest' altra esser gran dama e pregi%ata, La saluto\ con modo assai cortese; E dove la iumenta avia legata, Quando da prima in su il fiume discese, Ne venne, che/ trovarvela vi crede; Ma non la trova et ove sia non vede, Perche/ a se stessa avia tratta la briglia, E nel bosco piu\ folto errando andava. Or tal sconforto la dama se piglia, Che quasi gli occhi a lacrime bagnava; Ma amor, che ogni intelletto resviglia, A Fiordespina subito mostrava Con qual facilitate de legiero Se trovi sola con quel cavalliero. Essa aveva un destrier de Andologia, Che non trovava parangone al corso; Forte e legiero, un sol diffetto avia, Che, potendo pigliar co' denti il morso, Al suo dispetto l' om portava via, Ne/ si trovava a sua furia soccorso. Sol con parole si puotea tenire: Cio\ sa la dama e ad altri nol vo^l dire. Per questo crede lei di fare acquisto Di Bradamante, che stima un barone, E dice: #_ Cavallier, tanto stai tristo Forse per aver perso il tuo ronzone. Se ben non te abbia cognosciuto o visto, La ciera tua mi mostra per ragione Che non po^i esser di natura fello: Alle piu\ volte bono e\ quel che e\ bello. Onde non credo poter collocare In altrui meglio una mia cosa eletta; Pero\ questo destrier ti vo' donare, Che non ha il mondo bestia piu\ perfetta. Sol colui da\, qual da\ le cose care; Ciascun privar se sa de cosa abietta: E, per stimarme di poco valore, Io non ardisco di donarti il core. $_ Cosi\ dicendo salta della sella E il corsier per la briglia li presenta. Bradamante, che vide la donzella Nel viso di color de amor dipenta, E gli occhi tremolare e la favella, Dicea tra se/: ## Qualche una mal contenta Sera\ de noi e ingannata alla vista, Che/ gratugia a gratugia poco acquista. $# Cosi\ tra se/ pensando, Bradamante Disse alla dama: #_ Questo dono e\ tale Che a meritarlo io non seri\a bastante: Se ben tutto mi dono, poco vale. Ma il dar per merto e\ cosa di mercante, E voi, che aveti lo animo regale, Degnareti accettarmi quale io sono, Che il corpo insieme e l' anima vi dono. $_ #_ Cio\ non rifiuto, $_ disse Fiordespina #_ Ne/ di cosa ch' io tengo, piu\ me esalto; Non fece mai, che io creda, un don regina, Che ne pigliasse guidardon tanto alto. $_ Bradamante tacendo a lei se inclina, E si\ come era armata prese un salto, Che avria passato sopra una ziraffa; Sali\ a destriero, e non tocco\ la staffa. La Saracina a quello atto se affisse, Con gli occhi fermi e di mirar non saccia, Poi chiamando e compagni intorno, disse: #_ Per me, non per voi fatta e\ questa caccia. Se al mio comando alcun disobidisse, Sera\ caduto nella mia disgraccia, Che meglio vi sera\ cader nel foco: Vo' che ciascun stia fermo nel suo loco. Stativi quieti e come gente mute, E lasciate venir le bestie fuora, Pero\ che io sola le vo' seguir tute; E tu, barone, apresso a me dimora. Piacer non ho maggior, se Dio m' aiute, Che quando un forastier per me se onora, E non e\ cosa, a mia {add} fe/ {/add; fe\ Z} te prometto, Che io non facessi per darti diletto. $_ Acquetossi ciascun per obedire: Chi stende lo arco, e chi suo cane agroppa; Gia\ tutto il bosco si sentia stromire De corni e abagli, e 'l gran romor se incoppa. Eccoti un cervo de la selva uscire, Che avea le corde insino in su la groppa, Un cervo per molti anni cognosciuto, Perche/ il maggior giamai non fu veduto. Questo usci\ al prato de un corso si\ subito, Che non par che lo aresti pruno o lapola, E venne presso a Fiordespina un cubito, Si\ che aponto alla coda e can li scapola; E fra se stessa diceva: ## Io me dubito Che costui resti e non senti la trapola, Se, pregando che segua, non impetro $#; E poi se volse e disse: #_ Vienmi dietro. $_ Nel fin de le parole volta il freno, Seguendo il cervo, e pur costui dimanda. Benche/ avesse uno amblante palafreno (Quale era nato nel regno de Irlanda, E correa come un veltro, o poco meno, Come tutti i roncin di quella banda; Non gia\ che fosse in corso simigliante A l' altro, che avea dato a Bradamante), Quello andaluzo correva assai piu\ Che non volea il patrone alcuna fiata. Ora apena nel corso posto fu, Che varco\ Fiordespina de una arcata. Gia\ se pente la dama esservi su, E vede ben che la bocca ha sfrenata; Ora tira di possa, or tira piano, Ma a retenerlo ogni remedio e\ vano. Era davanti un monte rilevato, Pien di cespugli e de arboscelli istrani, Ma non ritenne il cavallo affogato: Questo passo\, come ha passato e piani. Il cervo alle sue spalle avia lasciato; Ben lo ha vicino, e presso a questo e cani, E poco longe a' cani e\ Fior de spina, Che studia il corso e quanto puo\ camina. Nella scesa del monte a ponto a ponto Fo preso il cervo da un can corridore; E come fu da questo primo agionto, Li altri poi lo aterrarno a gran furore. Ora faceva Fiordespina conto De non lasciar piu\ gire il suo amatore, E scridando al destrier, come far suole, Fermar lo fa ben presto come vo^le. Non dimandar se Bradamante alora, Vedendo il destrier fermo, se conforta, E smonto\ de lo arcion senza dimora, Che quasi gia\ se avea posta per morta, Tanto che li batteva il core ancora. E Fiordespina, che e\ di questo accorta, Gli disse: #_ O cavallier, vo' che tu imagine Che un fal commesso ho sol per smenticagine. Ben si suol dir: non falla chi non fa. Non so come mi sia di mente uscito Di farti noto che il destrier, che te ha Quasi condutto di morte al partito, Qualunche volta se gli dice: #" Sta! $" Non passarebbe piu\ nel corso un dito; Ma, come io dissi, me dimenticai Farlo a te noto, e cio\ mi dole assai. $_ Rimase Bradamante satisfatta Per le parole et anco per le prove, Che/, correndo il cavallo a briglia tratta, Come odiva dir: #" Sta! $" piu\ non se move. La esperi%enza fo piu\ volte fatta; Al fin smontarno in su l' erbette nove, Sottesso l' ombra del fronzuto monte, Ove era un rivo e sopra a quello un ponte. Quivi smontarno le due damigelle. Bradamante avia l' arme ancora intorno, L' altra uno abito biavo, fatto a stelle Quale eran d' oro, e l' arco e i strali e 'l corno; Ambe tanto legiadre, ambe si\ belle, Che avrian di sue bellezze il mondo adorno. L' una de l' altra accesa e\ nel disio, Quel che li manca ben sapre' dir io. Mentre che io canto, o Iddio redentore, Vedo la Italia tutta a fiama e a foco Per questi Galli, che con gran valore Vengon per disertar non so che loco; Pero\ vi lascio in questo vano amore De Fiordespina ardente a poco a poco; Un' altra fiata, se mi fia concesso, Racontarovi il tutto per espresso.